mercoledì 9 marzo 2011

L'EURO CI SALVERA'

Pubblico il seguente articolo dell’economista Martin Wolf perché sposa perfettamente le tesi che vado esponendo da qualche tempo dalle pagine di questo blog. Ebbi modo di dire, in più di una circostanza, che il pericolo più grave e, fino ad un certo punto, più probabile, fosse l’estinzione dell’euro quale moneta unica, ed il catastrofico ritorno alle valute nazionali. Ora, in questi ultimi mesi, nonostante il quadro generale (la scarsa crescita degli USA, la crisi mediorientale, l’aumento del debito sovrano dei paesi periferici dell’UE) non sia confortante, questo pericolo sembra scongiurato. Martin Wolf illustra egregiamente per quali motivazioni la moneta unica europea, nel medio-lungo termine, si rivela, tutto sommato, l’asso vincente per tutti i paesi dell’eurozona (Germania compresa). Oddio, non dimentichiamo che la crisi non solo non dà alcun segno di risoluzione, anzi, procede inesorabilmente secondo un copione che si può solo intuire. L’aumento dei tassi da parte della BCE, misura indispensabile nel caso di spirale inflazionistica, se da un lato è una misura indispensabile, dall’altro non facilita certo le nostre già magre esportazioni e pone in maggiori difficoltà le famiglie in procinto di accendere un mutuo. La bolla dei derivati, i prodotti strutturati fatti come scatole cinesi vuote, deve ancora esplodere: le nostra banche sono piene di questi prodotti tossici e anche questo fornirà un grave scossone alle nostre economie. La crisi petrolifera attuale e l’instabilità di tutti i paesi arabi non facilita certo le cose. Se a questo aggiungiamo il taglio ulteriore del rating della Grecia da parte di Moody’s e la messa sotto osservazione del Portogallo da parte di Standard & Poors, il quadro non è incoraggiante. Una cosa, però, abbiamo capito tutti da questi tre anni di crisi: sia gli USA che l’Unione  Europea hanno serrato i ranghi, hanno compreso che andare ognuno per i fatti propri badando al solo interesse particolare sono obiettivi illusori. Nessun paese può, non dico uscire, ma galleggiare sulla crisi da solo: c’è bisogno di una Europa almeno finanziariamente unita, compresi i paesi più deboli. Solo così abbiamo una speranza di uscire dal lungo tunnel senza troppi danni. Quanto al secondo pericolo da molti paventato, quello di un default dello stato italiano, credo sia bene essere ottimisti. Non solo perché siamo “too big too fall” (troppo grandi per cadere) ma anche perché grazie ad un sistema bancario ancora solido grazie ai risparmiatori e grazie alle politiche dei nostri istituti di credito che non si sono mai esposte incautamente (si pensi ai mutui americani subprime), anche il nostro stato, nonostante il pessimo rapporto debito pubblico – PIL, dovrebbe resistere ai futuri terremoti finanziari. E a chi mi legge, mi permetto di dare un sommesso consiglio: non fate l’errore di consultare quotidianamente i periodici economici, i siti deputati all’economia e alla finanza, non badate troppo a quello che gli inglesi chiamano “rumors”. I rumors, paragonabili alle “dicerie” alle “voci di corridoio” ai comunicati non ufficiali, sono pericolosi, perché dicono tutto e il contrario di tutto. Sorvegliare quotidianamente gli indici di borsa, l’andamento dei propri titoli ecc. non fa che generare, data l’instabilità, la “volatilità” dei mercati che contraddistingue questa epoca, una destabilizzazione delle nostre poche e confuse idee. Consultate i listini periodicamente, senza cedere a panico, con l’idea che, alla distanza, tutto sommato, ce la possiamo fare, possiamo uscirne con danni contenuti.

Il 16 dicembre 2010, i capi di governo europei hanno dichiarato solennemente che erano «pronti a fare tutto il necessario» per difendere l'euro. Le parole non costano niente. Gli scettici probabilmente si chiederanno se è il caso di prenderli sul serio. Questa volta, sì. L'euro con ogni probabilità sopravviverà, anche se non sarà un percorso facile. Ci riuscirà per tre ragioni: la prima è che la moneta unica è sostenuta da un impegno politico forte; la seconda è che gli stati membri hanno un interesse a lungo termine a preservarla; e la terza è che i paesi dell'Eurozona se lo possono permettere.
Insomma, Eurolandia ha la volontà e i mezzi per tenere a galla l'esperimento dell'euro. Un nuovo e interessante rapporto intitolato "Europe will work", pubblicato dalla Nomura Global Economics sotto la direzione di John Llewellyn e Peter Westaway, spiega perché. L'euro è il prodotto di un processo di integrazione europea che è cominciato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Anche per i leader dei nostri giorni il progetto europeo rimane un progetto esistenziale, anche se la memoria della guerra è ormai sbiadita tra la popolazione. E anche il presupposto che l'integrazione economica avrebbe creato forti interessi per la propria perpetuazione si è rivelato corretto. Infine, le conseguenze di una frantumazione, anche parziale, dell'Eurozona sono imponderabili e terrificanti. Solo in circostanze estreme i leader europei prenderebbero in considerazione un passo del genere.
E dunque, se tanti tedeschi sono arrabbiati per il lassismo di certi partner, le classi dirigenti tedesche restano consapevoli dei rischi legati all'isolamento e dei benefici di stabilità che il progetto europeo ha apportato al loro paese nei suoi rapporti con tutti gli stati vicini. A loro volta, i leader dei paesi che si trovano in difficoltà temono di non contare più nulla in caso di uscita dall'euro. Ciò non significa che una spaccatura, in una forma o nell'altra, sia inconcepibile: la Germania uscirebbe se la classe politica giungesse alla conclusione che l'appartenenza all'euro è incompatibile con la stabilità monetaria; e anche i paesi della periferia uscirebbero se giungessero alla conclusione che l'appartenenza all'euro è incompatibile con la prosperità. Ma nessuno è vicino a una decisione del genere, in questo momento.
Una ristrutturazione del debito è abbastanza probabile, una spaccatura di Eurolandia molto meno. Paradossalmente, la tragedia dell'euro è che ha funzionato troppo bene. La convergenza dei rischi percepiti ha stimolato una convergenza accelerata dei redditi. Nell'euforia del momento, prestatori incauti hanno prestato a governi irresponsabili (come in Grecia) o soggetti privati sconsiderati (come in Irlanda e in Spagna) la corda con cui impiccarsi. Il risultato è stato un indebitamento colossale.
Alla fine, anche il più ottuso dei prestatori recupera la ragione. Ma quando i prestatori privati stringono il cappio, quello che concettualmente è debito privato si trasforma di solito in debito pubblico, con i governi che cercano di salvare il sistema finanziario sull'orlo dell'implosione e di sorreggere un'attività economica allo sbando. Anche paesi con i conti pubblici in ordine, come l'Irlanda e la Spagna, si sono ritrovati alle prese con problemi del genere. Il debito pubblico irlandese secondo le previsioni arriverà nel 2013 al 125% del prodotto interno lordo (era al 25% nel 2007), e circa un terzo di questo incremento è da ascriversi al salvataggio delle banche.
La buona notizia è che i mercati si sono accorti del loro errore. La cattiva notizia è che questa presa di coscienza ha assunto proporzioni colossali, lasciandosi dietro un debito smisurato per i paesi in difficoltà e un doloroso rompicapo per l'Eurozona. Come osserva il rapporto della Nomura, la sostenibilità di un debito pubblico dipende soltanto da tre fattori: il disavanzo primario (prima degli interessi sul debito); l'effetto valanga, cioè il rapporto tra il tasso d'interesse e la prospettiva di crescita; l'impatto sul debito pubblico degli aggiustamenti "stock e flussi", cioè la necessità di salvare le banche o la deflazione da indebitamento (forti incrementi del debito a causa di cadute dei prezzi sul mercato interno o svalutazioni della moneta quando il debito è denominato in valuta estera). Le crisi, per loro stessa natura, rendono molto più gravi tutti e tre questi fattori.
Un aspetto particolarmente importante per le prospettive di crescita, la tenuta dei conti pubblici e il pericolo di deflazione da indebitamento è che i paesi indebitati vedono calare drasticamente la competitività durante gli anni della convergenza. Tra il 1999 e il 2007 il costo unitario del lavoro è cresciuto, rispetto alla Germania, del 31% in Irlanda, del 27% in Grecia e Spagna e del 24% in Portogallo. Ci vorrà parecchio tempo prima che questi paesi possano tornare a essere competitivi.
Il rapporto mostra alcuni dati inquietanti sulle dimensioni del risanamento che dovranno affrontare i paesi in difficoltà. Supponiamo ad esempio che l'obiettivo sia quello di arrivare a un rapporto debito/Pil del 60% (il parametro stabilito dal Trattato di Maastricht) entro il 2030. Supponiamo inoltre che il tasso di interesse superi solo dell'1% il tasso di crescita del Pil nominale: in questo caso, la riduzione del disavanzo primario strutturale tra il 2009 e il 2020 dovrebbe essere pari al 16-18% del Pil in Grecia, al 14-16% in Irlanda, al 10-12% in Spagna e all'8-10% in Portogallo. La portata della sfida è in parte spiegata dalle proporzioni del disavanzo primario iniziale: 9,8% in Grecia, 9,7% in Irlanda, 7,5% in Spagna e 5,4% in Portogallo. Non c'è da stupirsi che i mercati siano riluttanti a finanziare a condizioni sostenibili alcuni di questi paesi.
Sono sfide da far tremare i polsi. Faccio fatica a credere che si riuscirà a evitare una ristrutturazione del debito in tutti questi paesi. Trovo imperdonabile che il precedente governo irlandese abbia garantito con tanta leggerezza i debiti delle banche, e che il resto dell'Unione europea abbia sostenuto questa decisione. È assolutamente sbagliato, per uno stato sovrano, distruggere il proprio credito per salvare i creditori delle proprie banche. E non migliora le cose - al contrario - il fatto che lo faccia per proteggere i sistemi finanziari di altri paesi.
Comunque sia, le ristrutturazioni del debito non rappresentano una minaccia mortale per l'euro. È il caso di ricordare che Grecia, Irlanda e Portogallo rappresentano solo il 6% del Pil della zona euro. La stessa Spagna rappresenta appena l'11%. E il debito pubblico in tutta Eurolandia ammonta solo all'84% del Pil, mentre il disavanzo è al 6%: una situazione, in tutti e due i casi, migliore di quella degli Stati Uniti.
La zona euro deve conseguire tre obiettivi: arrestare il panico sulla situazione delle banche e dei conti pubblici; aiutare i paesi in difficoltà a rimettere in sesto l'economia; creare un meccanismo in grado di prevenire crisi del genere in futuro. Da questo punto di vista Eurolandia ha un grande vantaggio (l'euforia da convergenza è finita) e un grande ostacolo (il fatto che alcuni stati membri si trovino in grandi difficoltà). Ci si può solo chiedere se le idee attualmente in discussione siano all'altezza di queste sfide.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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