lunedì 30 agosto 2010

L'IMPERO NANO DI BLOB

Nel più assoluto e perfetto squallore dei palinsesti televisivi della TV in chiaro, tra mancanza totale di originalità, di professionalità, di imparzialità, l’unico programma di informazione degno di questo nome è (non scopro nulla di nuovo) proprio “BLOB”. Enrico Ghezzi e i suoi, nonostante le traversie disciplinari interne all’azienda, continuano a fare, forse addirittura al di là delle loro aspettative e dei loro propositi dichiarati, informazione seria e indipendente. Arrivati a questo punto, infatti, rinuncio a discutere: non guardo più la TV; i notiziari, con la parziale eccezione del TG3 sono talmente filogovernativi e propagandistici da risultare talmente grotteschi, che, al confronto, BLOB diventa una fonte di informazione seria e ineccepibile. Sappiamo ormai da tempo che la TV non è in grado di fornire una informazione che non sia faziosa, ci è venuta in soccorso la rete con un consistente numero di siti e blog più o meno indipendenti dai quali trarre le notizie più attendibili. Non tutti saranno perfetti, certo, ma se non altro hai la possibilità di scegliere tra un discreto numero di siti. Per questo mi sento di consigliare, agli irriducibili della televisione, di non perdersi la giornaliera puntata di “Blob” per ottenere, in modo piacevolmente ironico, le informazioni del giorno. Da qualche tempo Blob ha inaugurato una serie, che è diventata una striscia quotidiana, intitolata “Impero nano”, che, grazie al formidabile, beffardo montaggio, strappa la risata, pur mettendo in scena la più triste, la più amara delle realtà. Qui, tra caste, consorterie e cricche, si respira un’aria da ultimi giorni dell’Impero di Oriente. Blob, in pochi secondi, grazie al suddetto montaggio, riesce a trasmettere un’idea molto vicina alla realtà di questo sciagurato paese e di coloro che lo stanno trascinando nella povertà, economica e culturale. L’offerta televisiva, non solo quella estiva, è ormai solo costituita da minestre riscaldate, stracotti riciclati, e format acquistati all’estero per quattro soldi. Per chi abbia avuto la possibilità di viaggiare, di visionare la TV di paesi anche non europei, sarà facile farsi un’idea di come sia misera la nostra offerta pseudo culturale e di intrattenimento. Sono stato recentemente, e per un periodo discretamente lungo, in Turchia, paese notoriamente non troppo liberale. Ebbene, posso assicurare che la televisione di quel paese, da me osservata nell’arco di un mese, mi è apparsa assai più progredita della nostra. Il berlusconismo, che non è una corrente di pensiero, è solo un recipiente senza contenuto, ha progressivamente depauperato i nostri palinsesti, costringendo la RAI ad un inseguimento al trash, nella assurda ricerca di un superamento nel cattivo gusto. Forse Berlusconi è in buona fede (ma allora ci sarebbe da dubitare delle sue facoltà mentali), forse ritiene davvero di essere un uomo provvidenziale per il paese, l’unico baluardo all’avanzata di inesistenti comunisti: certo, tra qualche anno, forse solo dopo la sua morte, ci renderemo pienamente conto della smisurata entità del danno che ha causato al nostro paese. Politicamente, con la costituzione di un assurdo partito-azienda, economicamente, con l’emanazione di leggi e decreti pro domo sua, culturalmente con lo smantellamento della televisione culturale fatta di notiziari che si sforzano di essere imparziali e di intrattenimento intelligente. Un grazie allora ad Enrico Ghezzi e ai suoi collaboratori di Blob, una specie di fort Apache accerchiato dai demolitori di cultura.

Agosto 2010 Roberto Tacchino

DISOCCUPATE LE STRADE DAI SOGNI

Sempre più spesso, sui blog, sui giornali, in TV, anche su CDC, si levano critiche più o meno aggressive (per lo più assai superficiali e a volte grossolane) contro i cosiddetti “profeti di sventura”, le Cassandre che predicono o prefigurano scenari negativi se non catastrofici per l’Occidente in generale, e segnatamente per l’Italia. Sostengono, queste anime belle imbevute della sottocultura massmediale, che tali personaggi sono dei disfattisti masochisti e flagellanti, vedono il bicchiere mezzo vuoto invece che mezzo pieno. Il problema è che il bicchiere non è mezzo pieno: è solo vuoto, anzi, a guardar bene non c’ è neppure il bicchiere, inteso come contenitore. Questi figli dei media, berlusconiani involontari o immaginari, senza capire alcunché di economia o di finanza, sostengono che gli analisti come Eugenio Benetazzo sono degli speculatori frustrati, dei razzisti nazifascisti, ammalati del vizio tutto italiano dell’autodenigrazione. Quelli in buona fede non comprendono perché poco informati o vittime di pregiudizi, quelli in cattiva fede sono sul libro paga di qualche lobby, di qualche casta, di qualche cricca o di qualche consorteria come la P3. Coloro che non hanno gli occhi foderati di mortadella cominciano a vedere, man mano che la nebbia va dissolvendosi, le cose nella loro più cruda ed amara realtà. Riassumiamo ancora una volta.
Si parla da due anni di crisi economica. Non c’è nessuna crisi, perché le crisi, anche quella del 1929, hanno un inizio ed una fine. Questa no. Se l’inizio si può convenzionalmente stabilire con il fallimento della Lehman Brothers, l’uscita dal tunnel non ci sarà più. Semplicemente perché non di crisi si tratta, ma di una svolta storica, epocale, la fine, con una lunghissima coda, di un’era, di un sistema, quello capitalistico, al termine del quale è difficile intravvedere quello che seguirà. Ogni singolo posto di lavoro perduto costituisce una perdita irrimediabile, irrevocabile, perché non sarà più recuperato. Alla crisi finanziaria, provocata dalle distorsioni del mercato lasciato a se stesso, dall’ignavia o, peggio, dall’incompetenza di Bush in primo luogo, e dal velleitarismo criminale di Greenspan, si è innestata quella economica, dovuta, in larga parte dalla crisi di liquidità delle banche, divenute troppo prudenti ad elargire credito alle imprese (e le imprese senza credito non sopravvivono), ma anche dal volgare, ripugnante opportunismo di molti imprenditori italiani, che, approfittando in modo strumentale della crisi, hanno delocalizzato le loro azienda nei paradisi retributivi, dove la gente lavora per un una manciata di lenticchie. Non pareva neppure vero, a questi signori, di cui nessuno parla, di cogliere al volo l’occasione di piangere miseria in patria (“non posso più andare avanti, sono costretto a chiudere…”) per riaprire le loro imprese nell’est europeo o in Asia. Tra una decina d’anni l’Italia non sarà più un paese industrializzato: le alternative esistono solo in teoria, ma, di fatto, sono impraticabili. Un paese deindustrializzato, deve rivolgersi al terziario, dal quale può derivare qualche provento, può affinare ed approfondire quei pochi settori fortemente specialistici dove il made in Italy ha ancora un certo seguito nel mondo. Ma, non potendo contare su di una “ruralizzazione” (non ci riuscì neppure Mussolini), deve necessariamente fare leva sui patrimoni storico-artistico e paesaggistico. Ma sappiamo bene come viene conservato e mantenuto tale patrimonio: pessimamente. Pompei ed Ercolano sono pronte alla chiusura, non ci sono risorse per la manutenzione degli scavi, o se ci sono, sono state divorate dalla Camorra, i Musei, i parchi, le aree protette, con qualche felice eccezione, sono gestite da persone senza entusiasmo e senza idee, attente solo a conservare il posto o le prebende acquisite. Non parliamo delle strutture di accoglienza, che, lungi dall’elaborare una linea comune, badano solo al loro piccolo interesse particolare, mantenendo prezzi altissimi e servizi mediocri, tali da far scappare anche il turista più ben disposto. L’attuale governo, formato da nani, ballerine ed un sultano, è talmente ridicolo da non comprendere di cadere costantemente nella comicità involontaria. I personaggi, siano essi politici, giornalisti, economisti ecc. che parlano di “ripresa debole o incerta” mentono spudoratamente. Non è che la ripresa sia debole o fragile, il fatto è che la ripresa non esiste. Sappiamo come si possa giocare con i numeri, ce lo ha insegnato un maestro del settore, Silvio Berlusconi, Non è in atto una crisi vera e propria, dunque non può neppure esserci ripresa. Può sussistere solamente stagnazione o recessione, almeno per un decennio, poi si vedrà. La prova che nella crisi ci siamo fino al collo è che basta che una agenzia di rating faccia una affermazione piuttosto che un’altra, e i mercati bruciano milioni d euro. Si leggono le veline di Moody’s o di Standard & Poor’s ponendo attenzione addirittura alla punteggiatura: una virgola in più o in meno può condizionare non dico l’andamento di un titolo piuttosto che di un altro, ma addirittura le sorti di un paese intero. Tutta l’Europa, l’est e il sud più l’Irlanda, con l’eccezione della Germania, del Regno Unito, dell’Olanda e della Scandinavia, sono, nei prossimi anni, a rischio default. L’iniezione di liquidità voluta dal quel vecchio trombone visionario di Trichet, serve solo a stabilizzare temporaneamente la situazione. L’inchiodare i tassi di sconto all’1% (misura che dovrebbe essere eccezionale e limitata alla fase acuta della crisi) da qui all’eternità è una delle più palesi dimostrazioni che i signori della BCE sanno perfettamente che non ci sarà mai una “exit strategy”. Presto si faranno sentire i deleteri effetti di un costo del denaro al minimo possibile. Ma, oltre alle bolle immobiliari e dei mutui subprime, deve ancora esplodere, e questo sarà il colpo di grazia, quella dei prodotti strutturati detti derivati. Hanno intossicato praticamente tutti i mercati e tutti i maggiori gruppi bancari: con prospettive di profitti assolutamente fuori da ogni realtà di mercato, i nostri enti locali hanno le casse avvelenate da questi prodotti spazzatura, scatole vuote che rimandano ad un debitore futuro, ancora di là da venire, che costituisce una speranza di incasso, ma che in realtà consiste solo in “sofferenze” in senso economico, vale a dire in “incagli” che devono essere portati in perdita. Il bello, dunque, deve ancora arrivare. Stiamo solo cuocendo a fuoco lento. Quando quest’ultima bolla esploderà, un paese come l’Italia non solo scivolerà nella bancarotta, ma entrerà a pieno titolo nel “secondo mondo” che si andrà a costituire. Siamo abituati a pensare ai paesi del “terzo mondo” per indicare i paesi (una volta si diceva in via di sviluppo) irrimediabilmente condannati alla povertà. Il secondo mondo sarà quello che annovererà l’Italia tra i suoi soci fondatori, più gli altri già menzionati, e andrà a connotare quelle nazioni una volta prospere, ed ora, per l’inettitudine e la corruzione della propria classe politica, si trovano in piena decadenza. Si aggiungano a tutto ciò altri due fattori decisivi per l’affondamento di questo paese. La criminalità organizzata che governa metà del territorio italiano e ne controlla parte del resto, ben lungi dall’essere sconfitta da qualche operazione di polizia, è talmente infiltrata nei gangli del potere, dal confondersi completamente con il ceto politico ed economico italiano. Il paese è bloccato, congelato, dal potere mafioso, che perseguendo, come è ovvio, il proprio tornaconto, non bada certo all’interesse nazionale. Il potere della criminalità organizzata, ancora più incisivo nei periodi di crisi, è qualcosa di assolutamente inestirpabile, tanto è connaturato nel nostro sistema-paese. Si pensi poi al problema degli immigrati. Anche in questo caso Eugenio Benetazzo è stato etichettato come “razzista” per il solo fatto di fotografare la realtà così come è. Con buona pace della retorica di certa sinistra che non ha ancora compreso che continuando con la demagogia sulle gioie della “società multietnica” continuerà a perdere consensi e a perdere una elezione dopo l’altra, il tutto a favore della Lega Nord. Vediamo più attentamente il perché. In una società multietnica è presente un soggetto ospitante ed uno ospitato. L’ospitante ha una propria identità nazionale, una propria storia, una cultura, una giurisdizione, una religione e via discorrendo. Il soggetto immigrato, fatti salvi i diritti fondamentali dell’uomo, il rispetto per la persona ecc. se veramente è intenzionato a costruire una società che sia il risultato della fusione di diverse culture, religioni ecc., la società multietnica insomma, deve anzitutto essere rispettoso della società e del sistema che lo ospita e, in un secondo tempo, farsi portatore, direi promotore del proprio patrimonio culturale. Vediamo che cosa accade in Italia a questo proposito. Non solo la stragrande maggioranza degli immigrati non sono affatto interessati a rispettare i parametri culturali di chi li accoglie, ma il fatto è che non ci pensano neppure a farsi portatori del proprio patrimonio di idee e di cultura. Una volta costituitisi in comunità, si spalleggiano l’un l’altro, proseguendo imperterriti a mantenere le proprie “tradizioni” anche se a volte non proprio culturali e morali. Si ghettizzano o, viceversa, invadono interi quartieri delle nostre città, comportandosi come se ne fossero i colonizzatori e l’unica cosa che noi italiani sappiamo opporre a questa forma di tracotanza, è quella di ritirarci in buon ordine nelle nostre casette, o, nella migliore delle ipotesi, ad abbandonare il quartiere, lasciandolo completamente in mano agli immigrati. Chiunque avesse un minimo di buon senso avrebbe compreso anni fa che i flussi immigratori non regolamentati avrebbero condotto il paese non alla società multietnica vagheggiata dai benpensanti (che però non abitano nei quartieri più disagiati), ma alla Babele delle idee e della cultura. Quando ci si fonde in una società multietnica, ciascuno dei soggetti in questione porta qualcosa in “dote”: noi abbiamo una storia millenaria (anche se non sempre cristallina), un’arte, una cultura filosofica, scientifica e politica di straordinaria ricchezza. Che cosa portano in dote le popolazioni immigrate? Prendiamo il caso che riguarda, per esempio, Genova. La città è invasa dagli ecuadoriani, brava gente, non particolarmente propensi al crimine, d’accordo, ma che non possiede nessun tipo di cultura e di storia. Sebbene siano trascorsi molti anni dalla dominazione spagnola, non sono stati in grado di autodeterminarsi, (sono dominati, in patria, da una élite bianca) di fondare un’arte ed una letteratura, non hanno nessuna personalità di spicco, in nessun campo dello scibile. La loro unica ricchezza, quella che ci hanno portato in dote, sono le bocche da sfamare. Sono dei formidabili procreatori, la sterilità è sconosciuta in quella parte del mondo. E poi chiedono, chiedono. E, mi pare giusto, vengono loro concessi, anche in questi tempi grami, sanità ed istruzione gratuite; presentano dichiarazioni ISEE validate dall’INPS (!) pari a zero. Ma allora di che vivono? Può essere considerato un arricchimento l’unione di queste due identità nazionali? Sono gente allegra, che ama cantare e ballare, ma vivere in condominio con loro può diventare un inferno. E non venitemi a raccontare la solita favola dell’immigrato che svolge le attività che gli italiano non vogliono più sobbarcarsi. Balle. Quando uno di noi perde il lavoro e nella pentola che mette sul fuoco non sa più che mettere, state pur certi che le italiane saranno dispostissime a fare le badanti e gli italiani non avranno difficoltà a raccogliere pomodori nelle Puglie. Un paese che perde la propria identità culturale è un paese che perde anche la stima in se stesso, e che è condannato alla decadenza. Mi si dirà, come sempre, che anche noi eravamo un popolo di emigranti. Sono due realtà assolutamente imparagonabili. L’emigrazione in America o in Australia era rigidamente contingentata, per quanto riguarda quella in Europa, in Germania, Belgio o Svizzera vi rimando al film di Franco Brusati “Pane e cioccolata”, dice tutto. Altro che sanità ed istruzione gratuite. A quel tempo non c’erano la Caritas ed una rete sociale che proteggeva l’emigrante: ti dovevi arrangiare e uniformare, altrimenti te ne tornavi a casa. Ecco perché la società multietnica non apporta nessun tipo di ricchezza, ci impoverisce economicamente e culturalmente. Ricordiamo che anche gli anglo-sassoni sono stati il prodotto di una fusione di due distinte etnie: in quel caso, però, l’operazione ha avuto un risultato tutt’affatto diverso, la popolazione inglese non è riuscita, tutto sommato, male. Siamo ossessionati dalla paura di essere considerati “razzisti”, abbiamo timore delle parole perché ci sforziamo di utilizzare il linguaggio americano ripulito, politicamente corretto, che è fatto solo di ipocrisia e di apparenze. Qualcuno, per non utilizzare la parola “straniero” definita discriminante, ha proposto l’alternativa di “non italofono”. Ecco cosa siamo capaci di fare. Quando nel tuo quartiere, quello dove sei nato e dove sei cresciuto, ti imbatti, camminando per strada, in volti e atteggiamenti completamente diversi da quelli cui sei abituato, si instaura una sindrome che si potrebbe definire di “spaesamento etnico”, umanissimo e pienamente comprensibile. Ma questo non è razzismo, non dimentichino mai, coloro che pronunciano come un disco rotto questa parola, che il razzismo propriamente detto è quello del regime nazista, teorizzato da Chamberlain e Rosenberg e assorbito, con qualche modifica, da Hitler. Il popolo italiano, nel suo complesso, è totalmente estraneo al razzismo.
Detto questo, che cosa ci attende, diciamo tra un decennio? Difficile fare una previsione, Benetazzo nel suo ultimo articolo, auspica provocatoriamente un nuovo Lorenzo il Magnifico. Fuor di metafora, credo che le possibilità che si prospettano siano due. Considerato che nulla possiamo attenderci dai nostri giovani, allevati nel benessere da bestiame bovino, deformati da una scuola incapace di precorrere i tempi, viziati e vezzeggiati, privi della carica innovativa che dovrebbero essere parte costitutiva della loro essenza, temo che sia legittimo aspettarsi, come ho già scritto altrove, una sorta di “medioevo” culturale politico ed economico, dove tenebre, caos e miseria domineranno incontrastate. Poi, senza rivoluzioni (che non sarebbero verosimilmente attuabili da una popolazione smidollata abituata all’indolenza) potrebbe farsi strada con un golpe bianco, magari senza colpo ferire, un “uomo della provvidenza” sul tipo di taluni dittatori sudamericani. Lo scenario potrebbe ricordare da vicino gli ultimi anni della repubblica di Weimar: la grande depressione conseguente al 1929, l’inflazione completamente fuori controllo, la massiccia disoccupazione, i drastici tagli alla spesa sociale, le conseguenze del trattato di Versailles motivarono l’ascesa del nazismo. Non penso certo ad una figura paragonabile a quella funesta di un Hitler, ma ad una repubblica presidenziale che si configuri come una dittatura morbida o una democrazia autoritaria, sul modello degli stati africani. Sì, perché l’Italia, mi si conceda la battuta, diventerà il “paese più settentrionale dell’Africa” (V. Gassman in “Profumo di donna”). Una seconda possibilità potrebbe essere costituita dal raggiungimento degli scopi della Lega nord, con la conseguente secessione di una parte della penisola, e la parcellizzazione del resto d’Italia. E’ solo una ipotesi accademica, ma non è una idea così peregrina.
Chiarisco in ultimo di non fare il “profeta di sventura” per puro spirito masochistico: sono coinvolto in prima persona in questa congiuntura: non sono ricco, non faccio lo speculatore, il mio intero patrimonio è investito in titoli che una volta si sarebbero detti “sicuri” e sul cui rimborso, alla scadenza, nutro parecchi dubbi. Credo semplicemente che non sia possibile essere ottimisti ad ogni costo quando, come si diceva all’inizio, il bicchiere non è mezzo pieno o mezzo vuoto: è solo vuoto.

Agosto 2010 Roberto Tacchino

*Il titolo dell’articolo è tratto da un memorabile disco di Claudio Lolli, un cantautore completamente rimosso dal nostro panorama musicale, al pari di Ivan Graziani, Stefano Rosso e Pierangelo Bertoli. In compenso si è fatto di Rino Gaetano un mito consumistico: esattamente il contrario di quello che avrebbe voluto in vita. L’Italia è un triste paese che non ha memoria, e quindi non ha futuro.

L'AUTONOMIA POSSIBILE

Ci si domanda spesso, anche sulle pagine di “comedonchisciotte”, (lo hanno fatto autorevoli autori), nell’ambito dell’attuale (e futuro) quadro socioeconomico, quale piega, quale direzione potrebbe prendere la contestazione, segnatamente quella giovanile o studentesca, a fronte degli scenari non certo rosei che si prospettano all’orizzonte. E’ una domanda pertinente, se non altro perché, in questa come in molte altre materie, è difficilissima una previsione. E’ infatti pur vero che una delle possibilità che si intravedono è quella che non succeda un bel nulla. L’unico luogo dove appare convogliata la carica di aggressività e di violenza, soprattutto giovanile è, per il momento, lo stadio. Insomma, è concreta la possibilità che lo sposare una ideologia, il contestare, l’opporsi allo status quo e via discorrendo, non produca in realtà alcun movimento giovanile o meno, ma che, viceversa, ci si abbandoni ad una cupa rassegnazione, si segua stancamente il corso degli eventi, ci si rinchiuda nel proprio piccolo mondo, angusto ma rassicurante. Questo per il venir meno delle grandi ideologie del Novecento, dal materialismo storico del marxismo, degenerato nello stalinismo, ai nazionalsocialismi trasformati e adeguati alla realtà della politica dal nazismo. Non si profila, allo stato attuale, un complesso ideologico o filosofico che possa in qualche modo soppiantare gli analoghi del Novecento, e che possa validamente contrastare un capitalismo giunto comunque al punto di rottura, ad una crisi probabilmente irreversibile, che sta, in ogni caso, esaurendo il proprio ciclo storico. Non si tratta, si badi bene, della ricerca di una “terza via” che possa sostituirsi al liberismo, l’attuale sistema economico finanziario, che è destinato, con gli opportuni cambiamenti, a restare in vita ancora per un pezzo, se non altro per la gestione ed il mantenimento dell’attuale stato di crisi, ma del sorgere, almeno a livello ancora embrionale, di un movimento che a questo sistema neoliberista, a questa politica corrotta ed inetta, sappia opporre un diverso modo di amministrare la cosa pubblica e di soppiantare un capitalismo distrutto dalle proprie contraddizioni, con un sistema più equilibrato ed umano. Le attuali forze politiche, almeno in Europa, tutte, dalla sinistra estrema alla destra super conservatrice, non appaiono neppure lontanamente in grado di operare questa innovazione. Si dibattono, si agitano e confliggono per questioni superficiali e risibili, chiusi dentro il recinto del loro interesse particolare, non si sforzano neppure di concepire un modello alternativo.
Potrebbe però farsi strada una seconda ipotesi, che deriverebbe da forze fresche e depositarie di una formidabile carica innovativa (per questo facevo riferimento ai giovani studenti) e che, in luogo di sposare una causa ancora di là da venire, potrebbero fondere tra di loro le code degli ultimi barlumi del movimento degli anni settanta e (in parte) ottanta, almeno prima del loro definitivo scioglimento. Sarebbe un po’ come riprendere un sentiero interrotto, azzardando una sinergia tra alcune componenti che, almeno negli anni prima della fine, avevano tentato un improbabile accostamento, o, quantomeno, una presa di contatto.
Occorre, a questo punto, fare riferimento al discorso quando si interruppe. Per chi, come chi scrive, ha vissuto in prima persona l’ultimo scorcio degli anni settanta, è ancora vivo il ricordo di un grande fermento di idee, un florilegio di slanci rivoluzionari, più o meno velleitari, di grandi entusiasmi afinalistici, di illusioni e disinganni, ma anche di confusione, disorientamento, contraddizione. Dopo i primi anni settanta, costellati da episodi violenti, da una tragica rotta di collisione tra estremisti di destra e di sinistra, dal 1975/76 in poi, una possibile tregua inizia a prefigurarsi. Chi militava nelle file dell’Autonomia Operaia sapeva che gli ideologi del movimento, Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, ma anche Emilio Vesce e Luciano Ferrari Bravo, avevano avuto dei contatti, degli abboccamenti, con una delle ali fondamentali del movimento di estrema destra. I contatti avvennero anche attraverso le riviste, le pubblicazioni che allora conoscevano una certa diffusione, e divennero il forum della discussione su di una eventuale dialettica tra opposti estremismi. Si trattava, per la destra, di Ordine Nuovo e di Terza Posizione, della rivista “Linea” e per l’Autonomia parteciparono al dibattito soprattutto “Rosso”, “I Volsci” e “Controinformazione”. Non si trattò di un dibattito aperto, cristallino, condotto alla luce del sole, ma chi, nell’Autonomia, si occupava di critica politica piuttosto che di menare le mani durante le operazioni di guerriglia urbana o nei cortei, era consapevole che qualcosa si stava muovendo nella direzione di una possibile, per quanto paradossale, intesa. Era, in un certo senso, come se il cerchio si dovesse chiudere: gli estremi si potevano toccare e una parte di Ordine Nuovo avrebbe potuto riversarsi nell’Autonomia, e viceversa. Non a caso si trattava dei due movimenti più radicali e quindi più atipici nel panorama della sinistra e destra extraparlamentari. Dopo Ordine Nuovo c’erano le trame nere del terrorismo, dopo l’Autonomia, la scelta irrevocabile delle Brigate Rosse. In diverse occasioni, anzi, l’area occupata dall’Autonomia Operaia fu oggetto di accuse di osmosi con le colonne brigatiste. Questo non corrisponde esattamente al vero. Trattandosi di un’area di pensiero, più che di una vera organizzazione inquadrata come un partito, nell’Autonomia capitava un po’ di tutto, dal fine analista politico, al gaglioffo frustrato che veicolava la propria personale aggressività. In questo senso era possibile il reclutamento, valutando caso per caso, da parte di esponenti delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Ma tornando ai possibili denominatori comuni, diremo che i più eminenti “cattivi maestri” dell’Autonomia, Toni Negri in primo luogo, celarono, neppure troppo bene, dietro un marxismo rivisitato e di maniera, una matrice ideale che assomigliava molto da vicino a quella di Pino Rauti, di Julius Evola, di René Guenon. Negri, sopra a tutti, aveva un modo di scrivere ampolloso e forbito, da stile dannunziano, qua e là emergevano delle retroidee di sapore niciano o wagneriano. Il culto del “bel gesto” rivoluzionario, come l’esproprio proletario, il volantinaggio, la scritta murale, la disobbedienza organizzata, il sabotaggio, finanche le operazione di “fiancheggiamento”, sono compiute dall’”avanguardia della rivoluzione”, una specie di super uomo che indica alle masse la via da seguire. La distinzione tra “operaio massa” e “operaio sociale” è, a questo proposito, emblematica. Praticamente tutti gli ideologi di Autonomia erano di estrazione borghese o alto borghese, molti dei quadri dirigenti sul territorio erano rampolli di buone famiglie. Ma tutti potevano rientrare, al di là del censo, nella categoria di “operaio sociale”. I saggi pubblicati all’epoca, considerati l’anima ideologica dell’Autonomia, “Proletari e Stato”, “La forma Stato” e “Il dominio e il sabotaggio” sono assolutamente, se letti in filigrana, paradigmatici: percorre queste opere un sottile disprezzo per la classe operaia (che era, ovviamente, lontanissima dai sottili sofismi di Negri e compagni) ed una esaltazione del gesto individuale che diventa modello comportamentale, esempio per le “masse” che esistevano solo a livello immaginario. Allo stesso modo, dall’altra parte l’ala più critica al conservatorismo di destra, quella imbevuta degli scritti di Rauti ed Evola, osservava con una certa empatia taluni aspetti del movimento di Autonomia. L’aspetto più propriamente “nazionalsocialista” di quel movimento, il riferimento culturale ai primi proclami fascisti di San Sepolcro, un certo “corporativismo” mai realizzato, la cosiddetta Carta di Verona, il modello statale appena abbozzato dalla Repubblica Sociale, erano motivi di accostamento al movimento di estrema sinistra. Altri punti di condivisione erano il comune, profondo, incrollabile odio per il capitalismo, il liberismo, l’avversione di entrambi i movimenti per Israele a favore della lotta di emancipazione palestinese e per quella parte dell’ebraismo che detiene le leve del potere economico finanziario mondiale. Il dibattito, che ricordiamo comunque essere al solo livello embrionale e non formulato apertamente, fu bruscamente interrotto dalla scelta sciagurata della Brigate Rosse di assassinare Aldo Moro, cui, fisiologicamente, corrispose lo sgretolamento e lo smantellamento dei movimenti extraparlamentari. Le Brigate Rosse continuarono ancora per qualche anno la loro disperata e dissennata corsa verso l’annientamento, i “cattivi maestri” si ritirarono in buon ordine, o fuggirono all’estero. Rauti, più realisticamente, rientrò nelle fila di una destra costituzionale. Questo per chiudere il breve excursus su quegli anni. Ma oggi? Cosa potrebbe prospettarsi? Sia chiaro che non conosco il Sig. Evangelisti, né la sua opera, ho letto il suo articolo, correttamente rimosso dal sito “comedonchisciotte”, senza capire alcunchè, confuso e contraddittorio com’era. Non sto vaneggiando infatti di eventuali “camicie rosso-brune”, ipotesi quantomeno stravagante, ma, tornando alle righe iniziali, mi domando dove potrebbe rivolgersi, come un fuoco che cova sotto le ceneri, quel patrimonio rivoluzionario, quello slancio innovativo, di protesta e di contestazione, tipico degli animi giovanili. In assenza di una dottrina filosofica o politica che soppianti comunismo e nazismo, per quanto riguarda il nostro paese, si potrebbero riannodare quelle fila del discorso interrotto. La famosa “terza via “ al marxismo ed al nazionalsocialismo potrebbe essere una fusione degli ideali abbracciati dai due movimenti più estremi della nostra storia politica recente. Una fusione a freddo, certo, nel senso che entrambi gli schieramenti accoglievano valori, o disvalori, della illegalità e della violenza che oggi potrebbero suscitare solo ripugnanza. Una operazione difficile anche perché talune posizioni sarebbero in ogni caso troppo lontane, inconciliabili, anche se il mutato scenario mondiale, con la globalizzazione ed i flussi immigratori, e la recente, sempre più drammatica crisi economico finanziaria potrebbero facilitare una operazione del genere. Si tratta solo di una ipotesi, che avrebbe comunque in ordine tempi lunghissimi, considerata l’attuale apatia (che a volte sfiora la catalessi politica) del mondo giovanile. Però, se non diamo retta alla stampa ufficiale, man mano che ci si addentrerà nella stagnazione e nella recessione economica, sarà giocoforza passare all’azione diretta, o almeno, considerare seriamente l’idea della costituzione di movimenti antagonisti l’attuale assetto politico amministrativo. Sotto le insegne della sola “Autonomia”, priva dell’aggettivazione “operaia” ormai completamente fuori luogo, potrebbe riprendere il sentiero interrotto dalla violenza mortale delle Brigate Rosse, e sarebbe possibile trovare consensi anche da parte di persone allevate sotto ideali della destra storica. Una Autonomia svuotata, nella sostanza, del contenuto schiettamente marxista, e più aperta alle spinte ecologiste, antiglobalizzazione (ma prescindendo sempre dalla violenza dei black blockers) anti neoliberista e preparata ad una dialettica con l’economia di mercato, con la quale, almeno per un certo tempo, dovremo ancora fare i conti.
Ho volutamente escluso, aprioristicamente, la possibilità che si sviluppi, a livello nazionale, un movimento giovanile dai connotati razzisti. Un movimento che catalizzi la propria attenzione sul consueto “capro espiatorio” costituito, in questo caso, dallo straniero. Nel nostro paese, checchè ne dica la retorica dei mezzi di comunicazione e i cosiddetti “politologi”, non esiste né una cultura razzista, né i presupposti per la formazione di un movimento nel quale alberghi questo sentimento. A differenza di altri paesi europei, nei quali esiste un certo seguito per partiti dichiaratamente xenofobi, in Italia, l’unica formazione politica che si può teoricamente accostare a questo tipo di prassi è la Lega Nord. Ma, a parte il radicamento territoriale limitato ad una sola parte del paese, questa formazione politica, più che la xenofobia accarezza dalla nascita un solo sogno, un solo fine, mai esplicitamente dichiarato: la secessione. Prendendo ad esempio paesi come la Spagna con la Catalogna o i Paesi Baschi, e il Belgio con la divisione tra fiamminghi e valloni, la Lega Nord, con una politica che esclude comunque la violenza, vuole progressivamente arrivare alla costituzione di una repubblica della cosiddetta “Padania”. Le “ronde” per il controllo del territorio, non a caso, si sono rivelate un fiasco clamoroso, hanno abortito ancor prima di nascere. Solo in teoria, dunque, i flussi immigratori incontrollati e non regolamentati, potrebbero catalizzare e veicolare la carica aggressiva della popolazione: chi scrive vive a Genova, dove un intero quartiere, al pari di altre città, è stato letteralmente invaso da una popolazione sudamericana. L’unica vera reazione che si è verificata, è stata il progressivo abbandono del quartiere da parte della componente italiana, affetta da una sindrome da “accerchiamento” e divenuta straniera a casa propria. L’alternativa all’azione appare allora, allo stato attuale, solo quella di una deriva rassegnata ed involontariamente complice di una classe politica sempre più distante ed inconsapevole. Non si confonda, infine, l’Autonomia di allora con i cosiddetti “autonomi” che popolano gli odierni centri sociali: nulla hanno a che fare con una realtà che non conoscono neppure. Il loro è un ribellismo confuso e senza scopo, la loro cultura politica è praticamente azzerata. Non so se sia auspicabile un risveglio delle coscienze che si faccia latore di istanze concretamente di opposizione e di proposizione: il pericolo sempre in agguato, in questi casi, è imbrigliare e governare la carica di violenza che siffatti movimenti recano inevitabilmente con sé. Si può auspicare invece che qualche “maestro”, meno cattivo dei precedenti, propugnatori del famoso “armiamoci e partite”, concepisca un disegno politicamente forte, svincolato dalla componente violenta, e, soprattutto, che contenga proposte sensate ed attuabili, delle linee di partenza che possano finalmente arrivare e scuotere in modo salutare i palazzi della politica.
Agosto 2010 Roberto Tacchino

ULTIMA FERMATA: ERCOLANO

Sono di questi ultimi giorni due notizie apparentemente non correlabili, ma, nella sostanza, generate dalla stessa cloaca mediatica di questo benedetto paese. La Signora Marcegaglia dichiara ai media che, nonostante tutto, “l’Italia continua ad essere la quinta potenza INDUSTRIALE del mondo”. La seconda dichiarazione è della stravagante ministro del Turismo Michela Brambilla, la quale, con voce garrula asserisce che, nel 2010, il turismo italiano, (la gente che va in vacanza), ha subito un incremento dell’8%, rispetto al 2009. Si tratta, come è ovvio per chiunque abbia un minimo di buon senso e di spirito di osservazione, di due notizie completamente destituite di qualsiasi fondamento. In che paese vivono queste due signore? Chi le ha messe lì, dove si trovano adesso, a far danno nel nostro già dissestato paese? L’Italia, nella migliore delle ipotesi, si trova attualmente al ventesimo posto nella classifica dei paesi industrializzati. Consideriamo le tigri asiatiche, il Brasile, il Messico, il Canada, l’Australia, diversi stati europei, come facciamo ad occupare il quinto posto? Lo sappiamo o no che in India si sta già producendo un mini computer, eccezionalmente avanzato, che in Europa ci costerà 27 euro? Ci possiamo meravigliare se Marchionne sceglie di produrre la nuova monovolume Fiat in Serbia? Perché non dovrebbe farlo? Il compito di un imprenditore è quello di far profitto, non di pensare alle politiche sociali a sostegno del reddito del suo paese. A questo devono pensare i politici, se sono tali, e non i politicanti dell’Impero Nano (come stigmatizzato da “Blob”) di casa nostra. E poi, che il turismo degli italiani sia ridotto al lumicino non lo dicono soltanto i fallimenti di due tour operator nel 2009 e dei “Viaggi del Ventaglio “ nel 2010. Basta guardarsi attorno. Le città sono gremite come sempre in questo scorcio di fine luglio, il traffico è praticamente immutato. Dove ha preso la percentuale dell’8% le signora Brambilla? Con i numeri si può giocare come si vuole, così come con le fonti dei numeri stessi. La verità, come sappiamo, è ben altra. A nulla valgono gli stress test, con parametri così morbidi da essere quasi completamente inattendibili. Moody’s ha declassato anche l’Irlanda, il prossimo paese sotto osservazione sarà il Portogallo, poi toccherà all’Italia. E quello sarà un test certamente più attendibile. Non siamo e non saremo mai più un paese industriale, occorre convincersene, e prima lo facciamo e prima sarà possibile correre ai ripari. Ma vediamo perché, in realtà, non ci sono, nel nostro paese alternative all’industria. Possediamo un patrimonio storico-artistico di eccezionale bellezza e vastità; come lo amministriamo? L’unico modo per riconvertire questo paese, dal momento che non ci possiamo aspettare miracoli né dall’agricoltura, né dal terziario, è la valorizzazione di questo patrimonio. Consideriamo anzitutto che almeno metà del paese è sotto il controllo della criminalità organizzata, che possiede infiltrazioni in altre ampie aree del paese. Alla Mafia, la Camorra, la ‘Ndrangheta non stanno a cuore le sorti dell’Italia, il futuro dello stato sociale, il pareggio dei conti dello stato. Alla mafia sta a cuore solo il proprio profitto e quello dei suoi affiliati. Qui tra cricche, caste e consorterie (P3) assomigliamo sempre di più ad una repubblica sudamericana. E quella fine faremo. Finalmente abbiamo capito da che parte stiamo: tra il primo e il terzo mondo c’è quel famoso secondo mondo di cui non si è mai parlato e che non si capiva bene cosa fosse. Quella spazio, quella terra di nessuno, almeno fino ad oggi, lo occuperemo noi, seppure in buona compagnia. Nel Medioevo prossimo venturo cui ci stiamo approssimando. Ad Ercolano e Pompei, due inestimabili patrimoni dell’umanità, i turisti non possono entrare se non nel fine settimana, e tra i cumuli di immondizia che ingombrano gli ingressi al pubblico. E gli scavi, che necessitano di manutenzione continua, stanno andando letteralmente in malora. Mancanza di personale, piangono i responsabili dei due siti. Ma se abbiamo un ministro dei beni culturali come il presule Bondi, più versato nel comporre sonetti a favore del premier che a reggere le sorti di un dicastero ora fondamentale, come possiamo aspettarci che le cose vadano meglio? Basta fare un giro per la Liguria e osservare i prezzi dei nostri alberghi per capire che non potremo mai essere concorrenziali agli altri paesi europei. In qualsiasi alberguccio una notte costa 100 euro. In Spagna stanno facendo di meglio. Siamo un paese bloccato dalla malavita e dagli egoismi particolari delle diverse lobbies che non sanno guardare al di là del proprio naso. In ultimo mi faccio e vi faccio una domanda: se un altro popolo, poniamo quello olandese, possedesse il nostro patrimonio, come lo avrebbe gestito? Un popolo che risiede su di un lembo di terra strappata alle acque, pianure fertili ma monotone e desolate, con un clima oceanico-marittimo non proprio favorevole. Non è vero che tutti i popoli sono uguali, certo, dipende dalla loro storia, dal loro divenire “nazione”, dalle diverse sorti delle vicende umane. Ma temo che taluni, nel loro DNA, abbiano quella “marcia in più” che li fa crescere e progredire, e, soprattutto, essere uniti nei momenti difficili, affrontare le sorti avverse con granitica solidarietà.
Luglio 2010    Roberto Tacchino

IL MEDIOEVO ALLE PORTE

Che cosa ci riserva il futuro, che cosa ci attende? E’ la domanda che ognuno di noi, economista o no, si pone ormai da un paio d’anni. Economisti ed analisti non sono concordi, segno che formulare previsioni, in questa fase, è estremamente azzardato, tanto che i pareri che si leggono sui giornali o si ascoltano in TV sono qualche volta opposti. Anzitutto occorre mettersi d’accordo sul termine “crisi”. Non si tratta affatto di una crisi, ma di un “tornante della storia” come correttamente l’ha definita il ministro Tremonti. Che cosa cambia? Il fatto che non c’è nessuna uscita da questa crisi. Se l’inizio è stato convenzionalmente stabilito con il fallimento della “Lehman and Brothers” e dei mutui subprime americani (era grosso modo il luglio 2008), non è possibile alcuna fine della crisi, alcuna uscita dal tunnel. In parole povere, trattandosi di una svolta della storia politico economica del mondo, non c’è una fine, una via di uscita che ci riporti alla situazione del 2007. Ci sarà solo un “prima” e un “dopo” 2008, l’anno che segna, tra l’altro il fallimento del sogno capitalistico. Sulla crisi finanziaria si è innestata infatti una crisi economica, dovuta a quelle distorsioni che il libero mercato lasciato a se stesso avrebbe prodotto sino alla sua implosione, proprio come predetto da Marx. Non è qui il caso di analizzare le cause vicine e remote dell’attuale congiuntura mondiale: sono molteplici e difficili da scandagliare; è certo che, in ogni caso, prescindendo da un pugno di giovanotti che hanno giocato con la “finanza creativa” inondando i mercati di prodotti tossici come i “derivati”, coloro che avrebbero dovuto vigilare ed intervenire tempestivamente – in primo luogo lo sciagurato presidente USA Bush e il governatore della FED Greenspan - possono essere individuati come i principali responsabili della bolla dei mutui subprime americani che ha dato l’avvio alla crisi. Una sola cosa è certa: nessuno dei responsabili, anche considerando che tale responsabilità è frazionata in un composito mosaico, pagherà mai il prezzo della crisi, anzi, troveranno, questi stessi signori, il modo migliore per arricchirsi con la speculazione. Non ci dilungheremo oltre, dunque, su quanto è avvenuto prima, ma cerchiamo di capire cosa potrebbe accadere nel medio e lungo termine. A questo proposito ritengo utilissima l’analisi prodotta da un analista acuto come Armando Carcaterrra, di cui riporto fedelmente di seguito una recente intervista:

IL DILEMMA DEI GOVERNI TRA DEBITO E DEFLAZIONE

Passata la fase acuta della crisi, adesso gli occhi sono puntati sui governi nazionali i quali devono correggere i debiti pubblici. Armando Carcaterra spiega come stanno procedendo in questa strada i Paesi europei e quali sono i possibili rischi.

D1 - Perché i mercati, nonostante la forte volontà dei governi di stabilizzare i debiti pubblici, continuano a mostrarsi incerti?
Passata la fase acuta della crisi finanziaria, che i governi hanno affrontato con interventi di salvataggio del sistema bancario e politiche monetarie e fiscali fortemente espansive, i mercati si aspettano che le forze politiche si pongano il problema di correggere i debiti pubblici, ma che lo facciano in modo sostenibile.

D2 - Cosa significa stabilizzare i debiti in modo sostenibile?
Dopo la crisi greca e le defatiganti trattative tra i governi europei per evitarne il default, è sembrato che la ricetta per ristabilire stabilità fosse per tutti paesi la correzione dei disavanzi pubblici. Tutti i paesi europei, Germania compresa, hanno ormai avviato o annunciato manovre fiscali restrittive di rilevante entità, quasi sempre centrate su pesanti tagli di spesa pubblica. La riduzione dei disavanzi pubblici è sicuramente un ingrediente necessario per rendere credibili le prospettive di stabilizzazione del debito, ma non è certo un elemento sufficiente.

Occorrono infatti due condizioni:
a) un surplus primario che, in percentuale del PIL, compensi la spesa per interessi
b) una crescita del PIL nominale sufficiente a mantenere l'aumento delle entrate fiscali in linea con quello della spesa pubblica.

I governi europei stanno perseguendo con determinazione la prima strada, ma sembrano trascurare la seconda. In prospettiva quello che conta è infatti la traiettoria del rapporto percentuale Debito/PIL: se il debito scende, ma nel contempo il PIL scende di più, il rapporto aumenta, anziché diminuire, e le prospettive di stabilizzazione del debito peggiorano.

D3 - Quali sono i pericoli maggiori di questa situazione?
La maggior parte dei 50 eminenti economisti intervenuti nelle scorse settimane in un forum online dell'Economist considera la deflazione il rischio principale a cui è esposto oggi il mondo occidentale. Deflazione significa una situazione in cui i prezzi dei beni e servizi scendono. In un mondo molto indebitato, una discesa dei prezzi aumenta il peso reale dei debiti. Inoltre, se si generalizzano aspettative di riduzione futura dei prezzi, i consumatori tendono a differire i consumi e le imprese a rinviare gli investimenti, perché si aspettano che in futuro beni di consumo e beni di investimento costino meno. La deflazione tende quindi ad autoalimentarsi perché genera spinte alla contrazione della domanda di beni e servizi. Oggi, nel mondo occidentale, la disoccupazione è già a livelli elevati e l'inflazione molto bassa. La politica monetaria ha già portato i tassi di interesse a livelli minimi e quindi non ha margini per intervenire ulteriormente a sostenere la crescita. In questo contesto, gli sforzi dei governi dovrebbero essere orientati a creare condizioni infrastrutturali per una crescita di lungo periodo sostenibile, e cioè:

- investimenti pubblici nell’istruzione, in ricerca ed in tecnologia che aumentino la capacità di innovazione
- maggiore flessibilità del mercato del lavoro e, contemporaneamente, sistemi di protezione sociale che consentano una più alta mobilità dei lavoratori
- investimenti in infrastrutture (trasporti, strade, reti informatiche ecc.) che facilitino l'attività economica.

Se, accanto al necessario rigore fiscale attualmente messo in atto, si accompagnassero anche programmi mirati a redistribuire e concentrare le risorse disponibili sui fattori che possono favorire e promuovere la crescita nel medio periodo, gran parte dello scetticismo che ancora domina i mercati finanziari lascerebbe probabilmente spazio ad una visione più ottimistica del futuro.(Fonte:www.soldionline.it)

Detto questo, cerchiamo di immaginare lo scenario più probabile, sia in senso politico che economico che ci attende. L’Italia, (è sotto gli occhi di tutti e la vicenda della Fiat di Pomigliano d’Arco ce lo insegna), cesserà di essere in paese industrializzato. Non possiamo in nessun modo, per cultura, per ignavia, per conservatorismo sindacale, per il vittimismo che da sempre ci contraddistingue, affrontare la sfida della globalizzazione. L’accordo di Pomigliano, se ci sarà,  avrà il fiato corto. Alla prima difficoltà gli operai scenderanno in sciopero o saliranno sui tetti (cose non previste dall’accordo di Marchionne) e in un modo o nell’altro la Fiat sbarcherà in qualche altra nazione (magari la Slovacchia che ci ha eliminato ai mondiali di calcio). Dall’Italia del futuro prossimo non solo non uscirà più una sola auto dalla catena di montaggio: semplicemente non si produrrà più un solo bullone. Svanisce una intera classe sociale, quella operaia. Non ci saranno più tute blu, scompariranno i metalmeccanici. In nome della globalizzazione e del capitalismo avanzato neoliberista, la produzione va dove costa meno e ottiene risultati migliori in termini di prestazione finale. In sostanza, gli operai dell’ex terzo mondo non solo presentano un conto meno salato per quanto attiene il costo del lavoro, ma sono anche più bravi e specializzati dei nostri ultimi esangui, metalmeccanici, non più formati né aggiornati perché l’aggiornamento, la specializzazione e anche la sicurezza costano troppo, e le imprese italiane non possono sopportare tali costi. Ecco perché si parlava all’inizio di svolta epocale, non di semplice crisi: in Italia non sarà più presente l’industria pesante. O meglio, la solo industria che potrà sopravvivere sarà quella manifatturiera del made in Italy molto settorializzato e richiesto all’estero, una produzione di nicchia dunque, destinata a pochi eletti. L’industria pesante, quella medio – grande è già finita. Ma allora che cosa potremo esportare? Come già detto, qualche prodotto griffato Italia, come alcuni vini, l’abbigliamento delle sfilate, la pelletteria di èlite, la gastronomia per palati fini. Tutto qui. Non possiamo riconvertire il nostro paese nel settore agricolo, non abbiamo a disposizione il territorio dell’Ucraina, e la nostra agricoltura non copre neanche lontanamente il fabbisogno interno. La cultura? Certo, possediamo più del 50% del patrimonio storico artistico del mondo, ma non abbiamo mai fatto niente per valorizzarlo. In larghe parti del territorio non ci sono infrastrutture finalizzate ad attirare i flussi turistici. Buona parte del nostro patrimonio è semplicemente lasciato andare in malora, per incuria, ignoranza, pressapochismo, miopia dei nostri amministratori, una classe parassitaria e corrotta. Per un paese che in futuro potrà contare solo sul turismo attirato dalle bellezze artistiche e paesaggistiche, non stiamo facendo nulla per prepararci al futuro. La manovra finanziaria di questo governo imbelle e senza idee, contempla solo tagli, sorda alla lezione keinesiana che una politica di tagli alla spesa pubblica non può che impoverire il paese se è dissociata da una politica di investimenti pubblici. Che nel nostro caso, dovrebbero riguardare la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio artistico. Terminiamo prima la Salerno – Raggio Calabria, poi pensiamo al ponte sullo stretto di Messina. Non pensiamo sempre e solo a tartassare i soliti noti: con una pressione fiscale che è già pari al 43%, questo governo da operetta sta pensando, per tacitare il malumore degli enti locali che si vedono tagliare le risorse, di introdurre un nuovo soggetto impositivo. Si chiamerà IMU (Imposta Unica Municipale) dove dovrebbero confluire le imposte già dovute come quella sui rifiuti, in modo da reintrodurre surrettiziamente l’ICI sulla prima abitazione. Con una classe politica come la nostra non si può andar lontano. Ma gli investimenti pubblici, che si traducono in buona sostanza in appaltare grandi opere, in un paese come il nostro, per buona parte in mano alla criminalità organizzata, finirebbero  per rimpinguare le casse della Mafia, della Camorra e della ‘Ndrangheta. Siamo un paese da rifare (o rifondare) dalle sue fondamenta. Per questi motivi, ed altro ancora, non saremo in grado di affrontare la sfida della globalizzazione e della inevitabile riconversione della nostra economia. Ce ne staremo lì, come tanti allocchi, ad aspettare che la crisi provochi la bancarotta dello Stato e dei principali gruppi bancari italiani. Ci sono ancora in giro troppi prodotti intossicati dai derivati, scatole cinesi che non si sa bene cosa contengano. Quando scoppierà la bolla dei derivati allora anche il tanto decantato sistema bancario italiano, solido, fatto di piccolo, gretto e micragnoso risparmio, andrà in default, grazie alle politiche dei facili arricchimenti dei manager bancari e dei boiardi di stato. In questo scenario non certo confortante, si stagliano all’orizzonte i primi fallimenti, le prime bancarotte degli stati sovrani. Emblematico il caso della Grecia, che con la moneta unica ha scialato e dissipato come una cicala, ha ingrossato a dismisura (per crearsi clientele) la pubblica amministrazione, pletorica e farraginosa, ha dilapidato gli aiuti comunitari all’agricoltura, al welfare ecc., ha lasciato le banche e il mercato a se stessi senza esercitare alcun controllo, per ritrovarsi infine insolvente dinanzi i propri creditori, per la maggior parte risparmiatori che hanno prestato i loro danari attraverso i titoli di stato. La Grecia è la nazione dove si poteva andare in pensione a 53 anni. Ora, e difficile spiegare come gli altri partners europei abbiamo lasciato incancrenire una situazione così vistosamente autolesionista: una prima spiegazione potrebbe essere dovuta al fatto che alla moneta unica non ha fatto seguito alcuna forma di unione politica (qui non si riesce neppure ad approvare una Carta Costituzionale europea, figuriamoci costruire gli Stati Uniti d’Europa!), e questo è il peccato originale dell’eurozona; una seconda spiegazione potrebbe essere che la Germania, sotto il cui tallone di ferro l’Europa intera è ormai costretta, nasconda un suo interesse nel fallimento della Grecia, terra dove i tedeschi hanno molto investito. Sia come sia, nonostante il patetico salvataggio a colpi di milioni di euro (ma non basterebbero i miliardi di euro a risanare un bilancio statale), la Grecia è tranquillamente avviata al crollo finale, una situazione in cui alla bancarotta dello stato seguono i crack di tutti gli istituti di credito, non c’è più mercato, non c’è più borsa, non più scambi, uno scenario apocalittico da guerra per bande. A stretto giro di valzer seguiranno la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e, finalmente, l’Italia. Altri paesi fuori dalla moneta unica, come l’Ungheria, sono già al tracollo. I mercati sono attualmente così “volatili” semplicemente perché sanno benissimo che la politica degli aiuti disgiunti da una svolta economica e finanziaria locale non hanno, nel medio e lungo termine alcun effetto, se non quello di far indebitare maggiormente i paesi che ne beneficiano. In Grecia, per mettere le mani avanti, e perché si sono svegliati come dopo un lungo sonno o una lunga sbornia, hanno ricominciato a stampare le dracme. Perché proprio di questo si tratta. Sia i paesi in odore di fallimento (tutti quelli mediterranei) che la Germania, regina incontrastata, talmente decisiva da condizionare completamente la BCE che ne è, di fatto, divenuta una appendice neppure troppo nascosta, hanno un certo interesse a sfilarsi dall’Euro, per diverse ragioni. I paesi in default perché non si trovano nella possibilità di stare nella gabbia sempre più stretta dei parametri europei, che rischia di diventare una soffocante camicia di forza, la Germania, unico paese la cui economia ha relativamente risentito della crisi, unico paese esportatore tra tutti quelli europei, per il semplice fatto che, al pari del Regno Unito, non vedrebbe di mal’occhio un ritorno alla moneta nazionale, il marco, che, più o meno come la sterlina, potrebbe cavarsela da solo senza portarsi appresso la zavorra degli stati indebitati. Nel 2012, vero annus horribilis della crisi, l’Euro cesserà di esistere. Dopo dieci anni di (neppure troppo) onorato servizio, il vecchio Euro andrà in pensione perché, per opposte ragioni, non servirà più a nessuno: alla Germania che lo vedrebbe come un inutile impaccio, per gli stati più deboli perché li ingesserebbe in regole troppo ferree da seguire. Anche la nostra Italia, a quel punto, tra un paio d’anni, due anni di inutile, lenta agonia tra qualche alto e molti bassi, vittima di una politica di soli tagli e zero sviluppo, potrebbe paradossalmente beneficiare di una uscita dall’Euro. A questo punto l’Unione Europea mostrerebbe la corda: gli stati membri sarebbero finalmente liberi di fare quello che in fondo, in modo sottile e sotterraneo stanno già facendo: andare ognuno per i fatti propri, insofferenti delle regole comuni. Ogni stato sarebbe libero di scegliersi, magari facendo la cosa giusta, la propria “exit strategy”, ogni stato potrebbe scegliere, sulla base per esempio del dato inflattivo, se alzare o abbassare il tassi di sconto, senza passare sotto le forche caudine della BCE che lo ha inchiodato all’1%. A quel punto, dopo due anni inutilmente e improduttivamente trascorsi, l’Italia, dopo una acuta sofferenza di un altro paio d’anni, potrebbe trovare la propria via di uscita dalla congiuntura. Ma dal momento che sono destinati a trascorrere parecchi anni prima di una prima, timida uscita dal tunnel, che cosa potrebbe avvenire, sotto l’aspetto politico-sociale? Una svolta epocale di questa portata non può essere esente da stravolgimenti sociali, politici, conflitti anche violenti, una mutazione del tessuto urbano, dei rapporti di forza tra le parti sociali, ecc. L’Italia, insomma, potrebbe fare ingresso in quello che potremmo definire un nuovo “medioevo”, nel senso letterale della parola, di “età di mezzo”, dopo la quale però, è difficile immaginare un nuovo rinascimento. Il fallimento del capitalismo è sotto gli occhi di tutti, l’analisi di Marx si è rivelata, alla distanza, sostanzialmente corretta; il capitalismo, i liberismi, come tutte le vicende umane hanno un ciclo vitale nel quale esaurirsi, ed il capitalismo sta per concludere il proprio ciclo. Nessun sistema sociale dura eternamente o anche solo indefinitamente: ora è la volta del capitalismo. Nel medioevo verso il quale ci accostiamo, non ci saranno comuni, signorie o principati, non ci sono signori dei castelli con vassalli e valvassori, ma è pur vero che, piuttosto che andare verso l’unione, stiamo navigando, a vista, verso la frantumazione degli stati. In Italia la Lega otterrà finalmente il federalismo, che si tradurrà solamente in una moltiplicazione dei centri di spesa e in un pericoloso frazionamento delle regioni, l’una contro l’altra armate. Il Belgio è già di fatto una nazione spaccata in due, fiamminghi e Valloni. La Spagna accelererà il processo di divisione di stati baschi e catalani, e via discorrendo. Negli anni immediatamente precedenti l’abolizione dell’Euro, e in quelli immediatamente successivi, possiamo immaginare uno scenario costituito da un Medioevo cencioso, sul tipo di quello messo magistralmente in scena da Robert Altman nel film “Quintet”. Una spaventosa recessione, che impoverirà il paese sino a renderlo ingovernabile. Un larghissimo strato di poveri (quelli veri) una volta scomparso il ceto medio, appiattito in basso, verso la povertà, cingerà d’assedio le poche enclaves ancora abitate da pochi ricchi, che dovranno circolare scortati da un pugno di mercenari. Recessione significa che le banche, quelle sopravissute, non sono più in grado di concedere fidi o di prestare denari a chicchessia, e la fine del credito è anche la fine dell’economia, perché le imprese senza credito possono solo fallire. La cessazione della liquidità per le banche significa che  i bond emessi sia dallo stato fallito che dagli stessi istituti di credito non potranno essere onorati alla scadenza, e il povero risparmiatore invece di vedersi restituito il capitale si troverà in mano solo un pacco di carte bollate.  Chi si vorrà adeguare alle leggi della globalizzazione potrà vendere le proprie braccia (vi ricordate la definizione di “lavoro interinale”= lavoro in affitto?) per un salario da fame, senza contratto e senza garanzie, come nei paesi emergenti dell’Asia. Chi non vorrà o potrà adeguarsi a questo stato di cose, andrà lentamente naufragando in un mare di debiti, e finiti gli ultimi spiccioli, andrà ad ingrossare le fila dei senza tetto, degli sbandati e dei disadattati. I governi potranno succedersi di segno anche opposto, ma non potranno fare altro che stare a guardare, abbozzando misure tanto eclatanti quanto inutili, un po’ come fanno in questo momento storico. Tutto questo fino alla rottura sociale, alla guerra per bande, alla nascita di movimenti di lotta armata spontanea che non si orienterà neppure verso un avversario preciso (venendo a mancare il supporto ideologico marxista), trasformando le piazze in una specie di guerra di tutti contro tutti. Rinasceranno i movimenti anarco insurrezionalisti, al momento sopiti, ma pronti a risorgere al momento appropriato. Fino alla guerriglia urbana, gli spari in città, fino al coprifuoco. L’esercito che interviene, una giunta militare provvisoria, che poi diventa definitiva, un governo civile, garantito e ostaggio delle forze armate. In queste circostanze non vengono mai meno gli uomini della provvidenza. Un populista alla Chavez per il Venezuela potrebbe prendere le redini del governo con l’ausilio della polizia e dell’esercito, ristabilire l’ordine sociale ed instaurare, dopo elezioni fasulle, una democrazia autoritaria, o una dittatura blanda. Ci vorranno decenni per tornare ad uno stato della democrazia partecipata come la conoscevamo prima della crisi. Le dittature non hanno mai vita breve, nonostante le promesse di ripristino delle garanzie costituzionali, e di un veloce ritorno alle libertà civili. Le dittature durano decenni, e trovare un traghettatore che riporti indietro l’orologio del tempo non sarà una cosa né breve né facile. Questa, è vero, è la peggiore delle ipotesi, ma tutto sommato, a giudicare dall’andamento dei mercati (non dimentichiamo che un’altra distorsione storica di questo capitalismo e che l’economia prevale e condiziona la politica, laddove dovrebbe accadere il contrario) non c’è da sperare in qualcosa di meglio. La gestione dei passaggi storici è sempre difficilissima, occorrono governi abitati da uomini che posseggano un alto senso dello Stato ed uno spirito di abnegazione, un disprezzo per il potere. Uomini che, allo stato attuale, nel nostro paese, non si trovano nel modo più assoluto. E allora, niente di più facile che scivolare nella recessione fino alla povertà continuando a suonarsela e a cantarsela come l’orchestrina del Titanic al momento dell’affondamento. Quando la nave si reclinerà su di un lato, sarà troppo tardi per intervenire. E allora, avanti, coraggio, affrettiamoci al Medioevo prossimo venturo.

Luglio 2010, Roberto Tacchino