venerdì 31 marzo 2017

LA DEPRESSIONE E’ UNA CAUSA FREQUENTE DI DISABILITA’



"La depressione è una delle cause principali di cattive condizioni di salute e di disabilità nel mondo": è quanto ha dichiarato l'Organizzazione mondiale della sanità, secondo la quale più di 300 milioni di persone sarebbero depresse, il 18% in più rispetto alle stime ottenute nell'arco di tempo compreso tra il 2005 e il 2015. La mancanza di supporto psicologico, insieme al timore di essere giudicati, impedirebbero a molti di ricorrere ai dovuti trattamenti, peggiorando le condizioni di salute e di vita dei soggetti colpiti.
Proprio alla depressione l'Organizzazione mondiale della sanità ha dedicato il World Health Day, che si svolgerà il 7 aprile. Lo slogan dell'evento sarà "Depression: let's talk" (ovvero, "Depressione: parliamone"): lo scopo è quello di fare informazione su un disturbo ancora troppo sottovalutato, sensibilizzare e spingere le persone che ne soffrono a cercare aiuto.
Per dare una dimensione del fenomeno si parte dai dati: la depressione ha causato quasi 800 mila suicidi nel 2015, una percentuale aumentata del 20% negli ultimi 10 anni. Colpisce maggiormente le donne: 5,1% a livello mondiale, contro il 3,6% degli uomini e costituisce la seconda causa di morte tra i giovani nell'età fra 15 e 29 anni. Rappresenta, dunque, un problema a cui bisogna porre rimedio al più presto.
Un primo passo potrebbe essere quello di ridurre i pregiudizi e le discriminazioni: "È proprio per questo motivo che abbiamo deciso di dare questo nome alla campagna - ha spiegato il dottor Shekhar Saxena, direttore del Department of Mental Health and Substance Abuse dell'Organizzazione mondiale della sanità -. Per chi vive con la depressione, parlare con una persona di fiducia è spesso il primo passo prima di ricorrere alle dovute cure".
Il secondo passo riguarda gli investimenti necessari affinché tutti possano accedere ai trattamenti. Come sottolinea l'Oms, in molti Paesi manca il supporto necessario e anche in quelli più ricchi almeno il 50% delle persone depresse non si sottopone alle cure. In media, stando alle stime, soltanto il 3% dei fondi destinati alla sanità vengono utilizzati per questo fine.
L'Organizzazione mondiale della sanità ha poi messo in luce il collegamento tra depressione e altri disturbi e malattie. La patologia, ad esempio, aumenta il rischio di soffrire di diabete e di problemi cardiocircolatori. Produce una perdita di energia e di appetito nella persona colpita e un cambiamento nel ritmo di sonno-veglia, è spesso accompagnata da ansia, ridotta concentrazione, difficoltà nel prendere decisioni, senso di colpa e pensieri autolesionistici.
Non minimizzarla, ma accettarla e cercare di porvi rimedio è lo scopo della campagna dell'Oms. "Una migliore comprensione della patologia e di come potrebbe essere trattata è solo l'inizio - spiega il dottor Saxena - Ciò che è necessario è un servizio sanitario che si occupi anche di disturbi mentali accessibile a tutti, anche alle popolazioni più remote del mondo".
Ilaria Betti – Huffington Post

mercoledì 29 marzo 2017

L'AMARA VERITÀ È CHE L'ITALIA VIVE DI PARENTELE, AMICIZIE E RELAZIONI VANTAGGIOSE



Si è scritto molto sui social e i giornali a proposito dell'infelice frase del ministro del Lavoro Poletti sul fatto che giocare a calcetto sia più producente ai fini di trovare un lavoro che spedire il curriculum vitae. Alle opinioni critiche (e stracritiche) se ne affiancano alcune positive o che cercano di vedere nelle parole del ministro un significato morale tutt'altro che negativo, anzi un'esortazione al realismo.
Ha scritto Alessio Postiglione su Huffington che "questa volta il ministro ha ragione. E, a furia di esagerare, di essere una voce fuori dal coro, spesso e volentieri incespicando in gaffe, incomincia pure a starmi simpatico. Non parla politichese, dice l'amara verità ai nostri ragazzi, è poco consolatorio, è anticonformista rispetto ai parrucconi inamidati della sinistra - realtà dalla quale proviene -, che ripetono stantiamente altisonanti e roboanti petizioni di principio a base di Cultura, Impegno, Scuola, e via sacramentando con le maiuscole".
"L'amara verità" che il ministro racconta senza infingimenti starebbe nel fatto che occorre partire da quel che si è, ovvero dal paese dove si vive: l'amara verità è che l'Italia vive di parentele, amicizie e relazioni vantaggiose. Conoscere come stanno le cose è necessario e doveroso (se lo dice un ministro, poi!); ma equivale a farne una norma? Equivale a prendere quella descrizione come l'accettazione del fatto che solo con le spintarelle si può trovare lavoro?
Sarebbe come se nell'età della subordinazione politica delle donne queste avessero accettato l'amara verità e invece di incaparbirsi con la politica dei principi (suffragio) si fossero ingegnate a cercare soluzioni vantaggiose con le armi della furbizia, della simpatia servizievole, etc.; cosa che provarono anche a fare ma che si rivelò disastrosa (e vantaggiosa solo per gli uomini).
È paradossale fare del reale una norma perché il risultato sarebbe che nemmeno il reale funzionerebbe più come "verità". Se davvero tutti coloro che cercano lavoro avessero bisogno di conoscenze, simpatie servizievole, relazioni di influenza, etc., è probabile che gli influenti sarebbero così oberati di richieste da avere troppi clientes da accontentare e quindi che cesserebbero di essere patroni convenienti e influenti – giocare a calcetto con loro non servirebbe proprio a nulla.
Il che significa che (escludendo la conclusione astratta che tutti si convertirebbero alla moralità per l'impotenza degli influenti) la corruzione per funzionare deve essere selettiva e non inclusiva – dunque non deve essere che una realtà parziale. Che vale per alcuni (fortunati) ma non può valere per tutti.
La realtà non deve essere tutta di spintarelle perché le spintarelle abbiano efficacia. Questo significa che dire che Poletti racconta "l'amara verità" significa dire che Poletti non racconta "tutta" la verità, ma la verità parziale, quella di coloro – pochi comunque – che approfittano del sistema di conoscenze. Ecco perché questa filosofia della realtà "come è" è davvero negativa, perché invita ad accettare una realtà che tra l'altro è solo parziale. Ha la funzione di creare conformismo al ribasso – fatalistica accettazione. Caconomics!
Proviamo a leggere così la questione. Il lavoro è basato certamente anche su rapporti di fiducia. Ma per conquistare la fiducia sul campo occorre entrarci nel campo. E l'ingresso ha bisogno di credenziali che si basano sulla competenza – è il sistema che ne ha bisogno se non vuole fallire miseramente e, quindi, generare disoccupazione (la corruzione genera inefficienza e non aiuta alla lunga a sconfiggere la piaga della mancanza di lavoro).
Dunque, cominciare dalla fiducia che si acquista per frequentazione o influenza (giocare, appunto, a calcetto) significa ammettere che qualcuno si fa fiduciario per qualcun altro - la spintatella, le conoscenze giuste... sedimentate sui campi di calcetto o da golf.
Poletti traduce in immagini padane (nella sua terra il calcetto è molto diffuso) la logica delle relazioni utili, la logica di formazione dei gruppi di influenza. Insomma la logica delle clientele o dei gigli e gigliucci magici. Se non sei nel giro giusto allora non hai l'influenza giusta e quindi... o hai un lavoro straprecario (ecco a che cosa sono associati i curriculum vitae) o la povertà... per la quale arriva la carità privata e pubblica. Una proposta che suona come un ossimoro se viene da un ministro che appartiene a un partito di centro-sinistra.
Nadia Urbinati – Huffington Post

martedì 28 marzo 2017

POLETTI E’ INCOMPATIBILE CON LA CARICA DI MINISTRO. DEVE ANDARSENE UNA VOLTA PER TUTTE



Sono talmente tante le sciocchezze che si sentono ogni giorno che non verrebbe neanche più voglia di controbattere. Ma, mentre leggo basita le parole del ministro Poletti, penso che no, sui ragazzi no, non si può scherzare o sbagliare.
Leggo e penso, caro Poletti, che siamo in un Paese dove ai nostri ragazzi neanche si insegna a fare un curriculum decente da spedire. Penso che siamo drammaticamente di fronte a ragazzi ai quali andrebbe detto ben altro del fatto che il lavoro "si trova più su un campo di calcetto che spedendo curricula in giro" e che andrebbe presa coscienza, invece, che c'è un gap mostruoso fra i nostri giovani che andrebbe colmato.
Perché, oggi, chiunque viva in mezzo ai nostri ragazzi si rende conto che esistono quelli che non vedono nessuna luce in fondo al tunnel e magari neanche hanno i soldi per giocarci a calcetto, caro ministro. Quelli che si "infognano" nella ricerca di un ipotetico lavoro parcheggiandosi anni in questo stato senza che nessuno gli dica come fare davvero, come essere efficaci, senza demagogia o buone scuole teorizzate ma praticate su terreni assurdi dove mancano i fondamentali.
A questi, caro Poletti, è offensivo, mortificante, una truffa ignobile, parlare di "calcetto"! Sono strumenti che gli vanno offerti. Sono stimoli, incentivi a essere al meglio delle loro possibilità, sono confronti con quello che può accadere e accade nel mondo che devono conoscere, proprio per scoprirli nel nostro Paese dove esistano o attuarli se non glieli abbiamo già creati.
A questi ragazzi non si deve parlare di lavoro da trovare sul campo di calcetto! A questi ragazzi va detto che prepararsi serve e che se saranno preparati, specializzati, offrendogli la possibilità di proporsi con quel qualcosa in più che il mercato richiede e gli diamo la possibilità di avere, se faranno con passione qualcosa che amano e lo faranno presto e bene, il margine per il lavoro ci sarà.
Può esistere. Non si può offenderli illudendoli che una pacca su un campo di calcetto o quattro battute in uno spogliatoio prima della doccia, sostituiscano una professionalità da costruirsi, l'unica vera arma che possiamo regalargli noi adulti, e imparato sulla nostra pelle, per renderli liberi!
Poi, caro Poletti, ci sono gli altri. Gli altri ragazzi. Quelli che sulla sua battuta si fanno una risata e, magari, ci bevono su una birra brindando a loro e al fatto che qualcosa l'hanno intuita da soli, invece, senza i suoi mirabili consigli.
Solo che questa risata se la fanno davanti a una birra in pub inglese, o in Francia, in Europa o in una qualunque altra parte del mondo. Si fanno una risata perché sono quelli, fra i nostri giovani, che hanno ritenuto il nostro Paese non avere più speranza e sono andati "fuori". Ci sono andati proprio perché hanno visto gente che amministrava, descriveva e descrive il loro futuro in questo Paese con frasi come le sue.
Quelli che hanno capito che i curricula vanno spediti, tanti, e che vanno anche spediti fatti bene. Vanno spediti con risultati avuti, con elementi che contino, con esperienze che vanno da aver dato dei gadget pubblicitari per strada al conoscere bene una lingua o aver finito in tempo il proprio percorso, e neanche con voti massimi se c'è tutto il resto.
Sono quelli che hanno avuto possibilità in Paesi che li hanno sostenuti nello studio e nei quali si può ancora spedire proprio uno di quei curricula avendo una risposta onesta, anche senza giocare a calcetto. Sono ragazzi che hanno stage dignitosi, dove imparano e sono dignitosamente pagati. Ragazzi che sorridono alle sue battute e che per battute come queste continuiamo a perdere perché restano altrove.
Poco male se resteranno altrove, dirà "qualcuno"? Io non credo. Credo sia un disastro, invece, credo siano le nostre migliori energie che perdiamo mentre, oltretutto, offendiamo e mortifichiamo le altre rimaste qui.
Quelli che sono qui con noi, adulti sconcertati, ad ascoltarla, quelli che ancora neanche lo sanno che potrebbero esserlo, migliori. Mentre nostro dovere sarebbe dirglielo. Continuamente. In un Paese dove il nepotismo ancora la fa da padrone e dove si offrono ogni giorno esempi non proprio edificanti di posizioni di potere mantenute nonostante evidente impreparazione o mancanza di qualificazione adeguata, almeno il buon gusto di non offenderli, i nostri ragazzi io personalmente lo pretendo.
Da cittadina e da madre, soprattutto. Da madre che vede questi ragazzi, li vive e ascolta raccontarsi e troppe volte, ormai, non riesce più a trovare ancora parole per difenderlo davanti a loro, questo nostro, dannatissimo ma amato Paese.
Milena Mucci – Huffington Post

lunedì 27 marzo 2017

GLI INGLESI FUORI DALL’UE? VADANO PURE, NON LI RIMPIANGEREMO



Dai sei stati fondatori del 1957 (Francia, Germania Federale, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) siamo passati ai 28 in 50 anni, per ritrovarci nel breve volgere di un referendum in 27, con la Brexit, voluta da poco più della metà dell'elettorato di quella Gran Bretagna, fin dall'inizio riottosa, quando entrò con molte riserve e accordi vantaggiosi nel 1973, per poi tirarsi fuori dalla fondazione dell'Euro con la dannosa clausola "opting out", in nome di un concetto di sussidiarietà a senso unico alla firma del Trattato di Maastricht del 1992.
Da allora, aver trattenuto i riottosi e utilitaristi anglosassoni è stata la vera rovina del progetto federale dell'Unione Europea, come la sognarono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e come contribuirono a fondarla Adenauer, Spaak, De Gasperi e Martino, Monnet e Schuman. Ripensando agli anni di febbrile idealismo comunitario, suona oggi davvero profetico il "veto" del presidente francese, Charles De Gaulle, contrario all'ingresso del Regno Unito, perché ritenuta la "longa manus" degli Stati Uniti.
Uomo dal grande fiuto strategico-militare e politico (e non solo per il possente naso!), De Gaulle era stato lungimirante e aveva visto giusto (lui che aveva conosciuto da vicino i vertici britannici durante la guerra, a partire dal malmostoso conservatore Churchill) come sarebbe stata destabilizzante l'entrata dell'isola nella comunità europea continentale.
In effetti, Londra ha sempre svolto un ruolo di freno all'integrazione globale dei singoli paesi nell'Ue, imponendo anche la sua visione iperliberista sui mercati finanziari, sulla gestione dell'economia e sulle restrizioni del welfare. La sua tenace battaglia a favore delle privatizzazioni sia delle industrie "strategiche", controllate dal management pubblico, sia dei servizi (trasporti ferroviari, aerei e marittimi, reti energetiche e di TLC, sistema bancario, poste) si è imposta sulle altre visioni dell'economia politica: quella del "capitalismo misto" centralistico alla francese e quella del cosiddetto "sistema renano" regionalistico alla tedesca.
La conservatrice, iperliberista Margaret Thatcher prima, seguita poi dal clone John Major e quindi emulata in salsa pseudo-laburista da Tony Blair, sono riusciti a modificare l'impianto solidaristico e progressista dell'Unione, scardinandone pezzo per pezzo, accordo dopo accordo, il significato profondo e innovativo della sua fondazione, spingendo l'Europa verso il neo-capitalismo senza regole nordamericano.
I risultati drammatici li stiamo vivendo da dieci anni, dall'inizio della grande crisi economica e finanziaria mondiale, dalla quale non si riesce ancora ad uscirne fuori né con ricette "liberal-conservatrici" né con opzioni "keynesiane". Le maggiori "famiglie politiche" del vecchio continente, dai centristi-popolari e democristiani ai socialdemocratici, sono rimaste così impelagate nelle sabbie mobili, non superando per debolezza propria e per paura del crescente euroscetticismo, misto a "sovranismo" e xenofobia, questa fase di depressione economica ma anche psicologica e ideale.
La Thatcher per imporre il suo neo-liberismo secondo le ricette del reazionario Milton Friedman e della sua "Scuola di Chicago", non esitò a imbrigliare la concertazione con i sindacati e ridurre il ruolo delle Trade Unions a semplici comprimarie del partito laburista. Il suo metodo selvaggio di privatizzazione influenzò purtroppo sia gli altri partiti centristi e popolari, ma anche i socialdemocratici fino ad allora determinanti nelle scelte di politica economica europea. Paesi come quelli scandinavi, insieme all'Olanda e alla Danimarca, abituati a un welfare post-bellico attuato dai governi di sinistra, cominciarono a tentennare nelle loro certezze solidaristiche.
Certo, la Germania rimase l'ultimo baluardo nella controriforma neo-liberista, così come la Francia, mentre l'Italia e la Spagna si fecero soggiogare dal novo vento del "capitalismo compassionevole" agitato dal nuovo vessillifero Blair. E così i rispettivi governi di centrosinistra si gettarono a capofitto nelle più disastrose privatizzazioni, che anziché risolvere i problemi del Debito pubblico ne hanno ampliato la voragine, dando purtroppo spazio all'ingresso nelle industrie e nei servizi ad alta redditività della finanza extra-europea.
In Italia, ironia della sorte, furono proprio gli epigoni del nuovo centro-sinistra, ex-democristiani convertiti all'aperturismo verso gli ex-comunisti, come Beniamino Andreatta e Romano Prodi, e liberali come Carlo Azeglio Ciampi a spingere verso il sistema di privatizzazioni all'anglosassone, invece di adottare il cosiddetto "sistema renano", ovvero la compartecipazione di privati e finanza pubblica-regionale con la creazione dei Consigli di sorveglianza dove sono presenti i rappresentanti dei maggiori sindacati. Sistema questo che è tutt'ora alla base della crescita economica e dello sviluppo occupazionale in Germania e del suo surplus commerciale.
Ad Andreatta si deve la separazione tra Banca d'Italia e ministero del Tesoro, che ha spianato la strada alla speculazione privata sul debito pubblico, e la scelta della cosiddetta "banca universale", con il sistema creditizio che ben presto abbandonò la leva del finanziamento alle imprese, sostituendola con la finanziarizzazione e la commistione perniciosa nell'azionariato aziendale.
E come ciliegina sulla torta del neo-capitalismo la chiusura dell'Iri, decisa con l'accordo del Commissario europeo, il belga socialdemocratico Karel Van Miert (poi consulente della Goldman Sachs, nonché ispiratore della Deregulation nei servizi telefonici e dei voli aerei), con la conseguente spoliazione industriale e delle reti del nostro paese, a favore di Germania, Francia e Gran Bretagna, ognuna delle quali nel proprio settore di eccellenza veniva ad occupare i vuoti concorrenziali lasciati dalla miopia degli economisti di centrosinistra.
E mentre la Gran Bretagna, dalla fine degli anni Novanta, col "Blairismo" conosceva il lungo autunno della sua decadenza economica, perdendo tutto il settore industriale, aprendosi come terra di conquista della finanza mondiale (soprattutto araba, russa e cinese), la Francia e la Germania si accaparravano i mercati delle assicurazioni, delle banche, delle industrie manifatturiere ad alta tecnologia e delle Reti (tlc, trasporti, energia).
Ma in tutta questa trasformazione, che spingeva l'Italia fuori dal club dei big del G8, superata anche da Cina, Brasile, India, Russia e Sudafrica, anche l'Europa, grazie al disastroso allargamento ad Est, fortemente voluto dalla Germania (pronubo l'allora presidente della Commissione Prodi, l'allievo prediletto di Andreatta), cominciava a sgretolarsi. Il trionfo delle teorie anglosassoni sulle scelte di politica economica ed istituzionale dell'Unione ha così generato l'euroscetticismo, il ritorno al nazionalismo anteguerra, lo svilupparsi di movimenti xenofobi, al grido di "via gli immigrati e i musulmani". L'Europa da terra di accoglienza e solidarietà si è trasformata in un magma di istinti egoistici e antidemocratici.
E come una legge del "contrappasso", proprio quei paesi che più avevano usufruito nel dopoguerra del Welfare State diffuso, grazie alla lungimiranza di governi socialdemocratici (Germania, Olanda, Danimarca e Scandinavia) o allo statalismo di stampo sovietico (Polonia, Ungheria, Cekia e Slovacchia), oggi sono i vessilliferi del neoliberismo anche in campo sociale: ridurre le spese pubbliche e gli aiuti alle fasce più deboli, per risanare le casse dello Stato.
E se provassimo invece a ricominciare dal 1957, da quella spinta idealistica e visionaria? Senza voltarsi indietro per dire "arrivederci" agli amici inglesi! Magari, inviando loro lettere profumate, come tra vecchie signore all'ora del tè, ricordando che il Regno Unito è morto come potenza mondiale neocoloniale nel 1947 (appunto 70 anni fa!) e che con la sciagurata Brexit tornano a risuonare anche le cornamuse per l'indipendenza dell'orgogliosa, ricca Scozia e le arpe celtiche dell'indomita Nord Irlanda.
Gianni Rossi – Huffington Post