venerdì 30 ottobre 2015

LA MERKEL VUOLE SOLO SIRIANI, NO A SLAVI ED AFGHANI. L’ACCOGLIENZA E’ SELETTIVA, TROPPO COMODO. ORA RISCHIA LA CRISI DI GOVERNO



Angela Merkel cerca aiuto in Cina sui profughi.
Sì, in Cina. Perché attorno alla cancelliera tedesca si sta creando il vuoto e pompare l’import-export con il Dragone servirà perlomeno a calmierare il buco dei miliardi in bilancio da destinare all’accoglienza.
I Comuni battono cassa: per il 2016 si stima un’ondata di 1,2 milioni di richiedenti asilo e per le amministrazioni il tetto degli 800 mila ingressi nel 2015 era già superato prima che il governo spalancasse le porte ai siriani.
STRUTTURE PIENE. I soldi dello Stato non bastano, anche il maxi-stanziamento di 6 miliardi viene ritenuto insufficiente, questo a lungo termine.
Le città, Berlino in testa, sono al limite: mancano le strutture dove alloggiare i profughi.
Caserme, palestre, edifici statali in disuso, anche i nuovi prefabbricati montati per l’emergenza sono pieni e il ministro dell’Interno non ha usato mezzi termini: «Dentro i siriani, fuori gli afghani». Ne sono arrivati troppi, «basta accordarsi con Kabul, delle zone sono sicure e ricevono molti aiuti allo sviluppo».
AFGHANI E SLAVI VIA. Via anche i richiedenti asilo dai Balcani: «Decine di migliaia di domande sono state respinte, nelle prossime settimane aumenteranno sensibilmente rimpatri, espulsioni e rientri volontari», ha annunciato de Maiziere.
D’altra parte anche Wolfgang Schäuble, numero due del governo, stringe i cordoni: «Nessun aiuto illimitato ai profughi», ha frenato.
La cancelliera è duramente contestata anche dai compagni di partito (Csu-Cdu) bavaresi e dagli austriaci, che infuriati vogliono erigere muri alle frontiere. Sui migranti Merkel rischia la crisi di governo

In Germania c’è chi inizia a vedere il cortocircuito dei migranti come la fine politica di Angela Merkel, la cancelliera che voleva passare alla storia come la statista che riscatta il passato dei tedeschi costretta alla crisi di governo.
Non si sa come andrà a finire, ma da sola la locomotiva d’Europa segnata da una catena di gravi scandali industriali e finanziari non potrà tener botta alla promessa del «nessun limite ai profughi».
L'APERTURA AI SIRIANI. Perché la cancelliera ha detto la frase illusoria, dopo aver già aperto la porta a milioni di siriani?
Si era resa conto di aggravare una situazione esplosiva, dando il là alle migliaia di uomini, donne, bambini che si gettano disperati e muoiono in mare?
Pare di sì, perché Merkel ha ammonito i migranti ad accettare di essere schedati nei Paesi della ripartizione delle quote e «non nelle città e nei Paesi dove si vuole», lasciando trapelare di essere perfettamente consapevole della loro volontà di raggiungere parenti e amici in luoghi precisi della Germania e del Nord Europa.
A CANOSSA DA ERDOGAN. La cancelliera ha poi spinto l’Ue a trattare con la Turchia, andando in visita dal presidente Recep Tayyip Erdogan.
Quindi è anche ben conscia che a provocare l’enorme flusso di migranti nei Balcani è Ankara, che da anni ha in pancia milioni di profughi, Erdogan è stufo e cinicamente, in campagna elettorale, chiede miliardi all’Ue.
Da un lato la cancelliera ha aperto le frontiere, dall’altro vorrebbe dai Paesi vicini rigide selezioni e anche bloccare i migranti sul Bosforo.

Scontro tra Austria e Germania, Baviera in rivolta

Ora, a parte il mostro creato dei migranti di serie A e migranti di serie B, l’Austria viene trattata come uno Stato vassallo.
A luglio, mentre la Grecia veniva umiliata, il Land tedesco della Baviera tagliava il debito pubblico della Carinzia austriaca.
Merkel convinceva poi Vienna ad aprire le frontiere ai migranti - un cambio radicale delle politiche d’accoglienza sia austriache sia tedesche - e ora che l’emergenza è diventata ingestibile, perché è indubbio che l’Austria, come lamenta il governo, sia uno «Stato piccolo», richiama gli austriaci «all’ordine».
LA RISSA CON VIENNA. «Non si possono abbandonare i migranti nei campi, la notte al freddo, lungo i nostri confini, senza preavviso», ha intimato de Maiziere. Quelle notti in Germania si sono registrati fino a 11 mila ingressi illegali in un giorno.
«Ma cosa pretendono? Chi ce li ha mandati? È stata la Merkel ad attirarli», si scaldano i governatori austriaci che iniziano a pensarla come gli ungheresi.
Vienna è pronta a innalzare un muro alla frontiera con la Slovenia, e giù bordate dalla Germania.
«I MURI NON SONO RISOLUTIVI». «Non crediamo che l’attuale crisi migratoria si possa risolvere con la costruzione di reti o di muri», ha stigmatizzato Berlino.
Ma i falchi bavaresi della Csu, pure infuriati per la “disorganizzazione” austriaca, chiedono alla cancelliera i fili spinati, minacciando di portare il caso alla Corte costituzionale.
Scaricabarili, risse di partito, scoordinamento: sembra un copione italiano e invece è la Germania.
A farne le spese intanto sono gli afghani, i più facili da colpire.

giovedì 29 ottobre 2015

UNA STORIA IMPORTANTE



A soli cinque anni Julianna Snow sa che dovrà "andare in paradiso". E preferisce iniziare il viaggio non da un ospedale ma dalla sua cameretta, circondata da familiari, giocattoli e ricordi. La piccola vive a Portland, in Oregon, ed è affetta dalla sindrome di Charcot-Marie-Tooth, una neuropatia ereditaria, che nel suo caso non le lascerà scampo. Secondo gli psicologi che l'hanno visitata, Julianna ne è pienamente consapevole. Per questo i genitori hanno deciso di rispettare la sua scelta di evitare l'ospedale, alla prossima emergenza.
Ma può una bambina così piccola prendere una decisione tanto importante? Sebbene le sue condizioni siano disperate, la scelta della famiglia ha fatto discutere. Poco tempo fa la mamma Michelle, neurologa, ha pubblicato sul sito The Mighty un blog intitolato "Mia figlia vuole scegliere il paradiso al posto dell'ospedale", in cui descriveva, nel dettaglio, i suoi problemi di salute, incluse le sue difficoltà respiratorie e la sua incapacità nel camminare. "Dopo mesi di ricovero, non credo che sopravviverà ad un'altra emergenza", si legge nel post.
In quella lettera, la mamma riportava anche un dialogo avuto con la piccola, in cui Julianna le esprimeva la sua insofferenza verso l'ospedale e la sua voglia di raggiungere il paradiso, quel luogo che i genitori, cattolici, le avevano descritto come regno di pace. Un posto in cui la bambina avrebbe finalmente potuto dire addio a siringhe, medicine, tubi e sofferenze.
"J: Non mi piace la NT (una specie di intubazione, la cosa che più odiava dell'ospedale)

M: Lo so. Quindi, se ti sentirai di nuovo male, preferirai rimanere a casa?

J: Odio la NT. Odio l'ospedale.

M. Va bene. Quindi se ti capiterà di nuovo di star male, vorresti rimanere a casa. Ma sai che questo potrebbe significare che potresti andare in paradiso, vero?

J: (fa sì con la testa)

M: E che dovrai andare in paradiso da sola, visto che mamma arriverà più tardi?

J: Ma io non voglio stare da sola.

M: Va bene. Non sarai sola.

J: Qualcuno verrà in paradiso presto?

M: Sì, ma non sappiamo quando ci andremo. Qualche volta sono i bambini a dover andare in paradiso. Altre volte sono le persone più anziane.

J: Alex (il fratellino di 6 anni, ndr) verrà?

M: Probabilmente no. Le persone non vanno in paradiso nello stesso momento, la maggior parte delle volte vanno da soli. Questo ti spaventa?

J: No, il paradiso è bellissimo. Ma non mi va di morire.

M: Lo so. È questa la parte più difficile. Non dobbiamo aver paura di morire perché c'è il paradiso ad attenderci. Ma è triste perché mi mancherai tanto.

J: Non ti preoccupare, non sarò sola.

M: So che non lo sarai perché ti amo"

Basta un dialogo del genere per far capire ad una madre le intenzioni della figlia? Dopo aver reso pubblica la loro decisione, i genitori di Julianna sono stati inondati da decine di mail di critiche: molti li hanno accusati di aver ingannato la piccola con la promessa di una vita nell'aldilà molto più facile di quella che ha vissuto su questa Terra. Ma sono ancora convinti della loro scelta: renderanno fede alla sua richiesta. "Penso che ci siano zero possibilità che una bambina così piccola capisca cosa sia la morte. Quel tipo di pensiero emerge intorno ai 9-10 anni d'età", ha affermato Art Caplan, bioetico della New York University. Il dottore Danny Hsia, che ha in cura Julianna, non è d'accordo: "Per lei non c'è luce alla fine del tunnel. Quindi assume un senso la volontà di ascoltarla".

mercoledì 28 ottobre 2015

LO CHIAMAVANO "IL BOMBA"



Più che un politico, che nel suo caso è forse una parola grossa, Matteo Renzi è un Giano bifronte: dice una cosa e, puntualmente, ne fa un’altra. Gli ultimi esempi li elenca stamani Il Fatto Quotidiano, con articoli rispettivamente di Carlo Di Foggia, Marco Palombi e Alessandro Robecchi. Primo esempio: Renzi dice di voler combattere nero ed evasione, ma caccerà la responsabile dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi perché si è opposta – lei e tutta la “scuola” di Vincenzo Visco – all’aumento del tetto sul contante, all’ennesimo condono e alla vecchia norma “salva-Silvio” (poi accantonata). Secondo esempio: Renzi dice di avere tolto 25 miliardi di tasse con la nuova Legge di Stabilità, ma gli sgravi fiscali effettivi sono solo 1,3 miliardi. Tutto il resto o è virtuale, o è un ulteriore regalo a imprese e redditi più alti (cioè a Confindustria). Ci sono poi i tagli alla Sanità (2,3 miliardi), l’ennesimo insulto agli esodati (23mila resteranno ancora fuori) e l’elemosina agli statali con contratto bloccato dal 2009 (un aumento netto mensile di 4 euro). Terzo esempio: Renzi va a visitare l’Osservatorio di Paranal in Cile, seguito dalla solita propaganda, che lo ritrae vestito come un insaccato triste mentre mira le stelle con quel suo sguardo – ops – da triglia vagamente estasiata. Colpito da un tale spettacolo tecnologico-visivo, Renzi esterna su Facebook le sue emozioni, utilizzando il lessico canonico da fan dei Ringheira pre-bimbominkia (“I telescopi migliori del mondo che si immergono nell’abisso dell’universo”). Poi sbrodola con la puntuale retorica di “quanto sia grande il nostro Paese”. Che è anche vero, l’Italia è grande eccome, ma se lo dice Renzi un po’ di dubbi ti vengono. Presidente del Consiglio, giustamente, rimane colpito dagli straordinari telescopi dell’Eso (European Southern Observatory). L’Eso ha un bilancio di 130-140 milioni e l’Italia, membra dal 1982, “ne sgancia più o meno quindici all’anno” (racconta Robecchi sul Fatto). Ora: a questo punto ti immagineresti che Renzi, colpito da cotanta bellezza, aumentasse o quantomeno mantenesse la stessa cifra per finanziare l’Eso. E invece lui che fa? Sempre nella nuova Legge di Stabiltà, articolo 33 comma 18 (allegato 4), si scopre che Renzi taglierà all’Eso tre milioni: uno nel 2016, uno nel 2017, uno nel 2018. La solita storia: in pubblico dice una cosa, ovviamente a favore di telecamera, e poi “di nascosto” (nel senso che l’informazione lo racconta di rado) opera esattamente nella maniera opposta. Un po’ come quando si gettò un secchio di acqua gelata per l’Ice Bucket Challenge, uccidendo peraltro miliardi di ormoni femminili con quel completino aderente azzurro shocking. L’obiettivo, nobilissimo, era quello di combattere la Sla. Poi però tagliò i finanziamenti alla ricerca (per fortuna ci ha ripensato).
Siamo di fronte all’ennesimo caso di politico bifronte, ma con Renzi c’è di più: una sorta di surplus caricaturale e dunque tragicomico. Ho sempre pensato a Renzi, e l’ho scritto spesso, come a un personaggio minore di un bar toscano qualsiasi. Uno di quelli che, quando entra al bar, straparla di tutto e millanta chissà quali imprese, ricevendo – ovviamente – per tutta risposta le prese in giro degli avventori. Il “bombarolo” del paese, e infatti a Rignano lo chiamavano “il bomba”. Ogni volta che lo guardo, mi domando come abbia fatto l’Italia a credere anche a questo qua. Magari sbaglierò io, e un giorno i libri di storia parleranno di Renzi come di Churchill e Adenauer (certo), ma mi viene sempre in mente un mix tra il giudice di De André, che cerca rivalse livide per far media con le frustrazioni del passato, e un Jerry Calà debole.
Insisto su questo punto, apparentemente marginale, perché lunedì sul Fatto c’era una esilarante intervista di Alessandro Ferrucci a Massimo Ceccherini. A un certo punto Ceccherini parlava di Renzi. E ne parlava in una maniera forse rivelatoria. Lo riporto fedelmente: “Bar di Firenze, anni Ottanta. Con gli amici ci trovavamo sempre lì, ci passavamo i pomeriggi. Chi eravamo? Beh, io, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti e Giorgio Panariello. Quante ne abbiamo combinate, a tutti. Anche a Renzi. Da bambino ha subìto uno dei primi casi di bullismo: quando passava dalle nostre parti, poteva accadere qualunque cosa. Dai gavettoni a crescere: io ero specializzato nel grattargli la testa con le nocche. Urla di dolore. Una volta è andata anche peggio: gli abbiamo tirato giù i pantaloni e lo abbiamo frustato sul culo con l’ortica. Però devo ammettere una cosa: non se la prendeva, e noi a insistere”.
Diciamo la verità, ragazzi, e diciamolo con l’ironia greve tipica dei toscani: forse abbiamo (hanno) dato l’Italia in mano a un “bischero”. Forse, oggi, il sedere è nostro. L’ortica la tiene in mano lui. Tanti, tra gli italiani, non se la prendono. E lui a insistere. (Andrea Scanzi)

martedì 27 ottobre 2015

MICHELE SERRA: LA FEROCE CRITICA ALL’ITALIA CON LA TESTA DENTRO LO SMARTPHONE



L’Italia di Michele Serra è il luogo meno renziano che potete immaginare. Infatti è il mondo reale, nel quale i fatti sono fatti e le parole sono parole, si vive precari e il futuro non è un un’ipotesi sorridente e sfolgorante, gli smartphone sono oggetti di distrazione (puoi sbattere in un palo, se non guardi dove vai) e non di distrazione di massa. “Ognuno potrebbe” (Feltrinelli, pagg. 152, euro 14) è un affresco estremamente arguto, feroce e sarcastico dei nostri tempi e di un’Italia composta da gente che si è persa “a pochi chilometri da casa, lungo le strade che percorro da una vita”, proprio come accade a Giulio Maria (alter ego di Serra).
Giulio Maria, quasi 36 enne, laureato in antropologia, vive con la madre e ha una fidanzata sempre connessa. E’ un ricercatore universitario precario, guadagna 700 euro al mese e il suo lavoro è totalmente inutile: catalogare l’esultanza dei calciatori dopo il gol. Ha un contratto di due anni che è una specie di dottorato ma non proprio o una borsa di studio o un master. Non si capisce bene, è precario anche il nome di quello che fa. Poiché la trama è debolissima (come vendere un capannone del fu padre ebanista), quanto accade è solo un pretesto per raccontare come si vive in un luogo piuttosto triste, Capannonia. Ecco una sorta di dizionario dell’Italia di Giulio Maria, lo sdraiato cresciuto che rappresenta il fallimento di un’intera generazione. O più probabilmente di due.
Ognuno Potrebbe – A iniziare dal titolo è la dichiarazione programmatica della vita a Capannonia. È la perfetta antitesi dello “Yes We Can”, di originie obamiana, a cui si ispirano gli entusiasti, come l’amico collega Ricky, eterno e ottuso ottimista. Giulio Maria avrebbe potuto fare il falegname, come il padre. Ma non gli è mai passato per la testa. “Avrei potuto. Ma non l’ho fatto” dice. Avrebbe potuto fare anche tante altre cose, ma non l’ha fatte. E infatti vivacchia in attesa che qualcosa accada. Ma non sarà lui, chiaramente, a fare alcunché perché questo qualcosa accada. Il vero “ognuno potrebbe” del titolo è a pagina 120, ma non vi sveliamo di più.
Capannonia – E’ il “luogo di merda” dove si muovono i protagonisti. Ovvero un posto non ben definito nella Pianura Padana, fatto di “tubi e cubi” che mangiano le campagne e brutalizzano il territorio fino a renderlo un susseguirsi di capannoni e rotatorie (dove per l’appunto Giulio Maria si perde), un susseguirsi deforme di costruzioni e circonvallazioni e parcheggi di ipermercati del tutto disordinate e inutili. E’ un luogo peggio che brutto, un posto senza identità, che non ha “pretese di eleganza ma neppure il vigore della volgarità”.
Egòfono – Traduzione letterale (seppure impropria) dell’Iphone, la cosa che Giulio Maria odia più di tutto al mondo dopo la parola “Io”. E’ la causa del narcisismo digitale che affligge Capannonia. Citazione testuale. “Esisterà solo l’io. Ognuno con il suo egòfono acceso. Muto con chi gli sta intorno, loquace solo con chi ha il merito di rimanersene a distanza”. Per comunicare con la fidanzata, Giulio Maria pensa di trasferirsi altrove, in un posto lontanissimo.
Selfie – Gli abitanti di Capannonia pensano che sia un autoritratto fatto con lo smartphone, ma Giulio Maria, che non per niente è un ricercatore e antropologo, ha fatto una ricerca e sa che l’origine di selfie è un’altra: vuol dire “masturbazione”. Non è chiaro se questo gli dia un sottile piacere di rivincita o aumenti il suo sgomento di fronte ai fanatici dei selfie.
Sindrome dello Sguardo Basso – La fidanzata del protagonista finisce al Pronto Soccorso per colpa di questa malattia che affligge gli ignari abitanti di Capannonia. Chi ne è afflitto può venire investito da un camion o precipitare in un buco sul marciapiedi semplicemente perché la testa è china sullo schermo dell’egòfono invece di guardare avanti. Gli affetti dalla sindrone non solo non guardano le altre persone, non le vedono proprio.
Io –E’ la causa dell’unico schiaffo ricevuto da Giulio Maria da suo padre quando aveva dieci anni. La scena avviene durante un pranzo di famiglia, nella grande cucina della nonna. Il ragazzino interviene nella conversazione dei grandi e alla fine, improvviso e assordante, arriva lo schiaffone del genitore. Tutti lo guardano esterrefatti. “Hai detto io almeno dieci volte. E’ molto maleducato”. Citazione testuale: “La testa ronzava, girava a vuoto, cercava di riassettarsi. Dissi a mia madre. “Ma io non è un parolaccia!”. Lei mi rispose che non lo era. Nessuno di noi poteva immaginare che lo sarebbe diventata”. Ovviamente, a Capannonia l’individualismo e la supremazia dell’Ego hanno ucciso ogni forma di solidarietà e comunità.
La Gran Figa – E’ la voce suadente della navigatrice satellitare. Una tecnologia stolida, che intima di fare inversioni a U quando non vorresti affatto, che ti porta fuori strada e interviene a sproposito. E’ il simbolo di tutte le tecnologie che Giulio Mario detesta (come Serra) e ritiene dannose, oltre che superflue.
Il cinghiale – Non c’entra niente eppure è la sintesi suprema di tutto (a cominciare dall’immagine della copertina di Gipi). Quando si trova un cinghiale morto in mezzo alla strada, il traffico va in tilt e gli abitanti di Capannonia anche. Nessuno sa perché sia lì e cosa farne. La cosa più ovvia sarebbe spostare il cinghiale dalla carreggiata. Ma nessuno lo fa. Si forma invece un crocchio intorno alla bestia morta e ognuno collegato con l’auricolare al suo egòfono chiede consigli a gente a casa e tenta di dare la sua interpretazione e di capire il da farsi. E’ un magnifico effetto talk show, dove uno dice che i cinghiali perdono l’orientamento a causa delle scie chimiche degli aerei militari, una ragazzina è sicura che sia scappato da un laboratorio dove si fa vivisezione, un altro è sicuro che non si saprà mai, perché “loro” le cose le tengono nascoste. L’unico che non parla è un ragazzino di sedici anni, tuta da meccanico, grasso del motore. Quando gli chiede perché non dice niente, risponde: Perché non so cosa dire. E’ lui che sa indicare a Giulio Maria la strada per tornare a casa.
Messaggio finale (e dedica iniziale) - Il lavoro manuale, il grasso della tuta da meccanico, saranno la salvezza nostra e di Capannonia? Giulio Maria pare pensarlo e trova la pace lavando a mano pile di piatti e bicchieri. Con lui pare pensarlo anche Michele Serra, visto che dedica il libro “a Giovanna, al suo lavoro”. Un messaggio chiaro per chi sa che la compagna di Serra (Giovanna Zucconi) ha lasciato il giornalismo per coltivare lavanda e fare profumi.