domenica 30 giugno 2013

LE PENSIONI D'ORO VALGONO 3,3 MILIARDI DI EURO



La casta, come spesso accade in questo Paese, ha vinto un'altra volta. E la casta degli intoccabili, salvati nei giorni scorsi da una sentenza della Corte Costituzionale è quella dei pensionati ricchi. Di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno. Per loro il governo Monti aveva predisposto un contributo di solidarietà che prevedeva tagli del 5% sopra i 90mila euro; del 10% sopra i 150mila euro e del 15% al di spora della soglia ultra-ricca delle pensioni di 200mila euro lordi annui.
La Corte ha bocciato il decreto perché discriminatorio dato che toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. E così gli "intoccabili" delle pensioni d'oro hanno tirato nei giorni scorsi un sospiro di sollievo. Si vedranno anzi restituire il contributo di solidarietà già versato. Ora si preparano a una nuova battaglia con il Governo che intende estendere il prelievo non solo alle pensioni ma anche ai redditi. Una battaglia giusta? Vista con l'occhio della collettività pare uno scontro di mera salvaguardia corporativa.
Già perché i pensionati d'oro, quelli cioè sopra i 90mila euro lordi annui, sono pochi circa 33mila ma pesano molto sul sistema pensionistico. Il valore totale dei loro assegni sfiora i 3,3 miliardi di euro. Non poca cosa per il drappello dei fortunati che da soli incassano l'1,2% dell'intero monte pensioni italiano che viaggia a quota 265 miliardi. Pochi ma ad alto peso specifico. Una pensione da 90mila euro l'anno (su cui era applicato un contributo di solidarietà del 5%) equivale a un assegno mensile di 6.400 euro lordi per 14 mensilità che diventano oltre 4mila euro netti al mese. Una pensione sopra i 150mila euro lordi (contributo del 10%) significano quasi 11mila lordi al mese e oltre 6.500 euro netti. Per non parlare di chi supera i 200mila euro (taglio bocciato del 15% sopra questa cifra) che gode di assegni di oltre 8mila euro netti al mese. Il taglio, su cui si sono levate le grida sdegnate degli interessati, avrebbe avuto nei fatti solo valenza simbolica. Voleva dire una piccolissima sforbiciata di circa 25 milioni l'anno per 3 anni, su un importo complessivo di 3,3 miliardi. Un'inezia. Basti pensare a titolo di paragone che l'importo medio delle pensioni erogate in Italia (sono 23 milioni) è di 11.229 euro lordi annui; un importo 9 volte più basso del primo scaglione (quello da 90mila euro) dei pensionati ricchi. Quegli 11mila euro lordi che è la media generale, dice che il 13,8% dei pensionati riceve meno di 500 euro al mese, il 31% incassa cifre tra i 500 e i mille euro al mese; un quarto dei 23 milioni di pensioni veleggia tra 1.000 e 1.500 euro e un terzo riesce a superare la soglia dei 1.500 euro.
Siamo lontani, molto lontani dai più poveri tra i super-ricchi che con i loro oltre 4mila euro di pensione al mese sono stati graziati dalla sentenza della Consulta. Quei 3,3 miliardi di spesa per le super-pensioni a 33mila soggetti valgono poco meno dei 4,1 miliardi che costano le magre pensioni sociali di oltre 800mila italiani. Si dirà che i super-fortunati prendono assegni d'oro perché hanno molto versato nel corso della vita lavorativa. Ma questa è una mezza verità: in realtà le pensioni d'oro in essere sono liquidate con il diseguale sistema retributivo dove la somma dei contributi non corrisponde all'entità assai più elevata delle prestazioni.
Fabio Pavesi – Il Sole 24 ore – Riproduzione riservata

giovedì 27 giugno 2013

IL DECRETO DEL DOLCE "FARE" NIENTE



La buona notizia è che da ieri gli annunci di roboanti “piani del lavoro” prossimi venturi dovrebbero essere finiti. I reiterati annunci di sgravi fiscali e contributivi sulle nuove assunzioni delle ultime settimane avevano spinto i datori di lavoro a rinviare le assunzioni in attesa di questi provvedimenti. Così facendo hanno preparato il terreno per sprechi di denaro pubblico, dato che queste assunzioni premiate dalla nuova normativa ci sarebbero state comunque, anche senza gli incentivi dello Stato.

La cattiva notizia è che gli unici provvedimenti davvero efficaci che sono stati varati ieri sono quelli che rimuovono una serie di oneri burocratici introdotti, per scoraggiare l’abuso della “flessibilità cattiva”, dalla legge 92. Quella che passerà ai posteri come la riforma Fornero del mercato del lavoro viene così modificata a meno di un anno dalla sua entrata in vigore. In questa scelta, il governo si conferma in grado più di disfare che di fare. Sembra trovare consenso al suo interno soprattutto nel rimettere mano a misure varate da esecutivi precedenti, come nel caso delle norme sulla pignorabilità della prima casa o di quelle sulle funzioni di Equitalia. Al di là del merito del disfare, non è certo tornando indietro che si danno quei segnali di svolta che gli investitori, i mercati e le famiglie si attendono oggi dalla politica economica in Italia.

Il piano per il lavoro ripristina sotto smentite spoglie la fiscalizzazione degli oneri sociali degli anni ’80 e ’90. La riduzione del 33 per cento del costo del lavoro corrisponde infatti alla somma dei contributi versati da datori di lavoro e dipendenti alle casse dell’Inps. Gli sgravi riguardano le sole assunzioni di persone con meno di 30 anni fino all’esaurimento delle risorse disponibili e possono avere una durata massima di 18 mesi. L’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni. Il bonus assunzioni del 2001, meno generoso di quello contemplato ieri dal governo, era costato molto più del previsto imponendo al governo di introdurre lotterie (i cosiddetti rubinetti) nella concessione del sussidio per evitare una voragine nei conti dello Stato. E quando c’è incertezza circa chi potrà davvero beneficiare degli sgravi, finiscono per fruirne solo i datori di lavoro che avrebbero assunto comunque. Difficile che un datore di lavoro decida di creare posti di lavoro a tempo indeterminato davvero aggiuntivi in virtù di un contributo pubblico che poi potrebbe non essere erogato.

I due miliardi spesi nel 2002 per i bonus assunzioni, alla prova dei fatti, non hanno creato posti di lavoro aggiuntivi, nonostante anche allora la legge mettesse una serie di paletti per evitare che i datori di lavoro utilizzassero i fondi per finanziare posti già creati. Non dissimile l’esperienza degli incentivi fiscali alla trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (e alla stabilizzazione di contratti precari) introdotti pochi mesi fa, nell’ottobre 2012. I fondi disponibili sono stati esauriti in meno di un mese e stime preliminari (si veda il contributo di Bruno Anastasia su lavoce. info) ci dicono che 2/3 degli incentivi sono andati a imprese che avrebbero comunque assunto quei lavoratori. A Torino addirittura la totalità degli sgravi sarebbe andata a imprese che non hanno modificato le loro politiche del personale dopo il varo della legge.

Anche nel caso dei provvedimenti varati ieri, gli stanziamenti sono limitati. Si parla di circa 150 milioni all’anno per i prossimi 4 anni. Ai salari medi di giovani con meno di 30 anni, questo vuol dire circa 23.000 lavori che ogni anno fruiranno dell’incentivo. Per dare un’idea della portata dell’intervento, bene ricordare che oggi in Italia tra disoccupati, lavoratori scoraggiati, cassintegrati a zero ore e sottoccupati, ci sono più di 7 milioni di persone in condizioni di disagio occupazionale. Come si diceva prima, molto difficile che siano posti aggiuntivi. E i lavoratori assunti, soprattutto nelle piccole imprese, potrebbero venire licenziati non appena lo sgravio si interrompe, come evidenziato dall’esperienza della Spagna con provvedimenti di conversione di contractos temporales in contratti a tempo indeterminato. Come spiegano documenti ufficiali di governo e parti sociali iberiche, queste misure creano dei veri e propri caroselli in cui le imprese assumono lavoratori fino a quando durano gli aiuti, per poi licenziarli subito dopo e magari assumere altri lavoratori per fruire nuovamente degli incentivi.

L’esaurimento dei fondi disponibili potrebbe intervenire molto presto. Ogni mese in Italia ci sono circa 120.000 assunzioni di persone con meno di 30 anni. Questo significa che, anche senza contare il probabile incremento delle assunzioni subito dopo l’entrata in vigore del provvedimento, i fondi potrebbero venire esauriti in meno di una settimana. Forse per questo il governo ha pensato di introdurre requisiti aggiuntivi: i beneficiari devono essere disoccupati da almeno sei mesi oppure avere solo la licenza media oppure ancora devono venire da famiglie monoreddito. Al di là della natura più o meno discutibile di alcune di queste restrizioni, ci vorranno controlli accurati (dunque burocrazia) per verificare il rispetto di questi requisiti.

Il governo poteva essere più coraggioso nel varare riforme a costo zero per le casse dello Stato, ad esempio introducendo quel canale di ingresso alternativo al precariato che la legge 92 non ha saputo definire. Poteva anche stabilire per legge che i lavoratori esodati possono cominciare a ricevere almeno la pensione integrativa, una misura a costo zero per le casse dello Stato e importante per il futuro della previdenza complementare.

Si potevano anche definire delle priorità nella destinazione delle poche risorse disponibili e in quelle che, speriamo, arriveranno dalla spending review, se mai si inizierà a farla sul serio. Ad esempio, era possibile cominciare a introdurre sgravi fiscali o sussidi condizionati all’impiego per i salari più bassi, destinando a questi interventi tutte le risorse disponibili invece di disperderle in tanti rivoli di importo limitato (il decreto varato ieri ha misure che valgono meno dello stipendio annuale di un singolo calciatore!).

Ma questo è un governo debole, che sin qui, oltre agli annunci, ha proceduto soprattutto di rinvio in rinvio – dall’Imu, alla Tobin tax, all’Iva, agli F35– in attesa di tempi migliori. Non sappiamo giudicare se potranno, a bocce ferme, arrivare davvero tempi migliori negli equilibri politico- parlamentari. Ma è certo che la nostra economia non andrà meglio se non si riprende il cammino delle riforme economiche e se non si dimostra nei fatti, oltre che nelle parole, di accordare priorità al lavoro.
Tito Boeri per lavoce.info

mercoledì 19 giugno 2013

LO IUS SOLI SI APPLICA SOLO AI PAESI METICCIATI (ma questo il Ministro non lo sa)



Il governo Monti era un po’ raccogliticcio, ma forse per la fretta e anche perché Monti non apparteneva al giro dei nostri politici e di molti di loro sapeva poco. Ma Letta i nostri politici li conosce, è del mestiere; eppure ha messo insieme un governo Brancaleone da primato. Grosso modo, metà dei suoi ministri e sottosegretari sono fuori posto, sono chiamati ad occuparsi di cose che non sanno. Al momento mi occuperò solo di un caso che mi sembra di particolare importanza, il caso della Ministra «nera» Kyenge Kashetu nominata Ministro per l’Integrazione. Nata in Congo, si è laureata in Italia in medicina e si è specializzata in oculistica. Cosa ne sa di «integrazione», di ius soli e correlativamente di ius sanguinis ?
Dubito molto che abbia letto il mio libro Pluralismo,Multiculturalismo e Estranei, e anche un mio recente editoriale su questo giornale nel quale proponevo per gli immigrati con le carte in ordine una residenza permanente trasmissibile ai figli. Era una proposta di buonsenso, ma forse per questo ignorata da tutti. Il buonsenso non fa notizia.
Sia come sia, la nostra oculista ha sentenziato che siamo tutti meticci, e che il nostro Paese deve passare dal principio dello ius sanguinis (chi è figlio di italiani è italiano) al principio dello ius soli (chi nasce in Italia diventa italiano). Di regola, in passato lo ius soli si applicava al Nuovo Mondo e comunque ai Paesi sottopopolati che avevano bisogno di nuovi cittadini, mentre lo ius sanguinis valeva per le popolazioni stanziali che da secoli popolano determinati territori. Oggi questa regola è stata violata in parecchi Paesi dal terzomondismo imperante e dal fatto che la sinistra, avendo perso la sua ideologia, ha sposato la causa (ritenuta illuminata e progressista) delle porte aperte a tutti, anche le porte dei Paesi sovrappopolati e afflitti, per di più, da una altissima disoccupazione giovanile.
Per ora i nostri troppi e inutili laureati sopravvivono perché abbiamo ancora famiglie allargate (non famiglie nucleari) che riescono a mantenerli.
Ma alla fine succederà come durante la grande e lunga depressione del ’29 negli Stati Uniti: a un certo momento i disoccupati saranno costretti ad accettare qualsiasi lavoro, anche i lavori disprezzati. Ma la Ministra Kyenge spiega che il lavoro degli immigrati è «fattore di crescita», visto che quasi un imprenditore italiano su dieci è straniero. E quanti sono gli imprenditori italiani che sono contestualmente falliti? I dati dicono molti di più. Ma questi paragoni si fanno male, visto che «imprenditore» è parola elastica. Metti su un negozietto da quattro soldi e sei un imprenditore. E poi quanti sono gli immigrati che battono le strade e che le rendono pericolose?
La brava Ministra ha anche scoperto che il nostro è un Paese «meticcio». Se lo Stato italiano le dà i soldi si compri un dizionarietto, e scoprirà che meticcio significa persona nata da genitore di razze (etnie) diverse. Per esempio il Brasile è un Paese molto meticcio. Ma l’Italia proprio no. La saggezza contadina insegnava «moglie e buoi dei paesi tuoi». E oggi, da noi, i matrimoni misti sono in genere ferocemente osteggiati proprio dagli islamici. Ma la più bella di tutte è che la nostra presunta esperta di immigrazione dà per scontato che i ragazzini africani e arabi nati in Italia sono eo ipso cittadini «integrati».
Questa è da premio Nobel. Mai sentito parlare, signora Ministra, del sultanato di Delhi, che durò dal XIII al XVI secolo, e poi dell’Impero Moghul che controllò quasi tutto il continente Indiano tra il XVI secolo e l’arrivo delle Compagnie occidentali? All’ingrosso, circa un millennio di importante presenza e di dominio islamico. Eppure indù e musulmani non si sono mai integrati. Quando gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale se ne andarono dall’India, furono costretti (controvoglia) a creare uno Stato islamico (il Pakistan) e a massicci e sanguinosi trasferimenti di popolazione. E da allora i due Stati sono sul piede di guerra l’uno contro l’altro.
Giovanni Sartori per Finanzainchiaro

domenica 16 giugno 2013

GRECIA, UNA TRAGEDIA SENZA FINE



La crisi in Grecia non guarda proprio in faccia a nessuno. Martedì scorso il governo di Antonis Samaras ha sospeso le trasmissioni della tv e della radio pubblica, la Ert, la televisione pubblica del Paese. Ciò significa innanzitutto il licenziamento di oltre 2.780 dipendenti dell’Etr. La mossa è legata al piano di privatizzazioni delle aziende a partecipazione statale, voluto dalla Troika come condizione al proseguimento del piano di aiuti internazionali. All’emittente pubblica  fanno capo cinque stazioni televisive (ET1, Net, ET3, Ert World e Ert HD), 29 radiostazioni, siti web, un settimanale, oltre l’Orchestra Sinfonica Nazionale Greca e il Coro di Ert. E proprio le immagini dell'ultimo concerto della National Symphony Orchestra, svoltosi venerdì sera al Radiomegaro di Agia Paraskevi, la sede della tv di Stato, sono rappresentative della situazione che sta vivendo non solo la “Rai greca”, ma tutto il Paese. Come si vede nel video, in primo piano spiccano le lacrime della violinista.
Ma il caso Ert potrebbe però riaprirsi. “È illegale. Il governo ha chiuso la principale emittente del paese”, una mossa più “simile a un governo tipo Ceausescu che a una democrazia” denuncia il leader del maggior sindacato greco dei dipendenti televisivi, Panayotis Kalfayanis. I quasi 2.800 dipendenti della tv pubblica hanno presentato ricorso all’Alta Corte di Stato ellenica, dal momento che pare ci siano i margini di incostituzionalità nella decisione del premier di chiudere Ert. Il giudice amministrativo del Consiglio di Stato dovrebbe pronunciarsi sul ricorso il prossimo lunedì. Se a vincere dovesse essere la Ert, il governo a sorpresa sarebbe costretto a ripristinare almeno temporaneamente il segnale nelle successive 24 ore. C'è da dire che già nei giorni direttamente successivi alla chiusura, lo stesso Samaras aveva ipotizzato la nomina d'una commissione incaricata di richiamare al lavoro ”un piccolo numero d'impiegati” per far ripartire ”immediatamente i programmi d'informazione”. (fanpage.it)

Non è possibile, non è pensabile continuare ad assistere con impotenza indifferente alla tragedia senza fine che colpisce il popolo greco, un paese a due passi da noi, un paese che si sta letteralmente sgretolando, sotto i colpi della Troika, della Commissione europea, della BCE del FMI. Una paese che sta lentamente scivolando in un medioevo di miseria, povertà e barbarie. In Grecia chi contrae una malattia come il cancro o l’AIDS deve pagarsi le costosissime terapie, perché non esiste più un Sistema Sanitario Nazionale. I più abbienti hanno una possibilità di sopravvivere, i più indigenti vanno incontro a morte sicura. Si patisce la fame, quella vera, quella che riporta la nostra memoria di italiani  alla seconda guerra mondiale, all’immediato dopo guerra, a fenomeni paragonabili alla borsa nera. Il sistema bancario greco è da tempo collassato, le banche sono tutte fallite, nelle loro casse vuote ci sono solo sofferenze e nessuna redditività. Si assiste ai primi fenomeni di malnutrizione tra i neonati, la mortalità infantile si è alzata e, nello stesso tempo, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, si assiste ad un abbassamento della speranza di vita in un paese occidentale. Si usa sempre meno la moneta e si ricorre sempre di più al baratto. Si chiude l’emittente pubblica locale, paragonabile alla nostra RAI, si licenziano 2800 persone, si spegne l’informazione, con la sola esclusione di quella privata, finanziata da qualche tycoon, e quindi totalmente inattendibile. Non è possibile assistere allo sfacelo,  alla liquidazione di una nazione intera, un paese dal quale discendiamo e cui dobbiamo molto culturalmente, una nazione europea a tutti gli effetti, e trattata dagli spregevoli burocrati europei come un problema da liquidare con sacrifici, rigore, austerità. Cosa deve sacrificare ancora un paese che non ha più nulla da offrire, che ha messo in vendita le proprie isole, che non può più tagliare nulla della spesa pubblica semplicemente perché non esiste più una spesa pubblica. Il welfare è definitivamente tramontato, e vige la cinica legge del “ognun per sé”. Chiedere rigore nei conti ad un paese dove la disoccupazione riguarda la metà della popolazione equivale a cavare sangue da una rapa. Suona anzi come un dileggio, una tragica vessazione perpetrata dalle ignobili istituzioni europee che nel “salvataggio” della Grecia hanno sbagliato tutto. Se si fosse intervenuti subito, con la somma necessaria, le sorti del pese si potevano risollevare: si è scelto, la Germania ha scelto di diluire gli aiuti con il contagocce e siamo arrivati a questo punto. Meraviglia, in effetti, la compostezza di questo popolo, che non si è mai lasciato andare, nonostante l’enorme instabilità sociale, alla violenza, alla guerra civile, alle sparatorie per le strade. Movimenti estremistici come “alba dorata”, dopo un primo,  iniziale successo, nell’ultima tornata elettorale si sono visti notevolmente ridimensionati, non hanno  riscosso il successo che si poteva supporre. Meraviglia, dunque e desta la nostra  ammirazione il dignitosissimo comportamento del popolo greco, meritevole di tutto il nostro rispetto e la nostra ammirazione. Rimane, amarissima, la colpevole, inaudita indifferenza di tutti gli altri stati della cosiddetta eurozona, che continua a far galleggiare la Grecia non facendola uscire dall’euro, che, al punto in cui siamo, ci appare come uno dei fattori fondamentali del dramma di quel paese. Le cose si sono spinte  talmente in avanti che un ritorno alla dracma, tutto sommato, sarebbe il male minore. Ci pensino i politicanti greci che hanno chiuso la televisione di stato, che obbediscono come tanti soldatini agli ordini che arrivano da Francoforte. E facciamo anche noi un bell’esame di coscienza, per la nostra totale ottusità dinanzi un simile dramma. Verrà un giorno, forse neppure troppo lontano, che, se continuiamo a far comandare i tedeschi, potremmo fare una fine non troppo lontana da quella greca. Vedremo se sapremo reagire con la stessa composta dignità. Ne dubito. Davvero questa Europa è stata una cocente delusione, davvero questo Euro non rappresenta niente e nessuno, ci farà solo sbattere contro un muro. Ma sopra tutto, al di là di tutto, rimangono , indelebilmente impresse nelle nostre coscienze, se ne abbiamo una, le lacrime della violinista che ha suonato per l’ultima volta davanti ad una televisione di stato che non c’è più.

domenica 9 giugno 2013

L'ITALIA E' GIA' IN DEPRESSIONE



Ci sono diverse definizioni di depressione economica. Esistono autori per i quali il PIL di un paese deve scendere a livelli di – 10% per poter parlare di depressione. Altri autori, e noi fra quelli, preferiscono una misurazione temporale. Una recessione (il segno del PIL negativo) che perduri per più di sei trimestri, conduce inevitabilmente alla depressione. In questo senso, una depressione economica è una recessione che dura per un tempo indefinito. Ma ci sono altri indicatori. In quattro anni hanno chiuso 55.000 imprese. Il livello di disoccupazione dell’Italia ha toccato il 12% (quella giovanile il 40%), il PMI (Purchasing Manager Index) l’indice relativo ai responsabili degli acquisti delle imprese, è costantemente sotto il 50%, il che indica una perenne contrazione, i CDS (Credit Default Swap), derivati creditizi che tutelano gli investitori da un credito di dubbia esigibilità, sono in costante aumento, (il superamento della soglia dei 120 punti costituisce un livello di attenzione, e le nostre principali banche lo superano abbondantemente) il ricorso alle cartolarizzazioni, un'altra forma di derivati (la cessione di crediti dubbi a terzi attraverso l’emissione di obbligazioni ad altissimo richio), si fa sempre più frequente, lo spread non scende mai sotto i 250 punti base, da troppo tempo ormai. Paghiamo interessi troppo elevati sui nostri titoli di stato dall’inizio della contrazione economica, da cinque anni almeno. Il credit crunch, la stretta creditizia delle banche non immette liquidità nel mercato, i consumi si fermano. Si ha quello che si definisce l’avvitamento della crisi, l’entrata in un circolo vizioso per il quale se le banche non erogano prestiti per evitare le sofferenze, le imprese, specie quelle medie e piccole chiudono per mancanza di liquidità. I limiti della BCE che non può stampare moneta e divenire prestatore di ultima istanza si fanno sentire: l'eurozona non può attuare una politica monetaria in piena libertà e autonomia, come USA o Giappone. L'Euro diventa una camicia di forza che serve solo alla Germania. Il costo del lavoro, in Italia, è troppo elevato, diventeremo un paese deindustrializzato, scomparirà una intera classe lavorativa: i metalmeccanici. Dovremo imparare a valorizzare il solo patrimonio che abbiamo: il paesaggio e le bellezze artistiche. Cosa che, adesso, ci guardiamo bene dal fare. Ci dobbiamo dolorosamente convincere che, secondo l’assioma  ormai accertato che non ci sarà mai più un ritorno ad una condizione economica di pre-crisi, la maggior parte dei posti di lavoro perduti in questi anni sono perduti una volta per sempre, e non si costituiranno mai più. Non esiste una situazione di pre crisi e post crisi: esiste solo un prima e dopo la crisi, che costituisce uno spartiacque tra un sistema economico finanziario ed un altro, che ancora non conosciamo e non siamo in condizione di prevedere. La forbice tra ricchi e persone che vivono accanto alla soglia di povertà si allarga sempre di più, aumenta l’instabilità sociale. Quando i consumi si fermeranno del tutto, come sta avvenendo in Grecia, potremmo assistere ad un fenomeno apparentemente positivo, contrario all’inflazione: la deflazione. I prezzi calano, è l’ultimo, disperato, tentativo di far ripartire i consumi. In realtà la deflazione non è che l’anticamera della bancarotta dello stato. Se dovessimo assistere a questo fenomeno sappiamo quello che ci aspetta. L’euro dovrebbe scongiurare un simile epilogo, ma non si sa mai, è difficile fare previsioni su fenomeni mai avvenuti nella storia dell’economia e per questo imparagonabili a precedenti storici. E, soprattutto, non ascoltate neppure più le stime di Draghi, Barroso o Lagarde sulla futura, presunta, ripresa della crescita a fine 2013 o inizio 2014: sono tutte balle, che saranno continuamente smentite al ribasso.