domenica 9 giugno 2013

L'ITALIA E' GIA' IN DEPRESSIONE



Ci sono diverse definizioni di depressione economica. Esistono autori per i quali il PIL di un paese deve scendere a livelli di – 10% per poter parlare di depressione. Altri autori, e noi fra quelli, preferiscono una misurazione temporale. Una recessione (il segno del PIL negativo) che perduri per più di sei trimestri, conduce inevitabilmente alla depressione. In questo senso, una depressione economica è una recessione che dura per un tempo indefinito. Ma ci sono altri indicatori. In quattro anni hanno chiuso 55.000 imprese. Il livello di disoccupazione dell’Italia ha toccato il 12% (quella giovanile il 40%), il PMI (Purchasing Manager Index) l’indice relativo ai responsabili degli acquisti delle imprese, è costantemente sotto il 50%, il che indica una perenne contrazione, i CDS (Credit Default Swap), derivati creditizi che tutelano gli investitori da un credito di dubbia esigibilità, sono in costante aumento, (il superamento della soglia dei 120 punti costituisce un livello di attenzione, e le nostre principali banche lo superano abbondantemente) il ricorso alle cartolarizzazioni, un'altra forma di derivati (la cessione di crediti dubbi a terzi attraverso l’emissione di obbligazioni ad altissimo richio), si fa sempre più frequente, lo spread non scende mai sotto i 250 punti base, da troppo tempo ormai. Paghiamo interessi troppo elevati sui nostri titoli di stato dall’inizio della contrazione economica, da cinque anni almeno. Il credit crunch, la stretta creditizia delle banche non immette liquidità nel mercato, i consumi si fermano. Si ha quello che si definisce l’avvitamento della crisi, l’entrata in un circolo vizioso per il quale se le banche non erogano prestiti per evitare le sofferenze, le imprese, specie quelle medie e piccole chiudono per mancanza di liquidità. I limiti della BCE che non può stampare moneta e divenire prestatore di ultima istanza si fanno sentire: l'eurozona non può attuare una politica monetaria in piena libertà e autonomia, come USA o Giappone. L'Euro diventa una camicia di forza che serve solo alla Germania. Il costo del lavoro, in Italia, è troppo elevato, diventeremo un paese deindustrializzato, scomparirà una intera classe lavorativa: i metalmeccanici. Dovremo imparare a valorizzare il solo patrimonio che abbiamo: il paesaggio e le bellezze artistiche. Cosa che, adesso, ci guardiamo bene dal fare. Ci dobbiamo dolorosamente convincere che, secondo l’assioma  ormai accertato che non ci sarà mai più un ritorno ad una condizione economica di pre-crisi, la maggior parte dei posti di lavoro perduti in questi anni sono perduti una volta per sempre, e non si costituiranno mai più. Non esiste una situazione di pre crisi e post crisi: esiste solo un prima e dopo la crisi, che costituisce uno spartiacque tra un sistema economico finanziario ed un altro, che ancora non conosciamo e non siamo in condizione di prevedere. La forbice tra ricchi e persone che vivono accanto alla soglia di povertà si allarga sempre di più, aumenta l’instabilità sociale. Quando i consumi si fermeranno del tutto, come sta avvenendo in Grecia, potremmo assistere ad un fenomeno apparentemente positivo, contrario all’inflazione: la deflazione. I prezzi calano, è l’ultimo, disperato, tentativo di far ripartire i consumi. In realtà la deflazione non è che l’anticamera della bancarotta dello stato. Se dovessimo assistere a questo fenomeno sappiamo quello che ci aspetta. L’euro dovrebbe scongiurare un simile epilogo, ma non si sa mai, è difficile fare previsioni su fenomeni mai avvenuti nella storia dell’economia e per questo imparagonabili a precedenti storici. E, soprattutto, non ascoltate neppure più le stime di Draghi, Barroso o Lagarde sulla futura, presunta, ripresa della crescita a fine 2013 o inizio 2014: sono tutte balle, che saranno continuamente smentite al ribasso.