Ci sono diverse definizioni di
depressione economica. Esistono autori per i quali il PIL di un paese deve
scendere a livelli di – 10% per poter parlare di depressione. Altri autori, e
noi fra quelli, preferiscono una misurazione temporale. Una recessione (il
segno del PIL negativo) che perduri per più di sei trimestri, conduce
inevitabilmente alla depressione. In questo senso, una depressione economica è
una recessione che dura per un tempo indefinito. Ma ci sono altri indicatori.
In quattro anni hanno chiuso 55.000 imprese. Il livello di disoccupazione
dell’Italia ha toccato il 12% (quella giovanile il 40%), il PMI (Purchasing
Manager Index) l’indice relativo ai responsabili degli acquisti delle imprese,
è costantemente sotto il 50%, il che indica una perenne contrazione, i CDS
(Credit Default Swap), derivati creditizi che tutelano gli investitori da un
credito di dubbia esigibilità, sono in costante aumento, (il superamento della
soglia dei 120 punti costituisce un livello di attenzione, e le nostre
principali banche lo superano abbondantemente) il ricorso alle
cartolarizzazioni, un'altra forma di derivati (la cessione di crediti dubbi a
terzi attraverso l’emissione di obbligazioni ad altissimo richio), si fa sempre
più frequente, lo spread non scende mai sotto i 250 punti base, da troppo tempo
ormai. Paghiamo interessi troppo elevati sui nostri titoli di stato dall’inizio
della contrazione economica, da cinque anni almeno. Il credit crunch, la
stretta creditizia delle banche non immette liquidità nel mercato, i consumi si
fermano. Si ha quello che si definisce l’avvitamento della crisi, l’entrata in
un circolo vizioso per il quale se le banche non erogano prestiti per evitare
le sofferenze, le imprese, specie quelle medie e piccole chiudono per mancanza
di liquidità. I limiti della BCE che non può stampare moneta e divenire
prestatore di ultima istanza si fanno sentire: l'eurozona non può attuare una
politica monetaria in piena libertà e autonomia, come USA o Giappone. L'Euro
diventa una camicia di forza che serve solo alla Germania. Il costo del lavoro,
in Italia, è troppo elevato, diventeremo un paese deindustrializzato,
scomparirà una intera classe lavorativa: i metalmeccanici. Dovremo imparare a
valorizzare il solo patrimonio che abbiamo: il paesaggio e le bellezze
artistiche. Cosa che, adesso, ci guardiamo bene dal fare. Ci dobbiamo
dolorosamente convincere che, secondo l’assioma
ormai accertato che non ci sarà mai più un ritorno ad una condizione
economica di pre-crisi, la maggior parte dei posti di lavoro perduti in questi
anni sono perduti una volta per sempre, e non si costituiranno mai più. Non
esiste una situazione di pre crisi e post crisi: esiste solo un prima e dopo la
crisi, che costituisce uno spartiacque tra un sistema economico finanziario ed
un altro, che ancora non conosciamo e non siamo in condizione di prevedere. La
forbice tra ricchi e persone che vivono accanto alla soglia di povertà si
allarga sempre di più, aumenta l’instabilità sociale. Quando i consumi si
fermeranno del tutto, come sta avvenendo in Grecia, potremmo assistere ad un
fenomeno apparentemente positivo, contrario all’inflazione: la deflazione. I
prezzi calano, è l’ultimo, disperato, tentativo di far ripartire i consumi. In
realtà la deflazione non è che l’anticamera della bancarotta dello stato. Se
dovessimo assistere a questo fenomeno sappiamo quello che ci aspetta. L’euro
dovrebbe scongiurare un simile epilogo, ma non si sa mai, è difficile fare
previsioni su fenomeni mai avvenuti nella storia dell’economia e per questo
imparagonabili a precedenti storici. E, soprattutto, non ascoltate neppure più
le stime di Draghi, Barroso o Lagarde sulla futura, presunta, ripresa della
crescita a fine 2013 o inizio 2014: sono tutte balle, che saranno continuamente
smentite al ribasso.