venerdì 29 aprile 2011

MEDICI

Quanti medici ho conosciuto nella mia vita? Quante volte ho avuto bisogno di loro, io o i miei cari, per quante volte abbiamo avuto necessità di ricorrere a strutture ospedaliere pubbliche, quante sale d’attesa, quanti ambulatori, quanti approfondimenti diagnostici, quanta pena, ansia, trepidazione di fronte ad un referto? Molte, come per tutti, del resto. Ricordo, una notte del 1966, ero un bambino, una telefonata ci sveglia nel pieno del sonno, dobbiamo correre all’ospedale, mio padre ha avuto un incidente sul lavoro, in quegli anni esisteva ancora il cottimo, i turni erano spietati, soprattutto le notti, costretti a mantenere ritmi di produzione sempre più inarrivabili. Arriviamo all’ospedale, mio padre ha un braccio sbriciolato, è evidente che potrebbe perderne l’uso. Poi mesi e mesi di interventi, ricoveri successivi, terapie riabilitanti, e, alla fine di un lunghissimo percorso, il ripristino pressocchè completo dell’arto. Mio padre non fu operato da clinici famosi, luminari illustri, eppure, il chirurgo misconosciuto che operò in diverse circostanze mio padre compì una specie di miracolo. Il suo nome restò nell’ombra, ma noi fummo eternamente grati a quest’uomo dalla straordinaria abilità. Poi, di converso, siamo nel 2006, sempre mio padre viene ricoverato per una banale enterite, ma non nel suo naturale reparto, gastroenterologia, ma in Medicina Generale, il reparto di quelli che non trovano posto altrove, un recipiente che contiene un po’ di tutto e dove tutto è immerso nella più assoluta confusione d’idee. Dopo i primi giorni mi rendo conto che le cose vanno male: nonostante le mie raccomandazioni di somministrargli le sue terapie abituali, i sanitari del reparto, per non sbagliarsi, sospendono di colpo tutti i farmaci cui era abituato. Poi, nel giro di pochi giorni, la situazione precipita: mi rendo conto che a mio padre è stato somministrato uno psicofarmaco pericolosissimo per gli anziani: il nome è rassicurante (Serenase),ma nella realtà si tratta di un neurolettico, utilizzabile solo nelle psicosi agitate, ma largamente utilizzato nelle corsie ospedaliere quando un paziente non tollera i comuni ansiolitici (le benzodiazepine) e rompe le scatole. Questo farmaco, l’aloperidolo, può causare la “sindrome neurolettica maligna”, quella che ha colpito mio padre. Discinesie al volto, distonie agli arti, febbre, nausea, vomito, crisi ipotensive, fluttuazioni dello stato di coscienza, fino all’exitus. Mio padre presentava tutti i sintomi di questa sindrome. Eppure, nonostante le mie ripetute segnalazioni, il primario, un uomo stanco, demotivato, sciatto e superficiale, continuava a ripetermi,come un disco rotto, che sono un emotivo, la situazione era sotto controllo. Il reparto era cadente, aveva bisogno di manutenzione urgente, poco pulito e trascurato. Dopo due settimane mio padre muore, nella notte, in seguito a “shock cardiogenico”una diagnosi che vuol dire tutto e nulla. Io, l’emotivo, avevo ragione, il primario, un omuncolo ridicolo, aveva torto. Per pararsi le terga dispose senza il mio consenso l’autopsia, nella speranza che saltasse fuori qualcosa che potesse motivare altrimenti il decesso. Non venne fuori niente di particolare. Consultai avvocati e medici legali, per ricavare la stessa, impietosa diagnosi: non mi conveniva fare nulla, avrei certamente perso dinanzi alla casta medica, il mio non era un caso da prima pagina, mio padre era una persona anziana. Avrei speso tempo e soldi inutilmente. Due casi opposti, capitati alla stessa persona, con la differenza, però, che l’occasione positiva è capitata nel 1966, quella negativa nel 2006. Forse non si tratta di una coincidenza. La medicina, a quel tempo, erano ancora gli anni del boom, era concepita ancora come qualcosa di serio, cui dedicare gran parte della propria esistenza, consapevoli di fare qualcosa di veramente importante per gli altri, di avere tra le proprie mani il futuro o la fine di un altro essere umano. Forse, allora c’erano meno medici cacciatori di soldi, meno “professori” divenuti tali con le pubblicazioni prese a prestito o addirittura plagiate da altri. Forse era così, forse no, è solo un’illusione, dovuta al fatto che ero troppo piccolo per capire quello che succedeva attorno a me.
Ma il problema, comunque, rimane: troppe persone intraprendono la professione medica non per una reale propensione, una inclinazione naturale a questo tipo di mestiere. Troppi si iscrivono e macinano un esame dopo l’altro, solo perché figli o nipoti di medici affermati, con la sicumera di saltare al gavetta, di ereditare uno studio avviato, con la convinzione di continuare, nel solco del padre, la tradizione di famiglia. E’ vero, nessuno lo mette in dubbio, le strutture pubbliche, ambulatoriali e ospedaliere, le aziende Sanitari Lcali, pensano solo a fare cassa, devono razionalizzare, contenere la spesa, tagliare i rami secchi, chiudere presidi al di sotto di un certo bacino di utenza, gettare nella bolgia infernale del Pronto Soccorso, giovanotti appena laureati, che non capiscono neppure bene quello che stanno facendo, frastornati, disorientati, prontissimi a sbagliare, a sbagliare pesantemente, sulla vita degli altri. Se passo in rassegna i medici che ho incontrato nella mia vita, mi viene spontanea la distinzione, forse ovvia, tra il medico professionista e l’uomo. Persone simpatiche, affabili, garbate, che però, indossato il camice diventano pressappochisti, faciloni, trascurati e inconcludenti. Quante volte, quando nostro padre o nostra madre sono stati costretti ad un ricovero, alle nostre ovvie domande, ci siamo trovati di fronte un sanitario inalberante un’aria del tipo “ma che pretendi, quanti anni ha tua madre? Quanti? E allora, più che anziani non si diventa…” Già, quante volte. Non posso non ripensare alla vicenda,magistralmente descritta da Nanni Moretti nell’ultimo episodio del film “Caro diario”, dove il registra, che interpreta se stesso, descrive la tragicomica avventura occorsagli diversi anni or sono, quando, affetto da una sindrome apparentemente di competenza dermatologica, ha impiegato un anno intero per arrivare alla diagnosi vera: quella del linfoma di Hodgkin. Un anno prezioso sottratto alla terapia, un anno trascorso da uno specialista all’altro, uno più asino dell’altro, in un carosello di terapie strampalate e a volte dannose, quando poi, alla fine, aprendo l’enciclopedia Garzanti della medicina, la sintomatologia di Moretti è descritta nei termini esatti nei quali il registra li descriveva ai vari luminari. Forse, si chiede Moretti, se questi medici avessero letto la garzantina di medicina, oltre agli indigesti tomi di anatomia patologica, si poteva pervenire prima alla diagnosi. Ora, Nanni Moretti è stato fortunato, il suo linfoma era del tipo “Hodgkin”, se avesse contratto quello “non Hodgkin”, probabilmente non sarebbe neppure più in vita. Ma questo, si dirà, è uno dei frutti maturi e sozzi del capitalismo, una dottrina socioeconomica che pone alla sommità dei valori non già la vita umana e la sua preservazione, ma il profitto, il guadagno, i dané. E allora il medico, che un tempo era considerato un po’ come il dottor Mason del romanzo “La cittadella”, si è  messo al pari con i tempi, assimilandosi ad analoghi “professionisti”, poco fatturatori e grandi evasori: commercialisti, avvocati, notai e via discorrendo. Quando entri nello studio di uno di questi baroni luminari, lo fai in punta di piedi, come se il denaro che tra poco metterai in mano del valente clinico, non fosse moneta sonante, ma sterco del diavolo, diamine, da lui dipende la tua vita o la tua morte, lo guardi come un oracolo, nel suo camice bianchissimo, lo sguardo severo, le parole scandite con cura e affettazione, il tono ieratico, asseverativo, che non ammette repliche. “Ma ci sono speranze?” “Ah, signora, in casi come il suo è difficile fare una previsione sicura, due mesi, forse tre. Ma vale la pena di tentare con un chemioterapico nuovo, appena licenziato da una grossa casa farmaceutica che ha fatto ricerca proprio sulla sua malattia”. Ecco, il nuovo ritrovato che potrebbe accendere una  speranza, per quanto flebile. Poi, se hai le competenze o la voglia di approfondire, ti rendi conto che il principio attivo di cui ti ha favoleggiato l’illustre personaggio, o è una minestra ribollita, o è il solito anticorpo monoclonale, che ha il solo pregio di costare un patrimonio al Sistema Sanitario Nazionale, e in termini di sopravvivenza di farti guadagnare qualche settimana di sofferenze atroci. Come si deve sentire un uomo, una volta indossato il famoso camice, seduto dietro la scrivania di ebano finemente intarsiato, arbitro della vita o della morte?  Come si deve sentire quando tu che gli siedi di fronte pendi dalle sue labbra, attendi spasmodicamente il verdetto che presto il luminare emetterà. Deve essere una sensazione piacevole, di potere quasi assoluto, di fronte a lui non ci sono imprenditori o muratori, c’è seduto un uomo che attende il verdetto, e la morte che decreti arriva come una “livella”, non fa distinzioni sociali. E fortunatamente non ne fa neppure con l’illustre clinico, che una volta colpito anche lui, comprende di colpo, come uscendo da una sbornia notturna, la realtà delle cose, la verità ultima con la quale tutti, prima o dopo siamo costretti a confrontarci, camice o non camice, la falce passa sulle teste di tutti noi. Ripenso all’ultima esperienza, capitata proprio a me e non ancora conclusa. Tre su quattro degli specialisti interpellati si sono comportati come altrettanti imbecilli, tronfi e supponenti. “No, no, niente, niente.” Come niente, ma dottore di che si tratta? “ “Ma, potrebbe essere un carcinoma basocellulare, ma non sono sicuro. Non si impressioni è un tumore benigno”. Poi vai a casa e scopri una cosa che sapevi benissimo anche prima: un carcinoma non può essere un tumore benigno. Ecco, il luminare ha buttato lì una diagnosi, convinto di avere davanti a sé una persona che, tanto, di queste cose non capisce nulla. Un altro specialista, oltre al solito “no no, niente, niente…” di fronte alla mi obiezione che, nonostante i miei sforzi, non sono stato in grado di trovare la voce “niente” sull’enciclopedia medica, butta lì un'altra termine a caso una parola difficile, fornendomi una spiegazione diametralmente opposta a quella che corrisponde effettivamente a quel termine. Che cosa fa di un medico un buon medico: certo la perizia, la competenza, gli studi, ma anche saper comunicare con il paziente, che non deve sentirsi una nullità che arriva da te con il cappello in mano, per sentire il tuo verdetto e metterti nelle mani alcune banconote che avrai cura di riporre nel cassetto, dopo aver formulato la domanda di rito: “Le serve al ricevuta?” No, ma che ricevute, sono fiero di pagare le tasse al tuo posto, te lo meriti, sei un barone, non hai un cuore e forse neppure un cervello pensante, è sacrosanto che tu possa evadere e abbia la possibilità di arricchirti sulle disgrazie degli altri tuoi simili. Sì, simili, perché non ti dimenticare mai, arbitro in terra della vita e della morte, che un giorno ci starai anche tu dall’altra parte della scrivania, e  a quel punto , forse, comprenderai anche tu che hai vissuto una vita priva di senso, fatta di ricchezze materiali ed effimere, e adesso che ti trovi tu , nudo, indifeso, davanti agli ultimi momenti, non sei in grado di aggrapparti a nulla, non alla fede, perché non c’è nella di più anticristiano del tuo comportamento, non agli amici, pronti solo a ridere e a scherzare con te, quando eri un brillante clinico, ma non adesso, che sei un rottame da sostituire, ora che ci sei tu sull’orlo dell’abisso, comprendi che la tua vita è stata priva di senso, che il male che hai radunato, con la tua cupidigia, la tua avidità, è qualcosa di irredimibile, di inemendabile, che potrà solo precipitarti in uno dei gironi infernali più vicini all’angelo del male. Un buon medico sa comunicare con il paziente, non deve consolarlo, ma cercare di spiegargli, con parole comprensibili, di che si tratta, senza nascondersi dietro inutili paroloni, deve lasciare aperta sempre una poeta alla speranza, perché nessun essere umano, dico nessuno, è in grado di stabilire quanto ti resta da vivere. Formulare una ipotesi di mesi o anni è quanto di più antideontologico possa compiere un medico.
Quanto medici allora ho conosciuto, maldestri, goffi, boriosi palloni gonfiati con l’elio, sciatti e superficiali, capaci di liquidare un paziente in 5 minuti chiedendo 200 euro di parcella, ovviamente in nero. Quanti medici ignoranti, non aggiornati, con la testa infarcita solo dei prodotti proposti loro da zelanti informatori che praticano, non ce lo nascondiamo, il “comparaggio”, quella disgustosa pratica che consiste nell’ erogare agevolazioni, crociere, soggiorni in esclusivi resort esotici, qualche volta moneta sonante, in cambio di un livello minimo di prescrizione di un determinato farmaco in luogo di altri magari più efficaci per questa o quell’altra patologia. Quanti di questi tristi personaggi ho incontrato, di qualcuno di loro ho perfino avuto compassione, di fronte alla loro pochezza e meschineria, di altri ho avuto il sacrosanto disgusto dovuto a chi usurpa la professione medica, fino a millantarla, pur possedendo un titolo conquistato magari un po’ avventurosamente. Ma con due di loro mi piace concludere il presente post. Uno è quel tristo figuro che ha ammazzato mio padre dandomi dell’”emotivo”, un personaggio divenuto nel frattempo “professore” dei miei stivali, secondo il criterio tutto italiano che i “ciucci” debbano fare carriera, e un altro medico, una dottoressa, che ho recentemente conosciuto. Una donna straordinaria, una vita spesa per la professione, una dedizione totale, assoluta.  Davanti ad un tale esempio di serietà professionale è difficile aggiungere qualcosa. Ringrazio con tutto il cuore questa persona. Non credevo che potessero esistere ancora medici come lei.  Eppure esistono, resistono, svolgono silenziosamente il loro compito, alleviano le sofferenze non solo dei pazienti, ma anche dei loro cari. Davanti a lei non posso che gettare il cappello e ringraziare il Signore di avermela fatta incontrare, un angelo con gli occhiali.

martedì 26 aprile 2011

LA CRISI DEL DEBITO SOVRANO. Facciamo il punto per l'Italia

Pubblico volentieri l’articolo della solita Micaela Osella (fonte: finanza.com), per la consueta chiarezza di esposizione, e il consueto dono della sintesi. Come si vedrà, l’Italia non corre rischi particolare, almeno nel medio termine, l’asta dei titoli di stato italiani è andata, come per il passato, piuttosto bene. Lo spread BTP – bund tedeschi è però salito a 161 punti. A sostegno della tesi che l’Italia è, al momento, al riparo da rischi default, arriva anche l’andamento dei mercati spagnoli, quelli che ci precedono nella zona retrocessione, che mettono a segno alcuni risultati lusinghieri. L’anello debole, destinato ad avere fortissime ripercussioni sull’intera politica economica dell’eurozona, è costituito purtroppo dalla Grecia, per la quale appare inefficace e quindi inutile una ulteriore ristrutturazione del debito, che non salverebbe comunque un paese che, soprattutto per gli errori di una classe politica inefficiente e corrotta, sembra sempre più condannato ad una esclusione dalla moneta unica.
L'Italia non ha paura della crisi del debito sovrano. Almeno per il momento. A scacciare via il pericolo di un effetto contagio è l'asta di questa mattina dei titoli di Stato tricolori. La domanda dei Bot semestrali e dei Ctz offerti dal Tesoro non è mancata, anche se il prezzo da pagare è stato un po' più salato delle ultime volte. I Buoni semestrali sono stati collocati con un rendimento medio ponderato semplice dell'1,659%, in rialzo di 0,263 punti rispetto all'asta precedente. In crescita anche i CTz scadenza 30/4/2013: la prima tranche è stata collocata con un tasso lordo semplice del 3,044%, in aumento di 0,592 punti rispetto al precedente collocamento. La domanda è stata pari rispettivamente a 12,17 miliardi per il BoT semestrale (offerto per 8,5 miliardi) e a 5,1 miliardi per il CTz, offerto per 3,5 miliardi.
"L'asta dei Bot è andata bene con una domanda buona. Il costo del funding è salito di 25 punti base per la scadenza a sei mesi. Il Tesoro ha collocato CTZ scadenza aprile 2013 al 3,044%. Si tratta del livello di tasso più alto dal novembre 2008", segnala Chiara Cremonesi strategist di UniCredit. Lo stesso copione lo si è visto in Spagna. Questa mattina il Tesoro iberico ha chiuso con successo le aste di titoli a tre e sei mesi, collocando complessivi 1,969 miliardi di euro, ma i tassi sono andati sù. Nel dettaglio l'operazione con scadenza a tre mesi ha visto piazzare titoli per 1,163 miliardi a un tasso medio di 1,371% in rialzo dallo 0,899% dell'asta precedente e con un rapporto tra domanda e offerta salito al 4,4 dal 4,3 nell'operazione precedente. La scadenza a 6 mesi ha invece visto titoli per un valore complessivo di 806 milioni e un tasso dell'1,867% (1,361%) e un rapporto domanda-offerta del 7,1% dal 7,7% dell'operazione precedente.
"La domanda della carta spagnola resta forte. Queste richieste sono state accompagnate dal recente balzo dei costi del fundind per la Spagna. Nonostante questi livelli di yield siano dettati più da preoccupazioni emotive, che da un chiaro allarme, esiste la possibilità di assistere a ulteriori rialzi nel costo del funding nel breve perché il mercato inizia a fiutare le prospettive di un effetto contagio anche alla Spagna", segnala Richard McGuire, fixed income strategist di Rabobank. In effetti la notizie che arrivano dal fronte greco, la trincea che ha fatto scatenare nuove preoccupazioni sulla tenuta dell'impalcatura dell'Euro, non sono per niente tranquillizzanti. E' della Grecia il rapporto debito/ Pil più elevato nell'Eurozona e nella Unione europea. Nel 2010 è arrivato a quota 142,8%, seguito da quello dell'Italia (quota 119%) e del Belgio (96,8%). In Grecia il deficit/Pil è il secondo più alto del Continente: 10,5% contro il 32,4% registrato dall'Irlanda.
E sono proprio le dimensioni dell'indebitamento in Grecia a dare sostegno alla convinzione dei mercati che il paese rischia di non avere alternative a una ristrutturazione del debito in mancanza di una effettiva ripresa dell'economia. L'eventuale ristrutturazione del debito della Grecia "non servirebbe a nulla" per rimettere in sesto le finanze del Paese, ha sostenuto nel corso di un'intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung il Governatore della Banca centrale della Finlandia e uno dei dirigenti della Bce, Erkki Liikanen. "Un Paese indebitato - ha sottolineato il banchiere - deve individuare le eccedenze di bilancio: una ristrutturazione non cambierebbe nulla. Il secondo punto è la necessità di rafforzare i motori della crescita".
La Commissione Europea stamattina ha ribadito che attualmente "ci sono vari terreni sui quali il Governo greco ha deciso di agire con ulteriori misure per rafforzare il consolidamento del bilancio e rilanciare l'economia", ricordando che tra questi nuovi elementi c'è il piano di privatizzazione molto ambizioso per 50 miliardi di euro da attuare entro il 2015. Una delle novità della situazione del 2010 è che "i dati notificati sono affidabili al 100%". Lo stesso governo greco oggi, in una nota ufficiale, ha indicato che contrariamente al passato i dati della contabilità nazionale sono, appunto, affidabili. Il detonatore che ha fatto scoppiare la crisi greca è stata l'inaffidabilità dei dati della contabilità nazionale sui quali ripetutamente negli anni passati Eurostat aveva avanzato seri dubbi.
E per sgombrare il campo dagli equivoci, per quanto riguarda una missione speciale ai primi di maggio condotta dal Commissario europeo, Olli Rehn, dal presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, e dal direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss- Kahn, di cui ha parlato la stampa in questi giorni, la Commissione europea ha negato che un viaggio del genere sia previsto per quanto concerne il responsabile europeo degli Affari economici e finanziari. Qualsiasi mossa che riguarda il governo greco e il piano di consolidamento del bilancio nelle ultime settimane viene messa subito in relazione alla eventualità di una ristrutturazione del debito greco che continua a essere considerata da molte parti una soluzione inevitabile. Eppure dagli ambienti finanziari rimbalzano dettagli, non confermati, sui progetti di Atene per una ristrutturazione soft del debito pubblico con un allungamento delle scadenze.  Secondo gli ultimi gossip, per riportare il debito greco a livelli accettabili, ossia sotto la soglia del 100%, occorrebbe estendere di almeno cinque anni l'estensione delle durate.
"Qualcosa è inevitabile che debba succedere da qui al 2012", segnalano i trader nelle sale operative. "Le tensioni sul mercato monetario sono sono destinate a restare elevate finché non verrà fatta chiarezza, ma mon è detto che una ristrutturazione però sia risolutiva", avverte uno strategist che preferisce mantenere l'anonimato. "Ristrutturare il debito sovrano avrà serie conseguenze nella Periferia d'Europa, come per esempio una forte perdita di fiducia", aggiunge. Per Richard McGuire, fixed income strategist di Rabobank, "una ristrutturazione della Grecia potrebbe in realtà non avere un impatto profondo sulla Spagna, piuttosto potrebbe farsi sentire pesantemente sul Portogallo in quanto le banche spagnole sono fortemente esposte a quelle lusitane". "Questo però - avverte - non toglie il fatto che la penisola iberica sia il paese in Eurolandia, che viene guardato con sospetto dopo la richiesta di aiuti del Portogallo. La Spagna ha avviato riforme fondamentali per riavviare la ripresa economica. Il processo è buono, ma questo non sarà abbastanza per fermare la speculazione. Dall'altronde siamo tutti testimoni di una mancanza di una politica fiscale comunitaria".

giovedì 21 aprile 2011

DOPO LA DURA PROVA (Un altro giro di giostra)

Da un paio di mesi, cercando di non far trapelare nulla ai gentili lettori del mo blog, ho vissuto in un’ incertezza che conoscono molto bene tutti coloro che hanno vissuto quello che segue. Questo post non è infatti come gli altri. Lo distingue dagli altri una diversa prospettiva, una diversa angolazione dalla quale osservare le cose, il mondo, la vita. Circa due mesi fa, dicevo, mi si diagnosticava, per quanto con un margine di incertezza, un carcinoma basocellulare. Non mi dilungherò in dettagli clinici che risulterebbero poco interessanti e fuori luogo. Uscito dallo studio del medico, con una mezza diagnosi e la prospettiva di ulteriori indagini, mi è mancato il cuore, come si può largamente immaginare. La mente, nell’ansia, incipiente ancor prima di essere manifesta, precorre i tempi: ti vedi nel tunnel dell’Istituto Italiano Tumori della mia città, tra coloro che sono sospesi, a praticare approfondimenti diagnostici, il cui esito, ogni volta ti farà palpitare fino alla fibrillazione. Che cosa accade ad un essere umano, quando realizza, dopo il primo momento di incredulità, che la diagnosi potrebbe essere infausta, o quanto meno fortemente a rischio? Che cosa si muove nel cuore ancor prima che nella mente, di un uomo, in queste circostanze, dove corre il suo pensiero, su cosa si sofferma? Quel giorno ero accompagnato dalla persona che mi vuole bene, ma tra mille difficoltà, dubbi ed esitazioni. La sera, a casa da solo, ho dovuto fare i conti con tutte le parti di me stesso che sono state coinvolte, quasi tutte, ma non tutte. Oltre alla ovvia paura, una paura che nasce dall’incertezza, dalla sensazione di sentirsi come sull’orlo di un abisso, di cui non si conosce la portata e la destinazione, riaffiorano a questo punto i discorsi che molte volte hai tenuto o scritto sulle ultime cose, sul termine della vita, sui “novissimi”. Ma prima ancora, ad un livello emotivo profondo, ancestrale, vorrei dire primitivo, ho avvertito la sensazione della solitudine. Una solitudine spietata, senza soluzione, senza redenzione, perché sapevo già in anticipo che cosa mi avrebbero risposto tutte le persone da me informate, tutti i miei verosimili conoscenti o colleghi, e l’assenza, la più amara, la più atroce delle assenze: quella dei cari che non ci sono più. Sapevo anche prima di allora che con me si estingue il ramo familiare, sono l’ultimo, ma, nell’occasione di riflettere sulle ultime cose, il motivo dell’assenza dei cari si configura come un abbandono, un triste, lacerante abbandono delle sole persone con le quali, in questi momenti vorresti confidarti, vorresti piangere tutte le lacrime che ti sei tenuto sempre dentro, vorresti udire quelle parole che non sono né di circostanza, né tantomeno luoghi comuni, ne hai un bisogno smisurato, e il non accoglimento di questa necessità ti lascia un dolore così profondo da divenire esso stesso una ferita, una lesione che diventa quasi fisica. In quel momento, invariabilmente, tornano alla mente i genitori perduti, anche se non sono stati dei buoni genitori, ma io sono comunque il loro figlio, il loro unico figlio, che adesso ha bisogno di loro, ha bisogno di una mamma, di una mamma che lo consoli e che gli dia quel bacio tanto sospirato, che lo culli come un bimbo e lo faccia addormentare con una carezza, come non è mai accaduto nella realtà ma come vorresti accadesse ora, nella fantasia. Hai bisogno delle parole di tuo padre, del suo abbraccio, il solo che può sciogliere quel nodo che hai in gola, il solo che ti porti conforto. Ma loro non ci sono, e io rimango solo, qui, a casa mia, e non so più cosa fare, non so più cosa pensare. Ricordo la poesia del Pascoli “Sogno”:

Per un attimo fui nel mio villaggio,
Nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un viaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed una angoscia muta.
-Mamma?- E’ là che ti scalda un po’ di cena. –
Povera mamma! E lei, non l’ho veduta.

Poi, ad un tratto ti assale un panico feroce, ti figuri in sala operatoria, ti  immagini abbandonato in una anonima corsia ospedaliera, ancora solo, con i tuoi pensieri. O ancora nel corso delle sedute chemioterapiche, a lottare con la nausea e con il vomito, con il volto sempre più scavato, senza capelli, scarno, smagrito, l’ombra i quello che eri. Ad un certo punto cerchi, fortunatamente, di dominarti, telefoni alle poche persone che ti vogliono bene, e che ti riportano con i piedi per terra. Non c’è nulla di sicuro, e anche qualora fosse appurato ci sono ampi margini di cura e di guarigione. Ti aggrappi a questa speranza, che è comunque reale, lo fai con la ragione, perché hai fatto quello che tutti fanno in questi casi: accendi il computer e consulti su internet quello che ti riguarda, pensando di capire qualcosa di più e ottenendo come unico risultato quello di accrescere ancor più il livello di incertezza e l’entità del dubbio. Quella notte devi assumere qualcosa per indurre un sonno pesante e senza sogni che altrimenti non verrebbe mai, e l’indomani ti presenti al lavoro tentando di comunicare qualcosa di quello che ti si agita dentro. I colleghi, quelli più stretti, cercano, come si conviene di minimizzare, poi faranno i commenti del caso per conto loro, ma è giocoforza, entrare nella girandola delle frasi fatte e delle blande tranquillizzazioni che ottengono l’effetto opposto. Non riesci a concentrarti su quello che fai, e un senso sottile di angoscia si impadronisce di te, per non abbandonarti più. Attraversi le stanze del posto di lavoro come un fantasma, ti senti impalpabile, come fatto di un’altra sostanza, continui a fare quello che ti viene richiesto meccanicamente, senza partecipare realmente a quello che accade. E poi, piano piano, comincia a farsi strada un’altra  sensazione, nuova, mai provata prima. Si stabilisce tra me e gli altri un diaframma, una parete dapprima sottile, poi più solida, che ti separa dal mondo dei sani. Non provi quella che si chiama comunemente invidia per tutti quelli che non hanno nulla di particolare, o non sanno ancora di avere dentro di sé il seme della morte, l’uovo del serpente. No, non è invidia, è qualcosa di più e di meno. Svanisci, ti senti più etereo, quasi avessi perduto parte della visibilità, ti senti comunque “diverso”. Questa sensazione di diversità ti separa irrimediabilmente dal mondo dei sani. E allora provi questo ulteriore imbarazzo, hai quasi paura che qualcuno possa scoprire il segreto che è in te, quello che si sta preparando nella tua fisicità, quello che si anima dentro di te. Diventi sfuggente, eviti gli altri, cercando di sorridere come prima, ma è un sorriso forzato. Nessuno si accorge di nulla, sei stato bravo. Questa differenza, che ci separa dal mondo dei cosiddetti “sani” (che poi sani non sono) è molto ben descritta nel memorabile racconto “sette piani” di Dino Buzzati, un autore in cui il tema della morte e del morire è dominante. Bene, questa volta l’ho provato io, dopo averlo letto. Poi, di nuovo a casa, perché non hai voglia di fare altre cose, come se non esistesse altro che la malattia o la possibile malattia. E’ questo un grossolano errore, nel quale si cade in genere nel corso dei primi giorni di fronte ad una diagnosi dubbia. L’errore consiste proprio nel trascurare tutte le altre cose per concentrarsi solo su se stessi, come ascoltandosi, come sorvegliando ogni singolo movimento del tuo corpo, quasi fosse rivelatore di quello che i macchinari non sempre sono in grado di svelare. Poi, la sera, a casa, ripensi a tutte le tue letture, a quello che hai sempre sostenuto in questi casi, cerchi di scoprire se quanto hai assimilato in tanti anni possa rivelarsi di una qualche utilità. Riaffiorano gli studi di teologia, di filosofia, vediamo se posso trarre qualche giovamento. Sfogli distrattamente qualche libro, anche quelli che ti sono stati più cari e ti sembravano utili allora, quando non eri coinvolto in prima persona. Per poi scoprire che non è servito, studiare tanto, cercando di persuadere gli altri della bontà delle tue argomentazioni, non ti è servito a nulla. Tutto si azzera, si ricomincia da capo, fai i conti più che con la trascendenza, che si è sempre nutrita di dubbi e di speranza, con l’immanenza di questo essere qui, adesso, in queste condizioni. I primi giorni trascorrono così, nel tentativo di fare le cose che ho sempre fatto, ma come svuotate di significato, quasi fossero vane, fatue, senza un obiettivo ben preciso. E allora mi soffermo proprio su questo: che cosa ho fatto finora, un lavoro che non mi ha dato una soddisfazione, ripetitivo, monotono, cui mi sono adattato per oltre vent’anni, ma che faccio tuttora e sempre più con fatica, alla ricerca di una gratificazione impossibile. Sopraggiungono allora i rimpianti per non aver lasciato prima, per non aver abbandonato prima, per dedicarsi, per il tempo che mi resta, alle cose che amo di più, che mi sanno dare un qualche piacere. E’ il passaggio dei facili rimpianti, delle scelte che potevi fare e non hai fato, perché nessuno di noi ha la morte datata, i giorni contati, se lo sapessimo in partenza scenderemmo in strada per gettarci sotto la prima auto che passa. E così dopo una settimana o due trascorse con un costante sottofondo di angoscia, lentamente, senza neppure renderti conto di quello che ti accade, cambia qualcosa. Qualcosa si è spostato. Emerge la mia parte infantile, quella che mi fa sentire il bisogno di avere accanto una persona cara, un genitore, proprio quella di cui ormai solo io devo prendermi cura. Ebbene, ora è il momento. E’ un po’ come avere la responsabilità di questo bimbo che custodisco dentro di me, e non posso abbandonare anch’io, lasciare solo come altri hanno fatto. E poi, anche in seguito a questo, cominciano a fare capolino le risorse che non credevi mai di possedere, tanto erano occultate da quintali di sciocchezze ripetute ogni giorno, dai rapporti inautentici, dall’ipocrisia che contraddistingue la maggioranza dei rapporti umani, il pensato non detto, l’essere intrappolati in una gabbia di orari e di mansioni. Sono quelle risorse di forza, di reazione, che pur galleggiando in un oceano di  dolore e di angoscia, ti consentono di sperare che tutto vada bene, che questa cosa si possa risolvere, e che ti resti ancora una parte di cammino da percorrere. E’ l’ora delle scelte, quelle che si possono fare, in queste circostanze puoi a ragione pensare di abbandonare un lavoro che non ti appaga, è l’ora delle promesse, delle piccole cose che ti riprometti fare se riuscirai a superare questa dura prova. Così, nell’attesa del prossimo verdetto, dopo il passaggio attraverso tutta la stadiazione che contraddistingue queste occasioni, l’incredulità, la rabbia, lo scendere a patti, il ricorso alla religione e quello alla provvidenza, arrivi in quella terra di nessuno, quel limbo delle attese senza fine, delle anticamere anche metaforiche. Ma proprio questa attesa forzata ti consente di dischiudere dentro di te un mondo nuovo, non necessariamente positivo, che non ti aspettavi, qualcosa di realmente diverso e inusitato. Ricordo uno splendido film di Agnes Varda, “Cléo dalle 5 alle 7” . Cléo è una cantante che ha condotto la sua vita senza porsi troppi problemi, viziata e vezzeggiata da quelli che la circondano. Le 2 ore del titolo sono quelle che precedono la consegna dei risultati delle analisi che le riveleranno se è affetta o no dal cancro. Al di là della prodezza tecnica (l'equivalenza tra il tempo del film e il tempo dell'azione), quest'ammirevole dramma intimista indaga sulla trasformazione della psicologia di una donna che esce dall'egoismo e dalla frivolezza per aprirsi alla vita, interessandosi agli altri. Io non sono ancora pervenuto a questo risultato, ma quello che si sta aprendo nel mio inconscio, soprattutto in certi momenti, è qualcosa da indagare. Adesso, quando socchiudo gli occhi, anche di giorno, per cercare nel sono un po’ di quiete, non mi addormento, ma vedo cose che non vedevo prima, fantastico di mondi che non conoscevo. Tornano alla mia mente le fantastiche visioni contenute nel capitolo “Neve” della “Montagna incantata” di Thomas Mann. Ora vedo fiumi tumultuosi che sfociano in mari verdi come lo smeraldo, fiumi tortuosi, trapassati da sfavillanti raggi di sole, e poi cascate blu cobalto, con i vapori che si levano lenti verso un cielo lontano, arcobaleni dorati trafitti dal sole che irrompe tra le nuvole bianche, dense di lanugine. Poi mi trovo in una casa, sopra la scogliera, a capofitto sul mare, distinguo a malapena la luce che appare e scompare di una faro che intravedo tra la nebbia, gli scalini che scendo, verso la baia più sotto, li conto e li riconto, consumati e tetri, immersi nella caligine. Una volta arrivato sulla spiaggia, a ridosso della grotta, sento il profumo dell’ibisco e del gelsomino, mi siedo al riparo dalle onde, non sento freddo, il vento mi accarezza e gioca con le mie fantasie. Poi sono di nuovo in volo, verso terre lontane, mai viste né sognate, percorro gli arabeschi dei viaggi senza meta né ritorno, sotto di me foreste di abeti azzurri, radure gialle di stoppie, savane indorate dal sole, colline sterminate, disseminate d’ambra e d’oleandri, laghi profondi che specchiano cavalli lanciati in un galoppo fremente e forsennato, tra spruzzi d’acqua e tronchi rugginosi. Questo ed altro vedo quando mi trovo disteso sul letto, trasognato, tra luce ed ombra, senza mai scivolare nel vero sonno. La sera, dopo un pasto frugale, cerco di leggere per distrarmi, e invece scrivo qualcosa, che poi magari  butto, non soddisfandomi punto. Quando mi ritrovo sotto le coperte non vedo più i mondi del giorno, ma il sonno mi piomba addosso come una cappa nera, come un tremulo velo che mi difende come può dalle ombre del giorno. E poi di giorno mi torno a svegliare, appena apro gli occhi l’angoscia ritorna, mi assale furiosa, mi ghermisce come un rapace. Ripenso a “Canzone per Piero” di Guccini:
Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male..

I giorni passano, lenti e fumanti come i comignoli di un paesaggio invernale, mi sento come sospeso, vivo e non vivo gli intervalli tra un esame e l’altro, tra una visita e l’altra, contando il tempo con i risultati. E poi, un giorno, il 20 aprile, il referto che ho tanto atteso, la non malignità, la riapertura della speranza, la ripresa del cammino dopo la dura prova. Eppure, nonostante tutto, pur nella gratitudine al Padre celeste, non trovo il pieno sollievo che credevo, la totale consolazione che speravo. E non mi spiego il perché. Un fondo di tristezza vela ancora il mio sguardo, che avrebbe dovuto riaprirsi lucido e sereno al mondo, ma qualcosa rimane di quei giorni, qualcosa non è volato via, è rimasto qui con me. Che sia la consapevolezza della mia fragilità, della mia provvisorietà (oggi è andata così, e domani?). O forse qualcosa di bello è accaduto comunque, anche nei giorni dell’angosciosa incertezza. Non i sogni ad occhi aperti, non le facili suggestioni, miraggi della mente o dello spirito, forse la coscienza che anch’io, come tutti noi, un giorno, quando capiterà davvero, potrò affrontare questa dura prova e forse riuscirò a superarla, qualunque sia il suo esito. Adesso è tempo di scelte, delle scelte irrevocabili, non so quanto mi resta, un mese o molti anni, so che è arrivato il momento di fare qualcosa solo per me stesso, e per il bimbo che è in me e ha ancora bisogno di me. Il cielo , dunque, come diceva Terzani, mi ha concesso ancora un giro di giostra. Potrebbe essere l’ultimo, o forse no. Ma, nella salutare incertezza, non devo perdere tempo in conflitti sterili e inconcludenti. C’è ancora qualcosa che devo fare, c’è ancora qualcosa che devo dire. Signore, concedimi un altro giro, c’è qualcosa che devo ancora concludere. 

sabato 16 aprile 2011

AFFARI E SALUTE

Non c’è bisogno di incomodare le simpatiche gag di Luciana Littizzetto, per rendersi conto che, da qualche tempo, passano in TV spot pubblicitari che rappresentano una novità: argomenti mai trattati prima,  patologie che, fino a pochi mesi fa, sembravano sconosciute al pubblico femminile italiano. Mi riferisco, come avrete certamente capito, agli spot relativi ai pruriti intimi e alle perdite di orina. Ora, la domanda ovvia è: possibile che così tante donne accusino disturbi pruriginosi a livello vulvare e così tante siano almeno parzialmente incontinenti? Chiaramente no. Le cose non stanno proprio così. Come già sottolineato in un precedente post, una delle ultime strategie delle multinazionali del farmaco, è quella di creare delle “medicine per i sani”. Si direbbe, anzi, che il fine ultimo dell’industria farmaceutica, sia proprio quello di inventare nuove patologie, ovviamente non gravi, mai descritte prima o considerate del tutto trascurabili, e di lì partire per creare in laboratori un farmaco ad hoc o, più frequentemente, utilizzare un vecchio farmaco, impiegato per altre patologie, e riciclarlo per quelle nuove. Nella fattispecie, si tratta in un caso (quello del prurito intimo) di lidocaina, nell’altro caso, (quello delle perdite di orina) di un pannolino sottile come un velo, e soprattutto, trattato con un innovativo, ma che dico, rivoluzionario sistema: l’”odor control”. E’ difficile immaginare un cattivo gusto peggiore. La lidocaina è un semplice anestetico, esiste da circa un secolo, viene utilizzata a livello topico, per lo più per evitare il dolore dovuto alla introduzione di cateteri. Un prurito vaginale o vulvare NON deve essere trattato con un semplice anestetico locale, perché, se non è sporadico ma persistente, è indicativo di una patologia che va indagata, e il prodotto in questione non fa che ritardare la diagnosi. Quanto al pannolino antiperdite, il meccanismo di azione è diverso. E’ chiaro per tutti che il numero delle donne che soffrono di questo problema, soprattutto quelle appartenenti alla fascia di età delle protagoniste dello spot è assolutamente trascurabile. Qui la macchina pubblicitaria fa leva sulla “prevenzione”, cercando  di produrre, in una donna non più giovanissima, una meccanismo di ansia anticipatoria: “ e se dovessi perdere una certa quantità di orina, non mi è mai capitato, ma potrebbe succedermi, tanto vale premunisri…” Questo il ragionamento indotto dai “creativi” delle case farmaceutiche. Così un certo numero di donne, che non svilupperà mai una patologia di incontinenza, indosserà un inutilissimo pannolino che non farà altro che produrre irritazioni locali e magari…pruriti, da curare con il medicamento anestetico di cui si parlava.
Ma questi sono due esempi banali, sotto gli occhi di tutti. Diverso è il caso di altri medicamenti, principi attivi cui è stato rifatto un bel make up, e sono riciclati con un nome, una confezione e perché no, delle indicazioni del tutto nuove. E’ il caso dell’”ibuprofene”, un antinfiammatorio che ha almeno ottanta anni sulle spalle, il buon vecchio “brufen” che la nonna ci somministrava in supposte quando presentavamo dolori articolari, cefalee e consimili. Ora l’ibuprofene, con i suoi fratellini chimici “naprossene” e “diclofenac” ce li ritroviamo in tutte le salse e in tutte le confezioni. Quanti di noi non hanno usato almeno una volta il famoso “moment” (che adesso è diventato anche “act”), non sapendo di assumere semplicemente una dose di ibuprofene? Adesso il vecchio “Brufen” si può liberamente acquistare, senza obbligo di ricetta, alla dose di 400 mg. Solo che se ce lo prescrive il medico possiamo acquistare una confezione di 30 compresse con pochi euro, se lo acquistiamo noi la confezione diventa di 15 compresse e costa molto di più. E’ evidente il paradosso oltre alla speculazione commerciale da parte del produttore. Ma veniamo ad altri casi più che discutibili: si vendono liberamente, con la irrazionale indicazione di “antiacidi”, principi attivi come la ranitidina, un antisecretore, o, peggio, il lansoprazolo, un inibitore di pompa protonica. L’indicazione, dicevamo, è irrazionale, in quanto, stando allo spot pubblicitario, tali farmaci possono essere assunti “alla bisogna”, all’occorrenza, cioè in modo episodico. Niente di più sbagliato. Per il suo meccanismo di azione (la sua farmacodinamica) il lansoprazolo, per essere efficace necessita di una terapia continuativa di almeno quattro settimane. Prendere una compressa di lansoprazolo, alle dosi in libera vendita, e una volta ogni tanto, non serve a nulla, non se ne traggono benefici, si prendono solo gli effetti collaterali. Lo stesso dicasi per la ranitidina. Il farmaco adatto agli occasionali “bruciori di stomaco”, che il più delle volte altro non sono  se non degli episodi di reflusso gastro esofageo, esiste da molto tempo, e costa meno di tre euro: è il famoso “maalox”, l’unico farmaco che ha un immediato effetto antiacido, essendo composto da una combinazione di alluminio e magnesio che, a contatto con l’acido cloridrico dà origine ad una soluzione basica, neutralizzando, almeno temporaneamente, l’acidità.
Ma lo scandalo vero è un altro, e si chiama “controllo esercitato dalle Aziende Sanitarie Locali sui medici di base”. Questo processo di controllo ha preso le mosse, grazie al preziosissimo ministro Brunetta, con l’obbligo di emissione, da parte di questi professionisti, del certificato di malattia telematico. Tale certificato deve essere inviato elettronicamente all’INPS e al datore di lavoro. Secondo l’infaticabile ministro, dovrebbe servire a sveltire le pratiche delle assenze per malattia dei pubblici dipendenti e ad evitare di produrre tonnellate di carta; nella realtà, a parte il fatto che la carta viene prodotta lo stesso perchè i certificati vanno comunque stampati, accade che i flussi di dati che convergono all’INPS siano di una tale portata che i poveri server dell’istituto di Previdenza non reggono e il malcapitato paziente non riesce quasi mai ad ottenere il famoso certificato. Sarà il medico, magari a casa propria, le sera, quando il traffico è meno intenso, a produrre il certificato che invierà in copia anche all’indirizzo e-mail del lavoratore. E’ stato chiaro da subito, per tutti, soprattutto per i professionisti medici, che si tratta semplicemente di un espediente per esercitare un controllo sull’operato del medico generico, osservare quanti certificati emette, con quali diagnosi (alla faccia della privacy sulla salute) e soprattutto a chi sono indirizzarti tali certificati. Se un nominativo ricorre troppo spesso, ecco spuntare l’accusa di essere connivente con il solito pubblico dipendente fannullone, causa della crisi attuale che sta attraversando il paese. Ma questa non è la sola forma di pressione esercitata sui medici di famiglia: le ASL possono controllare, attraverso i ricettari regionali, quanti e quali farmaci vengono prescritti a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. E qui comincia il tormentone, le velate minacce, i ricatti che piovono sul medico di base. Il quale, per non incorrere in complicazioni ulteriori, cercherà di limitare  al massimo queste prescrizioni. Si arriva così al paradosso che (è capitato ad una mia personale amica) il medico si rifiuta di prescrivere la dose di antisecretore indicata ad un portatore di esofago di Barrett, mettendo seriamente a repentaglio la salute del suo paziente. Ora, è evidente che è sacrosanto cercare di far conseguire un risparmio al SSN, ma come sempre in Italia, si persegue la via più facile, la più breve, aggirando il problema senza affrontarlo. Così come, invece di mettere in atto una vera persecuzione degli evasori fiscali, almeno quelli noti a tutti,  si cerca di allungare il gettito fiscale tartassando i soliti noti, quelli tassati alla fonte, i lavoratori dipendenti; allo stesso modo, dicevamo, a pagare il conto troppo salato che deve sostenere il SSN sono i pazienti comuni, quelli che, magari, necessitano di terapie salvavita. Ma il problema vero è un altro. Le case farmaceutiche, quasi tutte multinazionali, almeno quelle che contano di più, hanno un potere vasto e incisivo. Hanno i mezzi, hanno il denaro che deriva dai loro immensi profitti, sono una pericolosa  e potente lobby. I maggiori proventi che entrano nelle casse delle ditte farmaceutiche derivano dai farmaci antineoplastici. Tutti i farmaci appartenenti a questa categoria, come è giusto, sono a carico totale del Sistema sanitario nazionale. Alcuni chemioterapici sono molto datati, hanno quindi visto scadere i loro brevetti da molti anni, e tuttavia il loro prezzo è calato solo simbolicamente. Facendo politica di cartello, questa tipologia di farmaci, alcuni dei quali aventi dei costi di produzione bassissimi, mantengono prezzi da capogiro: si arriva a migliaia di euro per una sola confezione, contenente tre fiale per soluzione endovenosa. Quanto ai tanto sbandierati “anticorpi monoclonali”, la nuova frontiera delle terapie antitumorali, si sono rivelati, nella sostanza, un flop, in quanto la loro capacità antiblastica è praticamente sovrapponibile ai vecchi chemioterapici, e gli effetti secondari sono del tutto paragonabili ai loro predecessori. Il costo di una terapia completa per un ammalato di cancro, si aggira, in media, intorno ai trentamila, quarantamila euro (considerato il solo costo dei farmaci impiegati), ma si può arrivare a cifre ben più alte, anche 80.000 euro. E’ ovvio che il SSN ne abbia a soffrire, ma finchè il nostro stato non sarà in grado di fronteggiare la lobby del farmaco e costringerla ad abbassare i prezzi dei farmaci a minor costo di produzione, continueremo ad osservare tristemente il deficit cronico del nostro sistema sanitario. Troppi interessi andrebbero toccati, troppe “relazioni pericolose” andrebbero indagate: la trasmissione “Report” ci potrebbe fare una bella puntata.
Citerò, in ultimo, un terzo problema che ci affligge in quanto potenziali fruitori o consumatori finali di farmaci. I chimici farmaceutici (un mestiere difficile, soprattutto sotto il profilo etico) con un processo alchemico discretamente banale (potrebbe farlo anche uno studente di chimica) non fa altro che modificare un anello nella catena furanica (ad esempio) ed il principio attivo ottenuto diventa “nuovo”. In realtà di nuovo c’è ben poco, il principio attivo che avrà un nome leggermente diverso dal suo predecessore avrà prevedibilmente degli effetti molto simili al precedente, ma potrà essere venduto, all’industria del marketing, come un nuovo ritrovato per quel particolare tipo di patologia. Allo stesso modo, sempre a mò di esempio, quando leggete , in un principio attivo, il pefisso “levo”,  quasi sempre si tratta dell’enantiomero levogiro della forma racemica del principio attivo sul quale si sta operando. Nel caso, per esempio, della sulpiride, uno psicofarmaco, si è sintetizzata la “levosulpiride”, venduta con indicazioni diverse (come “procinetico”), ma la farmacodinamica della sulpiride e quella della levosulpiride è praticamente la stessa. Questo, sempre a mò di esempio, spiega il proliferare di un numero impressionante di benzodiazepine, i banali ansiolitici. La composizione chimica di base è la stessa, le denominazioni commerciali ma anche dei generici sono decine e decine. L’unica cosa che le differenzia è l’emivita, la durata di azione del farmaco.
In conclusione, sui farmaci risparmiare si può, e si dovrebbe. Bisogna però affrontare  a muso duro una lobby tra le più potenti e temibili del mondo: quelle del farmaco. Non è una impresa facile, ma se non vogliamo continuare a sopportare costi completamente immotivati, e vogliamo cercare di continuare ad offrire una sanità gratuita alle patologie più gravi, tale impresa deve essere, necessariamente, portata a termine.

venerdì 15 aprile 2011

L'ITALIA, PROBABILMENTE

Purtroppo, ancora una volta, ci tocca tornare ad affrontare un argomento non esaltante, poco interessante, ma di drammatica attualità. Sappiamo da almeno tre anni (grosso modo dall’inizio della cosiddetta “crisi”) che la perdita delle certezze è una delle caratteristiche fondamentali di questa svolta storica, ma, fermo restando che non si può prevedere l’imprevedibile, e non si possono gestire questioni fuori dal nostro controllo (è il caso dei dati macroeconomici), ritengo sia giusto formulare alcune puntualizzazioni, correndo anche il rischio di apparire monotono. Una delle ultime novità che i mercati ci fanno pervenire è la possibile bancarotta dello stato greco. Lo spread dei tutoli di stato greci rispetto ai bund tedeschi ha superato la barriera dei 1.000 punti (1.038 per la precisione), un numero impressionante, basti pensare che lo spread dei titoli italiani si aggira intorno ai 140 punti. Il rating della Grecia è stato ulteriormente tagliato da tutte le agenzie del settore, gli analisti  hanno stabilito nel 63% l’eventualità del fallimento dello stato greco da qui a cinque anni. Si tratta di un evento non solo possibile, ma, considerato il livello della classe politica greca – non dissimile dalla nostra – addirittura probabile. Lo stato ellenico dovrebbe operare ulteriori tagli alla spesa, assai più pesanti di quelli già inferti, e privatizzare almeno il 50% delle società partecipate. E forse anche questo non basterebbe. Il dato allarmante, allora è che, nonostante gli aiuti generosi del F.M.I. e del fondo salva stati UE, il default greco sia inevitabile. Se si considera un altro evento, che può apparire marginale, ed assume invece un discreto rilievo, le elezioni politiche in Finlandia, che vedranno vincitore il partito degli euroscettici, assolutamente contrari ai salvataggi degli stati periferici dell’UE, bene, alla luce di questi avvenimenti, il crack dello stato greco provocherebbe la fuoriuscita della Grecia dalla zona Euro, ed il ritorno alla propria valuta nazionale, che si tradurrebbe, ovviamente, nella totale rovina della Grecia. Se a questi eventi aggiungiamo un altro particolare passato inosservato, ma di altrettanta gravità, il quadro si completa meglio. L’Islanda, il paese che si è rovinato con le proprie mani, un paese dall’economia nulla, inesistente, che ha accarezzato l’illusione di arricchirsi con la finanza creativa (come l’Irlanda, del resto, ) ha deciso, con un paradossale referendum, di non restituire i 5 miliardi di euro che banche inglesi ed olandesi hanno prestato a questa nazione, già in pieno crack bancario. E’ singolare che si indica un referendum per decidere se restituire o meno soldi prestati e richiesti per essere salvati. Eppure gli islandesi lo hanno fatto. Ora, il dato su cui dobbiamo riflettere è che tutte queste circostanze possiedono un potenziale di contagio nei confronti di altri paesi della zona euro. Se la Grecia fallisce non basta metterla fuori dall’Unione per evitarne le ricadute, se un paese come la Finlandia si batterà per lasciare gli stati più deboli al loro destino (che triste cosa è diventata l’Europa!), sarà lecito attendersi che paesi come la Germania cantino vittoria, dal momento che non aspettano altro che una sponda favorevole per portare allo scoperto quello che da tempo cova sotto la cenere: una gran voglia di edificare due Europe, a due velocità: l’Europa virtuosa, di seria A, e quella dei paesi  a rischio che si relegano dapprima in serie B, poi si mettono fuori completamente. Ecco perché le elezioni politiche finlandesi non sono un particolare trascurabile. Se a questo aggiungiamo il bizzarro comportamento di uno staterello che senza l’Europa, sarebbe poco più che una “espressione geografica” , il quale si rifiuta di restituire i denari prestati da banche europee, ebbene in questo caso arriviamo al surreale: cosa penserebbero gli amici islandesi se decidessimo un embargo e li lasciassimo congelare nella loro notte eterna? Anche in questo caso, l’effetto contagio potrebbe essere importante: che cosa accadrebbe se anche paesi come Grecia, Irlanda o Portogallo decidessero che non essendo in grado di far fronte ad una restituzioni dei miliardi di euro elargiti dalla UE, sulla base di un bel referendum popolare, uno dei pochi che raggiungerebbe sicuramente il quorum,  semplicemente non li restituissero? Sono solo ipotesi, ma non troppo lontane dalla realtà. Abbiamo tutti capito fin troppo bene che razza di agglomerato senza senso sa l’Unione europea, un insieme di nazioni che hanno una moneta in comune che li protegge dalle speculazioni internazionali, che, a cadenze fisse, mettono in scena l’inutile liturgia delle sessioni del parlamento europeo, un organismo grottesco, privo di poteri, che si incontra periodicamente per parlare di nulla, prendendo decisioni mai vincolanti per ciascuno stato aderente, decisioni che, nella pratica non hanno nessun o pochissimo valore. Ma allora, se lo stato delle cose è più o meno questo, perché noi italiani non prendiamo le giuste contromisure, perchè non facciamo il possibile per non dipendere dal continuo, serrato ricatto tedesco, olandese, britannico, finlandese? Non abbiamo ingoiato troppi rospi da queste nazioni che hanno saputo meglio amministrarsi, nel corso di questi anni di crisi, e adesso ci presentano il conto, sembra quasi che tollerino la nostra presenza nell’unione come una scomoda necessità. E dico necessità perché se è vero che dopo la Spagna il paese più a rischio siamo noi, è anche vero che siamo troppo grandi per fallire, che i nostri partners non ci possono fare fallire, tanto sono esposti con la nostra economia, il nostro tonfo (da 1.000 miliardi di euro) sarebbe tale da trascinarsi dietro anche il resto dell’Europa. Ma tutto questo non basta, occorre fare, ancora una volta una riflessione sulla nostra fragilità, sulle sue motivazioni. E allora cominciamo col dire che l’Italia potrebbe trovarsi al livello della Francia, fuori dalla zona retrocessione, ha tutte le potenzialità: una classe imprenditoriale attiva, intraprendente, decisa e oculata, un sistema bancario solido, fondato sulla propensione al risparmio delle famiglie italiane e poco esposto sul terreno dei finanziamenti facili. Ma il nostro tanto decantato sistema bancario comincia a scricchiolare perché le famiglie italiane, tanto propense al risparmio, adesso non riescono a risparmiare un euro, e l’aumento del tasso di sconto, se da un lato ha frenato la spirale inflattiva, non agevola certo la concessione di fidi e di prestiti da parte delle banche, a soggetti non del tutto solvibili. Se a questo accostiamo la necessità, richiesta tra l’altro anche dalla BCE, di una generale ricapitalizzazione delle banche, con le conseguenti sofferenze (sono denari sottratti agli investimenti, e accantonati per garantire ai detentori di bond e obbligazione il rimborso del capitale prestato) il quadro è completo. Quanto alle imprese, come non dare ragione alla Marcegaglia, che con dignità e fermezza ha denunciato l’abbandono da parte dello stato di politiche atte allo sviluppo economico. Come darle torto? Siamo il paese che cresce meno (intono all’1%, ma la percentuale realistica sarebbe lo 0%, cioè la stagnazione): se a questo rileviamo che siamo il paese con il maggior debito pubblico in rapporto al PIL, e che siamo il paese con la più elevata evasione fiscale d’Europa, appare chiaro che lo stato, il governo, la classe politica devono necessariamente intervenire. Posto che una reale lotta all’evasione fiscale è, per tante ragioni che non starò qui ad enumerare per amor di patria, pressocchè impossibile, allora è chiaro che si deve intervenire sul fronte dello sviluppo economico, sull’individuazione di strategie volte a stimolare la crescita, ad incrementare le opere pubbliche, quello insomma che paesi come la Francia, appunto, ha fatto e sta facendo, con la conseguenza che si colloca nella zona salvezza. E invece, invece…Dobbiamo ripetere ancora un volta la litania che tutti voi leggete quotidianamente: siamo un paese bloccato, congelato da un governo latitante e velleitario che non si capisce neppure bene cosa stia facendo. Si ha l’impressione di un girare a vuoto, senza bussola e senza meta. Il governo Berlusconi-Scilipoti-Bossi  tiene da anni ormai il Parlamento impegnato negli affari personali del premier, affari che, francamente, a questo punto, non interessano più nessuno, eccetto il TG3. Una volta considerato che Berlusconi non ha alcuna intenzione di dimettersi, che gode di una maggioranza più ampia del previsto, (il gesto di Scilipoti ha fatto scuola), che non esiste una maggioranza alternativa, visto che la sinistra continua a farneticare di primarie, di correnti, non ha una linea né politica né economica, è debole e divisa, schiacciata tra gli opposti estremismi di Di Pietro e di Vendola, a questo punto, credo sarebbe meglio amnistiare in toto Berlusconi, attribuirgli una immunità a vita, purchè si finisca di perdere tempo in queste vicende personali che fanno solo male al paese. Il ministero dello sviluppo economico, retto da un Romani sempre più in confusione, non sta facendo nulla, assolutamente nulla. Ricordiamo ancora una volta che se la politica non interviene, o interviene, come sostiene uno sempre più stranito Tremonti, ormai ostaggio completo della Lega, unicamente sul fronte dei tagli, il debito pubblico è destinato ad accrescersi senza misura, e rischiamo di fare la fine del Portogallo. Ma il problema è proprio questo: la nostra classe politica, del tutto paragonabile a quella greca, non possiede figure di spessore, di statisti, di uomini realmente impegnati per il bene del paese. Ministri come Tremonti, sempre più tramortito, che sa parlare solo di ulteriori tagli alla spesa pubblica (ma cosa vuole ancora tagliare?), come Maroni, che se ne torna a casa con le pive nel sacco dopo la riunione sull’emergenza profughi, come Alfano, troppo impegnato anche lui alla difesa del premier dalla congiura dei giudici comunisti, Come la Carfagna, come la Gelmini che non sa nulla di scuola, come la Melloni, che sa parlare bene solo in romanesco, come la Brambilla, più adatta a decorare un calendario, o la Prestigiacomo che si capisce benissimo non padroneggiare la materia che dovrebbe pilotare. Cari inprenditori, care banche, non potete chiedere aiuto ad una classe parassitaria che blocca il Parlamento per le questioni personali del premier, e che comunque non possiede le persone giuste per gestire la crisi.  E non potete aspettarvi nulla neppure dalle opposizioni, divise, rissose, ma soprattutto composte, come il PD, di “preti spretati” secondo una bella definizione del Prof. Sartori, persone che una volta abbandonata la fede comunista, si trova spretata, cioè smarrita, disorientata, senza una linea politica definita, espressa al massimo del suo grado dal famoso “maanchismo “ di Veltroni. “Sì, le cose, stanno così, però anche in quest’altro modo”. I dirigente del PD sono vecchi, sono superati, sono delle cariatidi ancorate ancora al passato, dovrebbero essere semplicemente spazzati via.
Se le cose stanno come ho illustrato, considerato che non ci si può attendere nulla, al momento, da questa classe politica, non ci resta che affidarci alla bravura e alla costanza della classe imprenditoriale, e all’abilità e all’intuizione dei nostri banchieri. Solo in loro possiamo riporre le nostre speranze, le speranze di non finire anche noi, in un futuro non troppo lontano, nel cono d’ombra delle nazioni fallite, abbandonate al loro destino, lasciate alla nuova povertà che incombe, incombe anche su nazioni che possedevano una volta un impero. Una sorta di contrappasso della storia, una nemesi che si abbatte su chi non ha voluto o saputo sollevarsi, se non altro per un moto d’orgoglio.