mercoledì 2 novembre 2016

CI ABBIAMO PROVATO, MA VINCERA’ IL “SI’”



Mettetevi l’animo in pace: il 4 dicembre vincerà il Sì. Non v’è nessun dubbio. Il Sì trionferà con agio, in scioltezza atarassica. Chi spera nella vittoria del No è meno lucido di chi, prima delle Europee 2014, blaterava #vinciamonoi. Vi spiego brevemente perché vincerà il Sì e poi basta: non ne scriverò mai più, né qui né sulla mia pagina Facebook.
1. Alcuni sondaggi danno il No in vantaggio, ma sono irrilevanti. Anche i 5 Stelle due anni fa dovevano superare Renzi, che invece poi li ha maciullati. Accadrà lo stesso il 4 dicembre. Il No ha già raggiunto l’apice, il Sì crescerà sempre di più.
2. E’ verosimile che il Sì non vincerà con un margine ampio, ma questo risulterà ancora più sublime per Renzi. Un po’ come – per un tifoso della Fiorentina – vincere rubando con la Juve. La vittoria risicata del Sì (tipo 52%) farà soffrire ancora di più i sostenitori del No e indurrà Marchionne a organizzare cortei vestito da Costantino della Gherardesca.
3. Se si renderanno conto che potrebbe vincere davvero il No, ritarderanno la votazione (il ricorso Onida, il terremoto, le cavallette). Infatti ci stanno provando. Oppure invalideranno il voto.
4. Se non potranno invalidare il voto, faranno comunque passare la riforma per altre vie. In Italia, da sempre, si è soliti lasciare pochi mesi per poi fare l’esatto contrario che gli italiani avevano scelto al referendum (nucleare, acqua pubblica, abolizione di Pistocchi, eccetera).
5. Vincerà il Sì perché quattro italiani su cinque, ma credo anche di più, non sanno nulla della riforma se non che “se vince il Sì si risparmierà qualcosa e cambieremo”. Quelli che votano per sentito dire voteranno Sì. E quelli che votano per sentito dire sono la maggioranza del paese. Vaglielo a spiegare, che “cambiare” così la Costituzione è come risolvere un piccolo problema al pavimento del bagno bombardandolo col napalm.
6. Vincerà il Sì perché c’è il Tg1.
7. Vincerà il Sì perché il Pd, inteso come partito e come elettorato, voterà compatto “Sì” anche se Renzi gli sta sulle palle e della riforma non ama molte cose. (E allora perché voterà Sì? Per obbedienza al partito e al capo. Per la fedeltà a una linea che non c’è. Insomma, per tifo).
8. Vincerà il Sì perché la maggioranza silenziosa, quella che va a votare prima di comprare le paste e andare a pranzo la domenica dalla suocera, voterà Sì senza sapere una mazza del quesito referendario. E’ la stessa gente che votava Andreotti, Craxi e Berlusconi, ma se glielo dicevi ti rispondeva: “Ma chi? Io? Mai votati quelli lì”. Con Renzi è e sarà lo stesso.
9. Vincerà il Sì perché quasi tutta l’informazione è per il Sì e l’opera di rincoglionimento, nell’ultimo mese, sarà oltremodo martellante. Preparatevi: sangue e andrearomani ovunque.
10. Vincerà il Sì perché, ogni giorno, Renzi prometterà qualcosa. Come sempre. Più di sempre. E ci metterà dentro pure il terremoto, lasciando intendere che chi vota No è un insensibile che balla sulle macerie mentre lui è il Pingue Redentore.
11. Vincerà il Sì perché, in Italia, il godimento politico è negato e tutto è dolore: se una cosa può andare storta, ci va. Ci andrà. Ora e sempre. Abbandonate ogni speranza voi che sognate. Renzi campione del mondo. Dopo la vittoria del Sì, Renzi & renzini festeggeranno per mesi. Nel 2018 Matteo dominerà le elezioni e nei successivi cinque anni governerà come un despota diversamente illuminato. Durante il quinquennio prenderà altri 47 chili, tutti peraltro sul mento, ma ciò non gli impedirà di vincere i 100 metri alle Olimpiadi, di ottenere il Grande Slam nel 2021 (6-0 6-1 6-2 in finale a Wimbledon su Seppi) e di conquistare l’Oscar come migliore attore protagonista nel remake di Ufficiale e gentiluomo (lui nella parte di Richard Gere e Travaglio in quella dell’odioso sergente cattivo Emil Foley). Rondolino dirigerà il Tg1, la Meli il Tg2 e Nardella si autoeleggerà unico discendente dei Medici. Il Tg3 verrà abolito e sostituito con Tele Fava, che trasmetterà la vita di Renzi 24 ore su 24. Nel 2023 la Boschi sarà la prima presidente del Consiglio donna, Ministro degli Interni Picierno e Presidente della Camera Baricco. Al Quirinale dopo Mattarella salirà Oscar Farinetti, mentre i cinque senatori a vita del nuovo dopolavoro (ex Senato) saranno Benigni, Jovanotti, Sorrentino, Carlo Conti e Daria Bignardi. Fassino verrà messo a capo della Protezione Civile, giusto premio per la sua preveggenza. Il renzismo durerà 47 anni, al termine dei quali Matteo cederà il potere al nipote Piersilvio Amintore, che nascerà nel 2028. Ah, dimenticavo: Orfini verrà eletto Mister Universo e vincerà il Pallone d’oro. Durante la premiazione, Michel Platini non mancherà di definirlo “il nuovo Maradona”. Fabio Caressa converrà e ci farà uno special di 7 giorni su Sky.

Mentre tutto questo accadrà, io ascolterò The Wall dei Pink Floyd. Anzi The Final Cut, forse più appropriato. Un abbraccio e buona catastrofe. Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e ditegli: “E’ da parte di Verdini”. Lui apprezzerà. Forse.
Andrea Scanzi


martedì 1 novembre 2016

IL BUGIARDO SERIALE E IL SUO CAMERIERE TELEVISIVO



Mentino Mentana, ex mitraglietta, attualmente Capitan Tartaglia, sta cercando da tempo di avvantaggiare il fronte del “Sì” in tutti i modi. Probabilmente è ancora sotto shock dalla nottata della Brexit quando fu umiliato da Claudio Borghi, ed allora il direttore del Tg7 vuole a tutti i costi avere la rivincita con il referendum costituzionale.
Per questo dopo aver organizzato il confronto fra Renzi e Zagrebelsky, ha bissato la “porcata” invitando di nuovo il presidente del Consiglio e contrapponendolo stavolta con il personaggio più emblematico della prima repubblica, il quasi novantenne Ciriaco De Mita.
Sia ben chiaro, Ciriaco De Mita, ed ancor più Gustavo Zagrebelsky, sono persone di una levatura incommensurabilmente superiore rispetto ad una nullità come Matteo Renzi, sono persone di cultura al cui confronto il nostro Presidente del Consiglio è un analfabeta.
Ma il mezzo televisivo è estremamente particolare, non si presta assolutamente all’analisi del pensiero, ha dei “tempi” ristrettissimi, quindi premia chi lancia messaggi brevi … sì insomma … slogan, tanto per capirci. Ed in fatto di slogan occorre riconoscere che Renzi è circondato da gente che gliene inventa in continuazione.
In televisione, quindi, è impossibile fare dibattiti “seri”, nel senso che non si può argomentare il proprio pensiero e le proprie opinioni in maniera compiuta, proprio perché bisogna “andare in fretta” e, come si sa, la fretta si associa sempre all’approssimazione ed al pressapochismo.
Renzi conosce bene il mezzo televisivo, e lo sa utilizzare, ed è proprio per questa sua abilità che l’establishment lo ha scelto per interpretare il ruolo che sta ricoprendo. Non importa se spesso i  suoi “discorsi” sono un susseguirsi di slogan e frasi fatte che non hanno nulla di profondo e sensato, ma questi slogan sono accattivanti e vengono ripetuti come un mantra con “tecniche” che i pubblicitari conoscono bene.
Egli può così bellamente continuare a ripetere una serie impressionante di falsità perché, da un lato egli sa bene che la maggior parte di esse non saranno percepite come tali da telespettatori distratti, ma soprattutto i media corrotti, tutti dalla sua parte, non lo sbugiardano come sarebbe facilissimo fare.
Domandatevi, cari lettori, perché giornali e televisioni sono conniventi col Premier nel disinformare scientemente la popolazione?
Emblematico, ad esempio, quanto accaduto nella trasmissione di Mentana.
Ciriaco de Mita ha ricoperto la carica di Presidente del Consiglio durante gli anni ’80, per screditare il proprio interlocutore, quindi, Renzi ha ritenuto di denigrare quel decennio evidenziando il forte incremento del debito pubblico avvenuto in quel periodo.
Ecco le sue precise parole:
“Mi piacerebbe discutere degli anni ‘80 non per marcare una differenza e men che mai  per fare una rissa ma semplicemente per stabilire un dato di fatto, cioè siccome noi vogliamo leggere il passato per orientare il presente e costruire il futuro, noi dobbiamo avere il coraggio di dire che in quel decennio lì, e voi avevate delle responsabilità, siamo passati dal 57% del Pil, del debito sul Pil, al 124% del debito sul Pil. Cosa vuol dire? Che se il nostro Paese oggi deve pagare una montagna di interessi ed essere costretto a delle regole stringenti del  fiscal compact deriva dal fatto che negli anni dagli ’80 ai ’90 qualcuno ha fatto la cicala costringendo noi, generazione dei più giovani a fare la formica”.
Renzi quindi, subito, all’inizio del dibattito, mette in campo la sua arma migliore: la menzogna!
Né Ciriaco De Mita, né tantomeno Enrico Mentana (figuriamoci!) fanno notare all’attuale Presidente del Consiglio di aver detto una gigantesca fesseria!
Nel decennio che va dal 1980 al 1989, infatti, il rapporto fra il debito ed il Pil passa dal 58% al 93%.
E’ solo un lapsus del Presidente del Consiglio? Assolutamente no!
Perché Renzi legge quei dati su un foglio di appunti che teneva davanti a sé, quindi qualcuno gli ha scritto “scientemente” una bugia ed egli l’ha riportata con naturalezza.
Sapeva Renzi che quella era una falsità? Ritengo di sì, in ogni caso che egli fosse consapevole o meno di quel che gli scrivono e che lui poi riporta non fa variare il giudizio sulla sua persona.
Forse vale la pena di sottolineare che quanto detto da Renzi non può essere considerato uno strafalcione, abbiamo un debito pubblico elevato da diverso tempo, ma un rapporto fra il debito ed il Pil al 124% è stato raggiunto solo in anni recentissimi e per la precisione nel 2013 con i Governi Monti prima e Letta poi.
Dire che alla fine degli anni ’80 avevamo un rapporto Debito/Pil al 124% è una bestialità assoluta!
Va inoltre fatto notare che certamente durante gli anni ’80 il nostro debito pubblico è aumentato molto, ma non serve essere economisti per ricordare come quelli fossero anni connotati da una altissima inflazione. Inoltre erano anni in cui l’economia italiana cresceva ed il tasso di disoccupazione era molto più basso rispetto a quello attuale.
Questi sono i dati dell’aumento in termini assoluti del nostro debito pubblico

Dall’80 all’89 il debito pubblico italiano aumenta di                      596 miliardi di euro
Dal ’90 al ’99 il debito pubblico italiano aumenta di                      507 miliardi di euro
dal 2000 al 2009 il debito pubblico italiano aumenta di               181 miliardi di euro
Dal 2010 a luglio 2016,  il debito pubblico italiano aumenta di    461 miliardi di euro!!!

Detto questo, quindi, se c’è una persona che in fatto di aumento del debito pubblico non dovrebbe permettersi di parlare è proprio Matteo Renzi che, con Monti, Letta e Berlusconi, ha contribuito ad aprire una voragine nei nostri conti pubblici.
E, cosa ancora più importante, occorre sottolineare che negli anni ’80 l’Italia aveva ancora la propria sovranità monetaria, quindi era in grado di “emettere moneta”, oggi invece Renzi non può aumentare a dismisura il debito pubblico semplicemente perché … l’Europa glielo impedisce.
Anzi, a tal proposito è di questi giorni la guerra che ha intrapreso con le autorità europee proprio perché non gli permettono di aumentare a dismisura il debito (che lui, imbrogliando come sempre, chiama flessibilità).
Però, cari lettori, se De Mita non rimarca le menzogne di Renzi e Mentana si guarda bene dal farlo, occorre chiedersi perché gli altri media, ed in particolare la carta stampata si comporta in maniera omertosa e collusiva nei confronti del Premier?
Purtroppo i giornali non si limitano a questo, non solo tacciono e quindi non rinfacciano a Renzi le continue falsità, ma le riportano come se fossero verità!!!
E’ allucinante a tal proposito quanto scrive il Corriere della Sera (il più importante quotidiano italiano, sigh!), guardate voi stessi, l’articolo dal titolo “Referendum , Renzi-De Mita su La7 Le ragioni del sì e del no” (che perlomeno nessuno ha avuto il coraggio di firmare), notate come non solo non viene sbugiardato il Premier per le falsità dette, ma si arriva addirittura a riportare le menzogne di Renzi in un paragrafo dal titolo «La verità sugli anni 80»!!!
Pazzesco.
Ma non basta perché occorrerebbe poi sottolineare come Renzi, rinfacciando a De Mita di aver fatto la cicala, forse dimentica che sta rimproverando la classe politica dalla quale lui proviene!!! Ossia la sinistra della DC!!!
E’ infatti a quel connubio, sinistra DC e Pci, ossia quello che oggi si chiama PD, che va attribuito l’intera responsabilità di aver affossato l’Italia non solo negli anni ’80 e non tanto per aver aumentato il debito pubblico, quanto per aver approvato delle leggi sfacciatamente populiste, quelle sì che possono essere definite tali. Ne cito una sola: la possibilità, per i dipendenti pubblici, di andare in pensione dopo aver lavorato (si fa per dire) per ben 16 anni, 6 mesi e 1 giorno!!!

venerdì 21 ottobre 2016

UNA STORIA QUALSIASI, FORSE, MA CON UNA MORALE



Conobbi Nicla (chiaramente, si tratta di un nome di fantasia) molti anni fa quando, per contribuire agli studi, lavoravo come commessa in un negozio di abbigliamento in via del Corso a Roma. A quel tempo, con il negozio sempre affollatissimo, non c'era mai modo di scambiare qualche parola; al limite, era capitato di consumare assieme un panino sedute per terra in un piccolo magazzino in cima alla scala, ma in quelle rare occasioni si preferiva restare in silenzio per sperare di far riposare un po' la mente.
Quello che, però, di lei rimane impresso è il sorriso, sempre così vitale e raggiante, e che ho ritrovato non molto tempo fa davanti a un caffè. "Sono successe davvero tante cose in tutti questi anni...", mi aveva detto quel giorno in cui, finalmente, di tempo per parlare ne avevamo.
Lei, calabrese di origine, nel 2000 era venuta a Roma per superare una delusione amorosa. E il 4 luglio, giorno in cui ricorreva l'anniversario della scomparsa di sua sorella Angelica, incontra Giulio (anche questo nome di fantasia) in un negozio in via dei Condotti. Una favolosa coincidenza, che a lei piace interpretare come un regalo da chi non ha mai smesso di restarle accanto.
Dopodiché Nicla riparte e continua a sentire Giulio solo telefonicamente, fino a quando a settembre torna per un'altra settimana e, capendo che tra loro c'è già qualcosa di forte, decide di cambiare vita e di trasferirsi a Roma definitivamente. È l'8 novembre, giorno del compleanno di Giulio.
Nicla trova lavoro proprio nel negozio in cui, poi, io e lei ci saremmo incontrate di lì a breve, e trascorre ancora qualche anno prima che finalmente i due decidano di comprare casa e andare a vivere assieme. Siamo nel 2003. Per qualche tempo le cose scorrono normalmente, tra i soliti alti e bassi che tutti abbiamo attraversato per via delle intemperanze di quell'età, finché Nicla nel 2006 inizia a manifestare i primi sintomi di un problema di salute.
A dire il vero, inizialmente li prende un po' alla leggera; sì, aveva dei fastidi, ma pensava a qualcosa che si sarebbe risolta da sola, prima o poi. Ma certi disturbi alla mandibola si andavano facendo sempre più insistenti, e i medici pensarono di intervenire impiantando una placca di resina che avrebbe aiutato la bocca a recuperare un equilibrio, ritenendo che la causa fosse da attribuire a una cattiva occlusione.
Invece, a distanza di tre mesi i dolori andavano sempre più peggiorando, tanto da costringere Nicla a sottoporsi a visita specialistica in un ospedale di eccellenza dove, dopo esami diagnostici più approfonditi, arriva la diagnosi come un fulmine a ciel sereno a squarciare il turgore della sua spensierata giovinezza: un tumore, un rabdomiosarcoma embrionale, infratemporomandibolare, sotto lo zigomo, per intenderci.
Nicla ricorda ancora bene la pacatezza e la precisione con cui l'oncologo le aveva spiegato da cosa fosse affetta e a cosa sarebbe andata incontro. Quello, per lei, è stato un momento di grande tenerezza. Sì, ha usato proprio questo termine, nel descrivermelo: tenerezza.
"Non hai una semplice febbre - le aveva detto il medico - ma è qualcosa che dobbiamo combattere con forza e con grinta". Nicla non era pronta a nulla di tutto ciò che lui le stava descrivendo; nel fiore dei suoi migliori anni, non era pronta a sentirsi spogliata della sua energia, non avrebbe mai voluto perdere i suoi capelli di un meraviglioso color rosso castagno, non aveva messo in conto di doversi confrontare con la paura.
Una paura che aveva incominciato a farsi strada dentro, e che la sorprendeva in incubi notturni e nei deliri a occhi aperti in cui ormai si perdeva durante il giorno. Eppure, il male quando arriva non lascia scampo, non dà alternative, non ti chiede il permesso. E allora toccava affrontarlo. Per se stessa e per quegli occhi di cerbiatto che sembravano implorarle di non abbandonarlo, e che senza di lei non avrebbe saputo come andare avanti.
Nutrita di tanto amore e riscoperta dentro di sé una grinta che forse non immaginava neppure di avere, Nicla ha dovuto affrontare ben cinque cicli di chemioterapia. E la perdita di tutti i suoi capelli, che ogni volta che se ne ritrovava grandi ciocche tra le mani erano come un pugno nello stomaco. Al punto di non riuscire più neppure a guardarsi allo specchio, perché ormai quella che ci vedeva riflessa dentro le apparteneva sempre meno.
Unico conforto era il giardino sotto la sua stanza, dove lo sguardo se ne andava continuamente a cercare la vita che continuava a scorrere là fuori al di là della finestra, a dispetto della sua che invece pareva essersi fermata.
Quella finestra, con il passare dei giorni, diventò come una via di fuga, come una strana fonte di speranza e di vitalità, come una liana a cui aggrapparsi e volare via. Ricorda i pappagallini verdi, Nicla; ricorda di averli visti da lì per la prima volta a Roma, e tuttora quel ricordo le è rimasto nitido e la riporta in quella camera di ospedale in cui aveva avuto costantemente la sensazione che la vita e tutta la sua bellezza le venisse sfilata via dalle mani e lei, con forza, vi si doveva aggrappare per trattenerla a sé.
In tutto quel calvario, Giulio non aveva mai smesso di starle accanto e di accudirla e di farle capire che per lui non era importante se e come lei avesse i capelli o se avesse o no una buona cera. Per lui contava solo poter sentire ancora la sua voce chiamare il suo nome, le sue mani cercare e trovare il calore di quelle di lei, avere argomenti di cui discutere e guardare assieme un film, e poi fare l'amore e poi andare in Vespa con i caschi sciolti in giro per le strade di Roma, a sentire il vento sulla faccia e a ridere per la gioia di essere rinati. Questa volta assieme.
In realtà, il travaglio fu ancora lungo, perché dopo aver concluso i cicli di chemioterapia, Nicla fu pronta per l'intervento chirurgico, durante il quale le fu asportata la massa tumorale, e assieme a questa parte della mandibola.
Eppure, non appena è parso evidente che il peggio fosse passato, Nicla e Giulio si sono sposati, per coronare una storia d'amore che senza quel tunnel di dolore e di coraggio forse oggi non sarebbe la stessa.
E dopo pochi mesi è nata una deliziosa creatura, a cui è stato dato il nome di Angelica, in ricordo della zia scomparsa quando, a soli cinque anni, investita da un'automobile era stata strappata all'amore dei suo cari, ma che aveva tentato di dimostrare, attraverso quella che a tutti - meno che a Nicla - poteva sembrare solo una banale coincidenza, che l'amore supera le barriere spazio-temporali e che chi ci ama sa come farcelo sapere.
Auguri a Nicla, a Giuliano e alla piccola Angelica. E auguri a quanti, ogni giorno, si ritrovano a dover affrontare un male che si è insinuato dentro senza chiederne il permesso. Siate forti più che potete!

mercoledì 19 ottobre 2016

ITALIA: LA FINE DELL'INDUSTRIA



La data clou non è ancora fissata ma a Cassino, nello stabilimento Fiat che un tempo sfornava modelli popolari come la 131 o la Ritmo, se l’aspettano per fine novembre. In gergo lo chiamano “Job One”: è l’esemplare numero uno che uscirà dalla catena di montaggio del primo Suv nella storia dell’Alfa Romeo, nome in codice Stelvio, nome definitivo chissà. I lavoratori trattengono il fiato, perché il rilancio della casa del biscione da parte del gruppo Fiat-Chrysler (Fca) è un passo fondamentale per far tornare stabilmente l’Italia nel mondo dei produttori di auto, scongiurando l’ennesim o tracollo del sistema produttivo. «Se tutto va bene, con l’avvio del secondo turno di lavoro sulla nuova Giulia e l’inizio della produzione del Suv, da gennaio a Cassino finalmente sarà riassorbita la solidarietà. Un buon segnale, che conferma i progressi degli ultimi tempi», dice Ferdinando Uliano, segretario nazionale dei metalmeccanici Cisl. L’obiettivo che Uliano ha in testa è questo: nel 2016, se i ritmi attuali terranno fino a dicembre, la produzione di veicoli in Italia dovrebbe tornare sopra la soglia di un milione l’anno.

È tanto, è poco. Tanto perché non accadeva dal 2008, l’ultima volta sopra quota un milione. E anche perché nell’anno più buio per l’automobile made in Italy - il 2013 - il conteggio si fermò addirittura a 595 mila unità, un dramma. Allo stesso tempo è poco. Perché la ripresa, e la strategia di Fca di costruire qui vetture di fascia alta come Alfa, Jeep e Maserati, che possono generare un valore aggiunto più elevato, non appare sufficiente a cambiare il segno di un fenomeno preoccupante: l’industria italiana, quella delle fabbriche e delle tute blu, non crea più lavoro. Basta guardare i dati pubblicati qui sotto per toccare con mano uno dei motivi per cui l’anno scorso altri 39 mila giovani - molti laureati, tanti dalle regioni del Nord - hanno deciso di lasciare l’Italia, come racconta l’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes.
Un quarto di secolo fa il principale gruppo metalmeccanico nazionale, la Fiat, dava lavoro in patria a 237 mila persone, su un totale di 303 mila nel mondo. Nel 2015 il numero complessivo è identico, sempre 303 mila, ma lo è soltanto grazie alle acquisizioni all’estero, a cominciare dall’americana Chrysler. Oggi le attività industriali della famiglia Agnelli, le auto, i camion, i trattori, raggruppate sotto la holding Exor, contano 100 mila addetti in Nord America, 53 mila in America Latina, 84 mila in Italia e il resto in giro per il mondo. In venticinque anni, dunque, in Italia solo la Fiat ha visto svanire oltre 152 mila posti di lavoro, aumentandoli invece enormemente all’estero. Merita ancora un’occhiata la tabella qui sopra: l’azienda con il maggior numero di dipendenti, oggi, sono le Poste Italiane. Che puntano tutto sui risparmi depositati dai clienti al BancoPosta e probabilmente non sono più la fabbrica di poltrone sognata dai fanatici del posto fisso “a prescindere”, come il personaggio di Checco Zalone nel film “Quo vado?”. Ma certamente restano ancora lontane dal diventare il motore della digitalizzazione del Paese, com’è avvenuto altrove.

La scomparsa delle manifatture non è un fenomeno solo italiano ma colpisce tutto l’Occidente. Uno dei simboli è certamente Detroit, la capitale dell’auto americana, che con la crisi vissuta nei primi anni Duemila ha visto la popolazione dimezzarsi, le scuole professionali che un tempo sfornavano i tecnici per General Motors, Ford, Chrysler, ridursi a scheletri di cemento, le villette dei sobborghi finire soffocate dalle erbacce, il municipio dichiarare bancarotta. Anche nelle città italiane, però, la chiusura degli stabilimenti ha lasciato ovunque ferite più o meno estese, al punto che nemmeno Milano, la più dinamica fra le nostre metropoli, dove la mutazione verso il commercio e i servizi è iniziata prima, è riuscita a rimarginarle del tutto.

Un po’ di numeri: nel 1990 l’industria dava lavoro a 5,8 milioni di italiani; dieci anni più tardi era scesa a 5,1 milioni. Con l’inizio del nuovo millennio le cifre hanno ballato su e giù per un po’, mostrando addirittura un lieve aumento nel biennio precedente la crisi del 2008. Con la recessione, però, è arrivato un nuovo collasso, ancora più profondo: nel 2014 gli addetti dell’industria erano scesi ormai a 4,5 milioni, un numero rimasto fermo anche nel 2015, quando nell’intero Paese l’occupazione è tornata a crescere. Nei primi sei mesi del 2016 la musica non è cambiata, anzi: il numero degli occupati nell’industria è sceso - anche se di pochissimo - sotto la soglia dei 4,5 milioni, mentre nel complesso dell’economia i posti di lavoro rilevati dall’Istat sono aumentati di 222 mila unità. Difficile che le cose possano cambiare molto entro la fine dell’anno, nonostante l’aumento registrato in agosto dalla produzione industriale (+4,1 per cento su base annua).


PIU' COMMESSI CHE OPERAI
Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria nonché collaboratore de “l’Espresso”, ha pubblicato pochi giorni fa il saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino). Alla domanda del titolo, nel libro Berta risponde in modo articolato e complesso. Tuttavia, ammette lui stesso in un passaggio, guardando «l’architettura storica del sistema delle imprese» la conclusione più immediata sarebbe dire che, semplicemente, il capitalismo italiano «non esiste più».

La stessa suggestione si può trarre mettendo a confronto i dati elaborati nelle due classifiche qui sopra, che riportano la “Top ten” delle imprese con più occupati in Italia, com’era nel 1990 e com’è diventata un quarto di secolo più tardi, nel 2015. L’effetto è dirompente. Detto della Fiat, nelle prime posizioni ci sono le Poste e le Ferrovie dello Stato, che nel 1990 non erano nemmeno società per azioni e che ancora oggi restano saldamente nelle mani dello Stato. Sono scomparsi quasi del tutto due colossi industriali privati com’erano Olivetti e Montedison, ma sono scivolati fuori classifica anche altri operatori che un tempo davano lavoro a decine di migliaia di persone, Ilva, Alitalia, Fincantieri. La prima, passata per la privatizzazione e la gestione della famiglia Riva, è ora commissariata per i danni ambientali causati a Taranto, aggrappata a una vendita che slitta di volta in volta. Alitalia fatica a trovare un rilancio nonostante sia stata radicalmente ridimensionata e abbia accolto in plancia di comando gli emiri di Etihad. Fincantieri è sempre controllata dallo Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, e conserva il baricentro in Italia, ma agli otto cantieri navali sul territorio nazionale ne affianca ormai cinque in Norvegia, tre negli Stati Uniti, due in Romania, altrettanti in Brasile e uno in Vietnam. Risultato: fra il 1990 e il 2015 i dipendenti sono cresciuti un po’, da 20.623 a 21.120. Prima però erano tutti in Italia; ora ne è rimasto appena uno su tre.

Per una nazione che ha costruito ogni slancio sull’export, non è un bel segnale nemmeno la pochissima industria che c’è tra le new entry. Hanno fatto il loro ingresso i supermercati, con il gigante del sistema cooperativo - la Coop - che è ormai il quarto datore di lavoro tricolore, seguito in nona posizione dall’Esselunga dei Caprotti. Ed è entrata la famiglia Benetton, con la holding Edizione. Anche qui, però, c’entrano poco i maglioncini che avevano proiettato Luciano e i suoi fratelli al vertice dell’industria tessile e dell’abbigliamento mondiale. Il grosso dei dipendenti, oltre 40 mila su un totale di quasi 65 mila, il gruppo Edizione li conta infatti nel settore della ristorazione, dove i Benetton hanno debuttato acquistando dallo Stato l’Autogrill, per allargarsi in tutto il globo con 250 marchi diversi, dalla cucina asiatica dei ristoranti Pei Wei alle birrerie Gordon Biersch. Poi seguono le concessioni autostradali e aeroportuali, anche quelle acquisite via privatizzazione, con 14.600 dipendenti. Ultimo arriva l’abbigliamento, che occupa 9.164 persone. Nel complesso, però, i lavoratori italiani sono poco più di uno su tre, sul totale dei 65 mila nel mondo. Mentre i Benetton si muovono sempre più da investitori finanziari, puntando su settori meno rischiosi, lontani dalle frontiere dell’industria.


QUEI GIGANTI SMANTELLATI DALLE LOBBY

Italia, abbiamo un problema, verrebbe dunque da dire. I motivi dell’arretramento dei posti di lavoro creati dal sistema manifatturiero sono vari. Alcuni toccano noi come gli altri Paesi. Fulvio Coltorti, a lungo direttore dell’Area Studi di Mediobanca e oggi professore di Storia economica all’Università Cattolica di Milano, indica tra gli altri il progresso delle tecnologie, l’internazionalizzazione, la frantumazione delle fasi produttive che un tempo venivano realizzate all’interno della stessa fabbrica, e che oggi sono affidate a terzi, magari in Paesi dove la manodopera costa meno. A questi affianca però problemi più caratteristici del nostro sistema, come ad esempio «l’incapacità italiana di gestire le grandi imprese e i metodi di governo societario che richiedono». Gli esempi possibili sono potenzialmente infiniti, dalla crisi dell’Alitalia allo smembramento della Montedison post Ferruzzi, causato dalla scalata favorita dalla Fiat per scopi puramente speculativi, mentre un caso particolare è quello dell’industria pubblica che un tempo faceva capo all’Iri, sul quale concentrano la loro attenzione sia Coltorti che Berta.

Scorrendo le due “top ten”, quella del 1990 e quella del 2015, balza infatti agli occhi un altro fattore cruciale. Tra i big italiani, infatti, l’industria di Stato resta dominante oggi come allora. In termini di occupati, però, tutti i gruppi hanno fatto marcia indietro. C’è il progresso tecnologico, e c’è la ricerca di maggiore efficienza indotta dal fatto che molte aziende sono state aperte a capitali terzi, attraverso la quotazione in Borsa. «Ma conta anche il dimagrimento imposto dalle lobby private, che puntavano a occupare spazi di mercato e spingevano perché i gruppi statali cedessero parte delle loro attività», dice Coltorti. Con il paradosso che poi, quando l’uscita dello Stato è avvenuta, come nel caso di Telecom Italia, le famiglie del capitalismo italiano non sono state in grado di assumerne la gestione, e i gioielli dell’Iri sono finiti in mani straniere. Anche Berta indica nella progressiva uscita di scena dello Stato-padrone il punto di non ritorno per molti dei giganti che un tempo assorbivano più manodopera: «I dati dimostrano che, in Italia, gli investimenti più massicci sono sempre stati fatti dalla mano pubblica. Quando il duopolio fra l’industria di Stato e le grandi famiglie è venuto meno, perché la prima è andata dissolvendosi e le seconde hanno venduto le loro attività, il nostro modello produttivo - che rappresentava un vero e proprio sistema di economia mista - è stato definitivamente disarticolato, senza che fosse pronto un modello alternativo», spiega lo storico.

Un fatto importante, sottolineato ancora da Coltorti. La perdita di occupati che ha colpito quasi tutti i big italiani, considerando sia i posti in patria che quelli all’estero, non è un dato scontato. In diversi gruppi stranieri, infatti, la storia si è mossa in maniera opposta. Coltorti vi aveva dedicato uno studio qualche anno fa, quindi i numeri possono essere un po’ vecchiotti. Ma il senso non cambia. La tedesca Volkswagen nel 1993 aveva 260 mila dipendenti, che nel 2009 erano saliti a 376 mila. La Siemens nello stesso periodo aveva tenuto botta, restando sempre sopra la soglia dei 400 mila. Un altro gigante tedesco della componentistica, Bosch, era salito da 165 a 271 mila, mentre gli pneumatici Continental avevano più che raddoppiato, salendo da 50 a 133 mila addetti. Il colosso alimentare svizzero Nestlé era passato da 214 a 278 mila, la multinazionale francese del vetro Saint Gobain da 96 a 199 mila.


IL PADRONE? A FORMENTERA

Certamente molti altri gruppi, anche esteri, hanno ridotto le loro dimensioni com’è avvenuto qui. Ma quello che colpisce, in Italia, è soprattutto il fatto che dal basso non sia emerso nessun attore industriale di peso, capace di occupare gli spazi liberati dai big in disarmo o di sfruttare le occasioni offerte dallo sviluppo di molti nuovi mercati , un tempo inesistenti. Le patologie dei “top ten” di un tempo, dunque, erano presenti anche nei gruppi di taglia inferiore. Marco Tronchetti Provera ha venduto il controllo della Pirelli al gruppo statale cinese Chemchina, la famiglia Pesenti l’Italcementi alla tedesca HeidelbergCement e gli eredi Merloni la storica Indesit all’americana Whirlpool, facendo scomparire l’ultimo grande produttore italiano di elettrodomestici, un comparto che un tempo pullulava di dinastie imprenditoriali, da Zoppas a Zanussi. «Sono centinaia i casi di crisi del capitalismo di seconda generazione, dove i figli dei fondatori non sono stati in grado di portare avanti le aziende dei padri», dice il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli. Ne racconta uno, emblematico: «Mi ricordo il momento durissimo di un’acciaieria del Nord Italia, seguito alla scomparsa del proprietario. Mi creda, per portare il figlio al tavolo delle trattative siamo andati a prenderlo in spiaggia a Formentera».

In un suo recente libro, intitolato “Abbiamo rovinato l’Italia?” (Castelvecchi editore), Bentivogli cita i dati di uno degli indicatori più importanti della salute generale dell’industria, la domanda mondiale d’acciaio, messi a confronto con i profitti che gli imprenditori si sono distribuiti sotto forma di dividendi: «Ebbene, negli anni che vanno da 2005 al 2007, quando l’economia tirava ma si stavano per manifestare gli effetti più duri della globalizzazione, gli imprenditori italiani invece d’investire per fronteggiare la concorrenza hanno pensato soprattutto al benessere delle proprie famiglie», spiega il sindacalista, che rintraccia in fenomeni come questo il motivo della crisi di produttività delle imprese italiane. Dice: «Si parla sempre dei salari, che però in media pesano soltanto per il 15 per cento sull’indicatore che misura la produttività, il costo del lavoro per unità di prodotto. Quello che è mancato davvero, in Italia, sono stati gli investimenti, la capacità di dare alle imprese una migliore organizzazione, la formazione del personale. Guardi la Fiat di Cassino: soltanto l’adozione di un’organizzazione in linea con i principi della “World class manufacturing” ha reso possibile l’utilizzo di tecnologie che hanno richiesto forti investimenti, dando un futuro allo stabilimento».


IL TRIONFO DELLA CLASSE MEDIA

Torniamo alla classifica, e guardiamo sotto la decima posizione. Quando c’è da citare un esempio di successo di un’azienda che da piccola si è fatta grande, il primo caso che viene in mente è quasi sempre quello della Luxottica di Leonardo Del Vecchio. Nel 1990 aveva 2.605 dipendenti, oggi ne conta 78.933. Mica male, verrebbe da dire. Studiando i numeri da vicino, si può però osservare che questa crescita esponenziale ha toccato in misura marginale l’Italia. Ben 42.313 dei suoi addetti, l’azienda specializzata nella produzione e nella vendita di occhiali li ha infatti in Nord America, 18.31 in Asia e nel Pacifico. Perché? Il motivo è che nello stabilimento bellunese di Agordo e negli altri cinque impianti italiani Luxottica produce, mentre al di là dell’Atlantico e in Oriente vende attraverso una serie di negozi che ha acquisito o sviluppato nel tempo, 4.458 dei quali in Nord America, 330 in Cina e a Hong Kong, 878 tra l’Asia e il Pacifico, soprattutto in Australia e Nuova Zelanda. Benissimo per le fabbriche italiane e per quelle straniere (in Cina, in India, in Brasile, negli Stati Uniti) ma è chiaro che, dal punto di vista occupazionale, l’impatto sulla patria d’origine resta piuttosto limitato. Molto interessante anche un altro esempio, quello della veronese Calzedonia, un gruppo nato nel 1986, soltanto quattro anni prima della nostra top ten di un quarto di secolo fa. Ebbene, pochi sanno che l’azienda presieduta da Sandro Veronesi, proprietaria anche di marchi come Intimissimi e Tezenis, ha ormai 32.382 dipendenti, 1.677 assunti nell’anno dell’ultimo bilancio disponibile, relativi al 2015. Il gruppo produce i suoi capi di abbigliamento - biancheria, lingerie, costumi da bagno - all’estero, in particolare in Sri Lanka, Croazia e Serbia, poi li vende nei negozi monomarca, diffusi in mezzo mondo. Così in Italia, la patria d’origine, i dipendenti sono solo una fettina del totale, circa 3.300.

Se Luxottica e Calzedonia sono ormai nomi conosciuti, va detto che molte delle medie aziende che costituiscono l’ossatura dell’industria italiana non hanno nemmeno l’interesse di aumentare in maniera radicale le loro dimensioni di scala. «Essendo molto specializzate, se escono dal business che conoscono meglio rischiano di perdere la loro presenza sul mercato», spiega il professor Berta, sottolineando che in questa “tara dimensionale” pesa molto anche la scarsa propensione delle famiglie proprietarie e dei manager a condurre aggregazioni. I nomi di questi gioielli imprenditoriali sono numerosi: ci sono i freni Brembo, i collanti della Mapei, i macchinari della Ima, solo per limitarsi ai più citati. Eppure, anche se non hanno mai smesso di crescere, dal punto di vista dell’occupazione non possono essere poche eccellenze a dare le risposte che servono all’Italia.

Un po’ di speranza, piuttosto, potrebbe venire dalla rivoluzione chiamata Industria 4.0. È un processo di digitalizzazione della produzione, che porta i macchinari a interagire direttamente fra loro e con le altre funzioni dell’azienda, dal marketing alla forza vendite, nel nome di una flessibilità estrema delle diverse fasi produttive. Il lato positivo è che i vantaggi di scala delle grandi fabbriche e del basso costo del lavoro vengono meno, e che questo potrebbe favorire il rientro in Italia di molte produzioni in passato delocalizzate nei Paesi più poveri. Ma ci sono molte incognite, a cominciare dal fatto che bisogna investire in centri ricerca, competenze professionali, reti digitali e quant’altro. il governo si è mosso, con un piano ad hoc proposto dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Ma la sfida è colossale, perché l’industria cambierà in maniera molto profonda nel giro di pochi anni. Guai a muoversi in ritardo.