La data clou
non è ancora fissata ma a Cassino, nello stabilimento Fiat che un tempo
sfornava modelli popolari come la 131 o la Ritmo, se l’aspettano per fine
novembre. In gergo lo chiamano “Job One”: è l’esemplare numero uno che uscirà
dalla catena di montaggio del primo Suv nella storia dell’Alfa Romeo, nome in
codice Stelvio, nome definitivo chissà. I lavoratori trattengono il fiato,
perché il rilancio della casa del biscione da parte del gruppo Fiat-Chrysler (Fca)
è un passo fondamentale per far tornare stabilmente l’Italia nel mondo dei
produttori di auto, scongiurando l’ennesim o tracollo del sistema produttivo.
«Se tutto va bene, con l’avvio del secondo turno di lavoro sulla nuova Giulia e
l’inizio della produzione del Suv, da gennaio a Cassino finalmente sarà
riassorbita la solidarietà. Un buon segnale, che conferma i progressi degli
ultimi tempi», dice Ferdinando Uliano, segretario nazionale dei metalmeccanici
Cisl. L’obiettivo che Uliano ha in testa è questo: nel 2016, se i ritmi attuali
terranno fino a dicembre, la produzione di veicoli in Italia dovrebbe tornare
sopra la soglia di un milione l’anno.
È tanto, è poco. Tanto perché non accadeva dal 2008, l’ultima volta sopra quota
un milione. E anche perché nell’anno più buio per l’automobile made in Italy -
il 2013 - il conteggio si fermò addirittura a 595 mila unità, un dramma. Allo
stesso tempo è poco. Perché la ripresa, e la strategia di Fca di costruire qui
vetture di fascia alta come Alfa, Jeep e Maserati, che possono generare un
valore aggiunto più elevato, non appare sufficiente a cambiare il segno di un
fenomeno preoccupante: l’industria italiana, quella delle fabbriche e delle
tute blu, non crea più lavoro. Basta guardare i dati pubblicati qui sotto per
toccare con mano uno dei motivi per cui l’anno scorso altri 39 mila giovani -
molti laureati, tanti dalle regioni del Nord - hanno deciso di lasciare
l’Italia, come racconta l’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes.
Un quarto di
secolo fa il principale
gruppo metalmeccanico nazionale, la Fiat, dava lavoro in patria a 237 mila
persone, su un totale di 303 mila nel mondo. Nel 2015 il numero
complessivo è identico, sempre 303 mila, ma lo è soltanto grazie alle
acquisizioni all’estero, a cominciare dall’americana Chrysler. Oggi le
attività industriali della famiglia Agnelli, le auto, i camion, i trattori,
raggruppate sotto la holding Exor, contano 100 mila addetti in Nord America, 53
mila in America Latina, 84 mila in Italia e il resto in giro per il mondo. In
venticinque anni, dunque, in Italia solo la Fiat ha visto svanire oltre 152
mila posti di lavoro, aumentandoli invece enormemente all’estero. Merita
ancora un’occhiata la tabella qui sopra: l’azienda con il maggior numero di
dipendenti, oggi, sono le Poste Italiane. Che puntano tutto sui risparmi
depositati dai clienti al BancoPosta e probabilmente non sono più la fabbrica
di poltrone sognata dai fanatici del posto fisso “a prescindere”, come il
personaggio di Checco Zalone nel film “Quo vado?”. Ma certamente restano ancora
lontane dal diventare il motore della digitalizzazione del Paese, com’è
avvenuto altrove.
La scomparsa delle manifatture non è un fenomeno solo italiano ma colpisce
tutto l’Occidente. Uno dei simboli è certamente Detroit, la capitale dell’auto
americana, che con la crisi vissuta nei primi anni Duemila ha visto la
popolazione dimezzarsi, le scuole professionali che un tempo sfornavano i
tecnici per General Motors, Ford, Chrysler, ridursi a scheletri di cemento, le
villette dei sobborghi finire soffocate dalle erbacce, il municipio dichiarare
bancarotta. Anche nelle città italiane, però, la chiusura degli stabilimenti ha
lasciato ovunque ferite più o meno estese, al punto che nemmeno Milano, la più
dinamica fra le nostre metropoli, dove la mutazione verso il commercio e i
servizi è iniziata prima, è riuscita a rimarginarle del tutto.
Un po’ di numeri: nel 1990 l’industria dava lavoro a 5,8 milioni di italiani;
dieci anni più tardi era scesa a 5,1 milioni. Con l’inizio del nuovo millennio
le cifre hanno ballato su e giù per un po’, mostrando addirittura un lieve
aumento nel biennio precedente la crisi del 2008. Con la recessione, però, è
arrivato un nuovo collasso, ancora più profondo: nel 2014 gli addetti
dell’industria erano scesi ormai a 4,5 milioni, un numero rimasto fermo anche
nel 2015, quando nell’intero Paese l’occupazione è tornata a crescere. Nei
primi sei mesi del 2016 la musica non è cambiata, anzi: il numero degli
occupati nell’industria è sceso - anche se di pochissimo - sotto la soglia dei
4,5 milioni, mentre nel complesso dell’economia i posti di lavoro rilevati
dall’Istat sono aumentati di 222 mila unità. Difficile che le cose possano
cambiare molto entro la fine dell’anno, nonostante l’aumento registrato in
agosto dalla produzione industriale (+4,1 per cento su base annua).
PIU' COMMESSI CHE OPERAI
Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria nonché collaboratore de
“l’Espresso”, ha pubblicato pochi giorni fa il saggio “Che fine ha fatto il
capitalismo italiano?” (il Mulino). Alla domanda del titolo, nel libro Berta
risponde in modo articolato e complesso. Tuttavia, ammette lui stesso in un
passaggio, guardando «l’architettura storica del sistema delle imprese» la
conclusione più immediata sarebbe dire che, semplicemente, il capitalismo
italiano «non esiste più».
La stessa suggestione si può trarre mettendo a confronto i dati elaborati nelle
due classifiche qui sopra, che riportano la “Top ten” delle imprese con più
occupati in Italia, com’era nel 1990 e com’è diventata un quarto di secolo più
tardi, nel 2015. L’effetto è dirompente. Detto della Fiat, nelle prime
posizioni ci sono le Poste e le Ferrovie dello Stato, che nel
1990 non erano nemmeno società per azioni e che ancora oggi restano saldamente
nelle mani dello Stato. Sono scomparsi quasi del tutto due colossi industriali
privati com’erano Olivetti e Montedison, ma sono scivolati fuori
classifica anche altri operatori che un tempo davano lavoro a decine di
migliaia di persone, Ilva, Alitalia, Fincantieri. La prima, passata per
la privatizzazione e la gestione della famiglia Riva, è ora commissariata per i
danni ambientali causati a Taranto, aggrappata a una vendita che slitta di
volta in volta. Alitalia fatica a trovare un rilancio nonostante sia
stata radicalmente ridimensionata e abbia accolto in plancia di comando gli
emiri di Etihad. Fincantieri è sempre controllata dallo Stato, attraverso la
Cassa depositi e prestiti, e conserva il baricentro in Italia, ma agli otto
cantieri navali sul territorio nazionale ne affianca ormai cinque in Norvegia,
tre negli Stati Uniti, due in Romania, altrettanti in Brasile e uno in Vietnam.
Risultato: fra il 1990 e il 2015 i dipendenti sono cresciuti un po’, da 20.623
a 21.120. Prima però erano tutti in Italia; ora ne è rimasto appena uno su tre.
Per una nazione che ha costruito ogni slancio sull’export, non è un bel segnale
nemmeno la pochissima industria che c’è tra le new entry. Hanno fatto il loro
ingresso i supermercati, con il gigante del sistema cooperativo - la Coop
- che è ormai il quarto datore di lavoro tricolore, seguito in nona posizione
dall’Esselunga dei Caprotti. Ed è entrata la famiglia Benetton, con
la holding Edizione. Anche qui, però, c’entrano poco i maglioncini che
avevano proiettato Luciano e i suoi fratelli al vertice dell’industria tessile
e dell’abbigliamento mondiale. Il grosso dei dipendenti, oltre 40 mila su un
totale di quasi 65 mila, il gruppo Edizione li conta infatti nel settore della
ristorazione, dove i Benetton hanno debuttato acquistando dallo Stato
l’Autogrill, per allargarsi in tutto il globo con 250 marchi diversi, dalla
cucina asiatica dei ristoranti Pei Wei alle birrerie Gordon Biersch. Poi
seguono le concessioni autostradali e aeroportuali, anche quelle acquisite via
privatizzazione, con 14.600 dipendenti. Ultimo arriva l’abbigliamento, che
occupa 9.164 persone. Nel complesso, però, i lavoratori italiani sono poco più
di uno su tre, sul totale dei 65 mila nel mondo. Mentre i Benetton si muovono
sempre più da investitori finanziari, puntando su settori meno rischiosi,
lontani dalle frontiere dell’industria.
QUEI GIGANTI SMANTELLATI DALLE LOBBY
Italia, abbiamo un problema, verrebbe dunque da dire. I motivi
dell’arretramento dei posti di lavoro creati dal sistema manifatturiero sono
vari. Alcuni toccano noi come gli altri Paesi. Fulvio Coltorti, a lungo
direttore dell’Area Studi di Mediobanca e oggi professore di Storia economica
all’Università Cattolica di Milano, indica tra gli altri il progresso delle
tecnologie, l’internazionalizzazione, la frantumazione delle fasi produttive
che un tempo venivano realizzate all’interno della stessa fabbrica, e che oggi
sono affidate a terzi, magari in Paesi dove la manodopera costa meno. A questi
affianca però problemi più caratteristici del nostro sistema, come ad esempio
«l’incapacità italiana di gestire le grandi imprese e i metodi di governo
societario che richiedono». Gli esempi possibili sono potenzialmente infiniti,
dalla crisi dell’Alitalia allo smembramento della Montedison post Ferruzzi,
causato dalla scalata favorita dalla Fiat per scopi puramente speculativi,
mentre un caso particolare è quello dell’industria pubblica che un tempo faceva
capo all’Iri, sul quale concentrano la loro attenzione sia Coltorti che Berta.
Scorrendo le due “top ten”, quella del 1990 e quella del 2015, balza infatti
agli occhi un altro fattore cruciale. Tra i big italiani, infatti, l’industria
di Stato resta dominante oggi come allora. In termini di occupati, però,
tutti i gruppi hanno fatto marcia indietro. C’è il progresso tecnologico, e c’è
la ricerca di maggiore efficienza indotta dal fatto che molte aziende sono
state aperte a capitali terzi, attraverso la quotazione in Borsa. «Ma conta
anche il dimagrimento imposto dalle lobby private, che puntavano a occupare
spazi di mercato e spingevano perché i gruppi statali cedessero parte delle
loro attività», dice Coltorti. Con il paradosso che poi, quando l’uscita dello
Stato è avvenuta, come nel caso di Telecom Italia, le famiglie del capitalismo
italiano non sono state in grado di assumerne la gestione, e i gioielli
dell’Iri sono finiti in mani straniere. Anche Berta indica nella progressiva
uscita di scena dello Stato-padrone il punto di non ritorno per molti dei
giganti che un tempo assorbivano più manodopera: «I dati dimostrano che, in
Italia, gli investimenti più massicci sono sempre stati fatti dalla mano
pubblica. Quando il duopolio fra l’industria di Stato e le grandi famiglie è
venuto meno, perché la prima è andata dissolvendosi e le seconde hanno venduto le
loro attività, il nostro modello produttivo - che rappresentava un vero e
proprio sistema di economia mista - è stato definitivamente disarticolato,
senza che fosse pronto un modello alternativo», spiega lo storico.
Un fatto importante, sottolineato ancora da Coltorti. La perdita di occupati
che ha colpito quasi tutti i big italiani, considerando sia i posti in patria
che quelli all’estero, non è un dato scontato. In diversi gruppi stranieri,
infatti, la storia si è mossa in maniera opposta. Coltorti vi aveva dedicato
uno studio qualche anno fa, quindi i numeri possono essere un po’ vecchiotti.
Ma il senso non cambia. La tedesca Volkswagen nel 1993 aveva 260 mila
dipendenti, che nel 2009 erano saliti a 376 mila. La Siemens nello stesso
periodo aveva tenuto botta, restando sempre sopra la soglia dei 400 mila. Un
altro gigante tedesco della componentistica, Bosch, era salito da 165 a 271
mila, mentre gli pneumatici Continental avevano più che raddoppiato, salendo da
50 a 133 mila addetti. Il colosso alimentare svizzero Nestlé era passato da 214
a 278 mila, la multinazionale francese del vetro Saint Gobain da 96 a 199 mila.
IL PADRONE? A FORMENTERA
Certamente molti altri gruppi, anche esteri, hanno ridotto le loro dimensioni
com’è avvenuto qui. Ma quello che colpisce, in Italia, è soprattutto il fatto
che dal basso non sia emerso nessun attore industriale di peso, capace di
occupare gli spazi liberati dai big in disarmo o di sfruttare le occasioni
offerte dallo sviluppo di molti nuovi mercati , un tempo inesistenti. Le
patologie dei “top ten” di un tempo, dunque, erano presenti anche nei gruppi di
taglia inferiore. Marco Tronchetti Provera ha venduto il controllo della
Pirelli al gruppo statale cinese Chemchina, la famiglia Pesenti l’Italcementi
alla tedesca HeidelbergCement e gli eredi Merloni la storica Indesit
all’americana Whirlpool, facendo scomparire l’ultimo grande produttore italiano
di elettrodomestici, un comparto che un tempo pullulava di dinastie
imprenditoriali, da Zoppas a Zanussi. «Sono centinaia i casi di crisi del
capitalismo di seconda generazione, dove i figli dei fondatori non sono stati
in grado di portare avanti le aziende dei padri», dice il segretario generale
dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli. Ne racconta uno, emblematico:
«Mi ricordo il momento durissimo di un’acciaieria del Nord Italia, seguito alla
scomparsa del proprietario. Mi creda, per portare il figlio al tavolo delle
trattative siamo andati a prenderlo in spiaggia a Formentera».
In un suo recente libro, intitolato “Abbiamo rovinato l’Italia?” (Castelvecchi
editore), Bentivogli cita i dati di uno degli indicatori più importanti della
salute generale dell’industria, la domanda mondiale d’acciaio, messi a
confronto con i profitti che gli imprenditori si sono distribuiti sotto forma
di dividendi: «Ebbene, negli anni che vanno da 2005 al 2007, quando l’economia
tirava ma si stavano per manifestare gli effetti più duri della
globalizzazione, gli imprenditori italiani invece d’investire per fronteggiare
la concorrenza hanno pensato soprattutto al benessere delle proprie famiglie»,
spiega il sindacalista, che rintraccia in fenomeni come questo il motivo della
crisi di produttività delle imprese italiane. Dice: «Si parla sempre dei
salari, che però in media pesano soltanto per il 15 per cento sull’indicatore
che misura la produttività, il costo del lavoro per unità di prodotto. Quello
che è mancato davvero, in Italia, sono stati gli investimenti, la capacità di
dare alle imprese una migliore organizzazione, la formazione del personale.
Guardi la Fiat di Cassino: soltanto l’adozione di un’organizzazione in linea
con i principi della “World class manufacturing” ha reso possibile l’utilizzo
di tecnologie che hanno richiesto forti investimenti, dando un futuro allo
stabilimento».
IL TRIONFO DELLA CLASSE MEDIA
Torniamo alla classifica, e guardiamo sotto la decima posizione. Quando c’è da
citare un esempio di successo di un’azienda che da piccola si è fatta grande,
il primo caso che viene in mente è quasi sempre quello della Luxottica di
Leonardo Del Vecchio. Nel 1990 aveva 2.605 dipendenti, oggi ne conta 78.933.
Mica male, verrebbe da dire. Studiando i numeri da vicino, si può però
osservare che questa crescita esponenziale ha toccato in misura marginale
l’Italia. Ben 42.313 dei suoi addetti, l’azienda specializzata nella produzione
e nella vendita di occhiali li ha infatti in Nord America, 18.31 in Asia e nel
Pacifico. Perché? Il motivo è che nello stabilimento bellunese di Agordo e
negli altri cinque impianti italiani Luxottica produce, mentre al di là
dell’Atlantico e in Oriente vende attraverso una serie di negozi che ha
acquisito o sviluppato nel tempo, 4.458 dei quali in Nord America, 330 in Cina
e a Hong Kong, 878 tra l’Asia e il Pacifico, soprattutto in Australia e Nuova
Zelanda. Benissimo per le fabbriche italiane e per quelle straniere (in Cina,
in India, in Brasile, negli Stati Uniti) ma è chiaro che, dal punto di vista
occupazionale, l’impatto sulla patria d’origine resta piuttosto limitato. Molto
interessante anche un altro esempio, quello della veronese Calzedonia, un
gruppo nato nel 1986, soltanto quattro anni prima della nostra top ten di un
quarto di secolo fa. Ebbene, pochi sanno che l’azienda presieduta da Sandro
Veronesi, proprietaria anche di marchi come Intimissimi e Tezenis, ha ormai
32.382 dipendenti, 1.677 assunti nell’anno dell’ultimo bilancio disponibile,
relativi al 2015. Il gruppo produce i suoi capi di abbigliamento - biancheria,
lingerie, costumi da bagno - all’estero, in particolare in Sri Lanka, Croazia e
Serbia, poi li vende nei negozi monomarca, diffusi in mezzo mondo. Così in
Italia, la patria d’origine, i dipendenti sono solo una fettina del totale,
circa 3.300.
Se Luxottica e Calzedonia sono ormai nomi conosciuti, va detto che molte delle
medie aziende che costituiscono l’ossatura dell’industria italiana non hanno
nemmeno l’interesse di aumentare in maniera radicale le loro dimensioni di
scala. «Essendo molto specializzate, se escono dal business che conoscono
meglio rischiano di perdere la loro presenza sul mercato», spiega il professor
Berta, sottolineando che in questa “tara dimensionale” pesa molto anche la
scarsa propensione delle famiglie proprietarie e dei manager a condurre
aggregazioni. I nomi di questi gioielli imprenditoriali sono numerosi: ci sono
i freni Brembo, i collanti della Mapei, i macchinari della Ima, solo per
limitarsi ai più citati. Eppure, anche se non hanno mai smesso di crescere, dal
punto di vista dell’occupazione non possono essere poche eccellenze a dare le
risposte che servono all’Italia.
Un po’ di speranza, piuttosto, potrebbe venire dalla rivoluzione chiamata
Industria 4.0. È un processo di digitalizzazione della produzione, che porta i
macchinari a interagire direttamente fra loro e con le altre funzioni
dell’azienda, dal marketing alla forza vendite, nel nome di una flessibilità
estrema delle diverse fasi produttive. Il lato positivo è che i vantaggi di
scala delle grandi fabbriche e del basso costo del lavoro vengono meno, e che
questo potrebbe favorire il rientro in Italia di molte produzioni in passato
delocalizzate nei Paesi più poveri. Ma ci sono molte incognite, a cominciare
dal fatto che bisogna investire in centri ricerca, competenze professionali,
reti digitali e quant’altro. il governo si è mosso, con un piano ad hoc
proposto dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Ma la sfida è
colossale, perché l’industria cambierà in maniera molto profonda nel giro di
pochi anni. Guai a muoversi in ritardo.