martedì 31 maggio 2011

VIALE DEL TRAMONTO (quaque hora somni)


Avevo promesso, dalle pagine di questo blog, di non occuparmi più del signor B., ministro di questa sgangherata repubblica, ma non posso, non riesco a farlo dopo l’ennesima conferma della scarsa lungimiranza dimostrata da quest’uomo. Tutte, dico tutte le iniziative firmate dal signor B. si sono rivelate dei clamorosi flop, se non delle autentiche bufale. Cominciamo dalla guerra ai “fannulloni” delle Pubbliche Amministrazioni e dei “panzoni” della Polizia di Stato. Tanto ardore, tanto animosità, tanta acrimonia, erano degne di miglior causa. Per esempio potevano essere indirizzate nei confronti dei pubblici dirigenti, dei boiardi di stato, che percepiscono emolumenti da capogiro e sono secondi per corruzione solo a Grecia e Romania (fonti:Istat e Corte dei Conti). Una crociata che addossi ai dipendenti infedeli la rovina della Pubblica amministrazione non è solo grottesca: è un tragico errore. Le statistiche diramate dal signor B. relative al calo dell’assenteismo in caso di malattia dall’introduzione delle nuove fasce orarie di reperibilità e della decurtazione dello stipendio, sono semplicemente non veritiere. Le assenze per malattia sono viceversa aumentate, per il semplice fatto che in tutte le P.A. si è costretti a sbrigare una mole di lavoro sempre più consistente con organici sempre più risicati. Considerando che l’età media dei dipendenti sale costantemente, è più che naturale che le assenze piuttosto che diminuire subiscano un incremento. Nel mese di aprile 2011 è stato registrato un aumento delle assenze per malattia (quelle che il signor B. voleva colpire con la decurtazione dello stipendio) del 3,3 % per il personale docente e del 8,8% per il personale A.T.A. rispetto allo stesso mese del precedente anno (fonte: Ministero dell'Istruzione e non Ministero della Pubblica Amministrazione, quello del signor B.).Bisognerebbe spiegare a questo signore che la politica del bastone non conduce da nessuna parte: se un dipendente si sente continuamente vessato e dileggiato, aggredito da quello che dovrebbe essere il suo ministro di riferimento, mal pagato, privo di qualsiasi stimolo o incentivo, costretto ad un lavoro noioso e ripetitivo, continuamente soggetto a quelle che la CGIL definisce “molestie burocratiche” (la continua richiesta di monitoraggi, rilevazione di dati, statistiche, sempre secondo modalità differenti), difficilmente non cade prima o poi nella sindrome aziendale del “burn out”, l’essere bruciato, non avere più stimoli per proseguire, rifugiandosi nella malattia, nelle ferie, nell’aspettativa. La circolare sui malati oncologici è un altro capolavoro. Viene ribadito che un malato di cancro non deve sentirsi un privilegiato solo per questo, è soggetto come gli altri alle visite fiscali, ma, in compenso, gli si concede la possibilità di rendersi ancora utile, con il telelavoro da casa o con il passaggio al part time. Ma guarda! Che concessione! Chissà che cosa penserebbe della sua circolare il suo autore qualora venisse egli colpito da tale patologia, chissà cosa passerebbe per la sua testa, come affronterebbe il calvario di un intervento chirurgico, di una chemioterapia, dell’approssimarsi della morte…chissà se penserebbe ancora al telelavoro, al part time…
E poi, in ordine: il rinnovo automatico di cinque anni della carta di identità, con la semplice apposizione di un timbro da parte dell’anagrafe del Comune. Bellissima trovata, peccato solo che, come mi ha oggi stesso confermato l’agenzia di viaggi cui mi sono rivolto, non viene accettata da nessuno dei paesi della UE. Mi devo recare in Spagna, devo quindi rifare il documento. Dal momento che gli ordini sono quelli di non rifarlo ma di rinnovarlo, sarò obbligato a renderlo inutilizzabile, magari deteriorandolo. E poi l’introduzione della PEC, la Posta Elettronica Certificata, tutti ricordiamo il signor B. comparire in tutte le televisioni con i cartelli più grandi di lui che pubblicizzavano questa fantastica innovazione. Dopo un paio d’anni dalla sua introduzione, non la usa nessuno, proprio nessuno. Bel risultato. Si è candidato a sindaco di Venezia, ma i veneziani si sono ben guardati dal votarlo, ci mancherebbe altro. Non intende dialogare con le Organizzazioni Sindacali, che considera un inutile intralcio, crede di essere il padrone delle ferriere. Sta cercando di impoverire i contratti collettivi nazionali, svuotandoli degli argomenti nevralgici, allo scopo di applicare anche alle P.A. il cosiddetto “sistema Marchionne”, non comprendendo che se talune battaglie sono sacrosante, se la guerra ai fannulloni è certamente meritoria, non può però essere condotta con la sola arma del pregiudizio e dell’aggressività, con la tracotanza del politicante che si ritiene infallibile e infallibile non è. Volete altri due esempi? Bene. L'introduzione, nella scuola, degli sms per le comunicazioni scuola-famiglia: in pratica, ad ogni assenza dell'allievo dovrebbe corrispondere un sms da parte della scuola. Ma tutte le compagnie telefoniche vantano, nei confronti delle istituzioni scolastiche, crediti per migliaia e migliaia di euro. La domanda quindi è: chi paga questo servizio? E ancora, ricorderete tutti i recenti spot televisivi (pagati da noi contribuenti) relativi ad un numero unico della Pubblica Amministrazione in grado di risolvere ogni problema dell'utente e di orientare il cittadino nella giungla burocratica delle P.A. I pochi che hanno provato a comporre il numero o hanno trovato occupato oppure si sono trovati a conversare con un giovanotto che non sapeva neppure quello che stava facendo. Il problema, molto semplicemente, è che non esistono riforme a costo zero. Se un ministro della repubblica decide di riformare la P.A. lo deve fare solo in presenza di risorse certe da destinare a tale riforma. Se i soldi non ci sono, si ricade nella politica, tutta berlusconiana, degli annunci, della propaganda personale, senza che a questi annunci faccia seguito una applicazione reale. E' proprio il caso del signor B., che ha fatto solo annunci, confezionando costosi spot che abbiamo pagato noi, cui non ha fatto seguito un bel nulla. Il signor B. è l’emblema del volto più deteriore del berlusconismo, il suo braccio armato, ma anche il suo canto del cigno. Con il tramonto di Berlusconi, vedremo scomparire dalla ribalta politica anche questo personaggio, che ci ha fatto sprecare tempo e denaro in iniziative balzane e improduttive. Non solo, è riuscito a creare un fossato difficilmente colmabile tra la politica dei politicanti di mestiere e i lavoratori che ogni giorno si alzano alle sei per tirare un carretta sempre più gravosa e pesante, per di più trattati dal signor B. come bestie da soma. Una cosa vorremmo far capire a questo signore: per fare politica occorre cultura, intelligenza e una buona dose di diplomazia e buone maniere, cose totalmente estranee a quest’uomo. Bisogna sapersi rapportare con i dipendenti, che non sono degli animali da spronare, sono esseri umani da riqualificare, persone che aspettano solo di sentirsi ancora fieri di continuare a fare quello che fanno, senza essere frustati alla cieca, concedendo loro, a quelli che lo meritano, le giuste gratificazioni. Ho sentito dire, recentemente, da un dirigente di una P.A. che la solo gratificazione che un dipendente può legittimamente aspettarsi è la gratitudine degli utenti soddisfatti dell’interazione col dipendente stesso. Ma questo è il livello minimo di produttività di un dipendente pubblico. Non basta veder uscire dal proprio ufficio un utente sorridente, ci vuole ben altro. Deve essere l’amministrazione a gratificare il dipendente corretto, che svolge bene i suoi compiti. Non ci vuole molto, basta possedere una buona dose di umanità, di pietà, di compassione e di longanimità per gli altri. Tutte virtù completamente sconosciute a questo signore. Se il signor B. non ha compreso queste poche verità elementari, ha sbagliato mestiere e merita di essere mandato a casa. Speriamo che, in seguito alla clamorosa batosta delle elezioni amministrative, venga compiuto, all’interno del PDL , un rimpasto tale da far tornare il signor B. alle sue abituali attività, quello che vuole, purchè non faccia più politica. Non abbiamo bisogno di politici frustrati e insoddisfatti, quindi aggressivi e supponenti. Abbiamo bisogno  di persone pacate, riflessive, capaci di mediazione e votati al confronto, alla dialettica non urlata, non ringhiante, ma serena e riflessiva.
E' in atto, in questi giorni, un rimescolamento delle carte nell'ambito del PDL, una operazione di facciata, un maquillage che non incanta nessuno. Come prima di lui fece Mussolini, Berlusconi colloca alla segreteria del partito un prestanome (il ministro Alfano), conservando i tre coordinatori nazionali. Anche Mussolini abbandonò la segreteria del partito, ma tutti sapevano benissimo quale fosse il peso politico di uno Starace: praticamente nullo. Queste operazioni non incantano nessuno. Se possiamo permetterci di dare al Cavaliere un sommesso consiglio, ci permettiamo di suggerire di rimuovere dal suo incarico un uomo che non ha centrato uno, dico uno solo degli obiettivi che si era prefisso. Nessuna delle sue scelte ha conosciuto il successo, tutte si sono rivelate delle operazioni velleitarie di pura propaganda personale ed hanno arrecato solo danno e nocumento alla pubblica amministrazione. Se è possibile commettere degli errori, non è possibile sbagliare tutto. Se questo avviene, il minimo che può succedere, come predica lo stesso signor B., è la rimozione dal proprio incarico.
Nel signor B., forse più che in ogni altro esponente del centro destra, si emblematizza la decadenza, il degrado del berlusconismo. Uno dei suoi uomini di punta, predestinato alla riforma della Pubblica amministrazione, il grande innovatore, si è rivelato per quello che è in realtà, una persona con poche idee e pochi mezzi, incapace di rapportarsi con gli altri e con il mondo, preda di frustrazioni antiche, di nodi irrisolti, ambizioso fino all’egocentrismo, incurante dei risultati ottenuti o non ottenuti, una persona per la quale l’importante è solo l’apparire, non l’essere, un politico che lascia, al tramonto inglorioso del berlusconismo, un Pubblica Amministrazione demotivata e sfasciata, destrutturata e allo sbando. E’ una eredità difficile da raccogliere, per il suo successore. Un’ultima piccola annotazione: grazie al signor B. tutti i lavoratori delle P.A., come un sol uomo, non hanno votato per il centro destra. Per questo, Berlusconi, difficilmente potrà mostrare gratitudine a questo suo collaboratore rivelatosi, nel complesso, una scelta autolesionista e infelice.

sabato 28 maggio 2011

UN EROE DEI NOSTRI TEMPI (anzi, due)

Il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano ha notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, in vista della richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti dell'attore Edoardo Costa, già protagonista della soap opera «Vivere». L'attore è accusato di truffa aggravata, appropriazione indebita, falso ideologico e materiale e uso di atto falso. Secondo il pm di Milano Bruna Albertini, si sarebbe appropriato di circa 570 mila euro versati in beneficenza alla associazione a favore dei bambini dei Paesi poveri da lui fondata, C.I.A.K.. Secondo la ricostruzione dei finanzieri, l'associazione benefica avrebbe destinato realmente allo scopo dichiarato solo una piccola percentuale del denaro raccolto: dei circa 650mila euro raccolti, solo 80mila sarebbero stati destinati all'assistenza dei bambini. Per gli investigatori la cifra raccolta potrebbe anche essere «molto superiore, poiché non è stato possibile quantificare tutto il denaro drenato nel corso dei vari eventi. Questo perché nella maggior parte dei casi la onlus raccoglieva denaro contante, di difficile tracciabilità».
Ora, Edoardo Costa, il cui vero nome è Edoardo Cicorini, attore di mezza tacca, buono a nulla e capace di tutto, non ha arrecato un danno ai soli benefattori che un po’ superficialmente hanno scelto proprio la sua “associazione” per fare donazioni, no, ha provocato un danno incalcolabile a tutte quelle organizzazioni onlus che d’ora in poi, a ragione peraltro, saranno passate ai raggi X da una buona parte di coloro che intendono fare beneficenza. Ovviamente, sempre che le accuse, come pare, siano realmente fondate. E’ pur vero che non parliamo di Lawrence Olivier, le sue prestazioni attoriali si fondavano unicamente sulla sua presenza fisica, la sua mimetica facciale conosceva a malapena un paio di espressioni (quella seria e quella sorridente), per l’arte non si tratterà di una perdita irreparabile, ma, tutto sommato, consideriamo che le malefatte del signor Cicorini hanno anche un aspetto positivo. Qualche tempo fa scrivevo dalle pagine di questo blog  il post “Il colore dei soldi. Occhio alla beneficenza”, cercando di mettere in guardia gli aspiranti benefattori dalle trappole rappresentate dalla sete di denaro di alcune associazioni onlus. Ne esiste una tale quantità (probabilmente esiste anche una onlus per la ricerca sulla cura del raffreddore) che, secondo una banale legge statistica, diventa ovvio che alcune tra di esse siano semplicemente composte da cacciatori di soldi. La stessa struttura di Telethon, divenuta ormai elefantiaca, deve mantenere una schiera di operatori, amministrativi, medici ecc. che rappresentano una spesa viva. Quando facciamo una donazione a queste multinazionali della beneficenza o della ricerca, dobbiamo sempre pensare che non si tratta, nella maggioranza dei casi, di volontari, ma di persone che percepiscono un regolare stipendio, versato dai donatori, e che fra di loro si annida facilmente qualche buono a nulla raccomandato che ha trovato una occupazione facile e remunerativa. In conclusione, non ci facciamo mai incantare dalle foto melense e strappalacrime mostrate in TV da una Filippa Lagerback (che farebbe meglio a stare un po’ più attenta quando ci mette la faccia): dietro il fenomeno, per esempio, delle “adozioni a distanza”, si possono celare delle associazioni a delinquere che intascano interamente le donazioni facendo pervenire al benefattore foto fasulle e letterine commoventi altrettanto fasulle. Non facciamo di ogni erba un fascio, naturalmente, ma sarebbe buona abitudine rispettare, quando decidiamo di fare beneficenza, alcune piccole regole: la prima, consultare il sito internet dell’associazione. Un sito ricco, che possa vantare collegamenti e relazioni con pubbliche strutture è sempre da preferire. Secondo, sempre sul sito internet devono essere pubblicati i bilanci dell’associazione. E’ vero che possono essere bilanci fasulli, ma, insomma, è una garanzia in più. Terzo, cercare di risalire alla filiera della beneficenza: in molti casi ci si perde ad un certo punto, non si riesce a capire chi regga il bandolo della matassa. I responsabili di queste associazioni  devono avere un nome e un cognome, devono rilasciare in linea foto e curriculum, mettere a disposizione dell’utente qualsiasi notizia utile per osservare una tracciabilità trasparente del denaro versato.  A questo proposito, il sito del Signor Cicorini era ben poca cosa, poco più del suo faccione sorridente. E, a proposito di faccia, occorre dire che quella di Cicorini non era delle più rassicuranti. Fare donazioni ad un simile individuo ci sembra un poco azzardato.
Teniamo sempre presente, infine, che, anche se siamo ormai abituati a tutto, non ci indigniamo più di nulla, dopo il caso del cosiddetto “don” Seppia possiamo attenderci qualsiasi cosa, siamo comunque giunti ad un livello di scadimento dell’etica e di decadenza dei costumi mai conosciuto in epoca moderna. Una simile immoralità, un simile degrado dell’umanità poteva essere compatibile solo con il crollo dell’Impero Romano d’Oriente. Mai, complice la crisi economica, si era scesi così in basso, ad un così infimo livello, simili scellerati malfattori non circolavano da tempo sul nostro suolo. Pazienza, dobbiamo vigilare, sollevare il livello di attenzione ogni qualvolta si tratta del nostro denaro, consapevoli che il mondo è popolato da sciacalli pronti a carpire la nostra buona fede, utilizzando gli strumenti più disgustosi: la pietà per un bambino malato di AIDS, malnutrito, morente, i malati di cancro senza speranza, i malati affetti da malattie autoimmuni progressivamente fatali. C’è una tale dose di abiezione nello strumentalizzare il dolore, la sofferenza, la morte stessa, che tornano alla memoria i bellissimi versi di Giovanni Pascoli del “X agosto”, parole che suggellano esemplarmente la nostra condizione di cani che si sbranano a vicenda:
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Non so se il signor Cicorini sia veramente colpevole. Se lo fosse la giustizia degli uomini, come sempre, saprà essere incredibilmente clemente nei suoi confronti: un buon legale, il patteggiamento, la buona condotta, pochi mesi di carcere e poi di nuovo fuori. Ma se il signor Cicorini conserva un piccolo, flebile, barlume di coscienza, dovrebbe aver compreso, confusamente, che il  crimine commesso non è quello dei 650.000 euro, una cifra che non dice nulla, il suo crimine, quello per il quale non pagherà sulla terra, è di avere ucciso la speranza e l’illusione coltivate da tante famiglie, da tanti anziani che si sono privati di denaro importante per la loro povera esistenza, nella convinzione di compiere qualcosa di utile, di aver aiutato, nel loro piccolo, qualcuno più sfortunato di loro. Questo crimine non può essere perseguito e sanzionato dalla giustizia degli uomini. Come nel caso di “Don” Seppia, sarà la giustizia di Dio ad occuparsi di questa miseria, di questa vigliaccheria, di questa brutale avidità di denaro. 

A proposito di eroi dei nostri giorni, mi piace segnalarne un altro, brevemente, di ben diversa fatta, molto più celebre del Signor Cicorini, e molto più pericoloso di lui, un signore che è profumatamente pagato dai contribuenti per occupare nel modo più indegno possibile uno degli scranni del Parlamento Europeo, un mangiapane a ufo, una mente contorta che pronuncia parole terribili senza neppure essere consapevole di ciò che fa. Parliamo del caso dell’arresto di Ratko Mladic, il boia di Srebrenica, un mostruoso essere umano che ha sulla coscienza migliaia di morti tra uomini, donne, vecchi e bambini, di migliaia di stupri compiuti dalla sua soldataglia serba per ripulire etnicamente i bosniaci di fede musulmana. Sarà estradato all’Aia per rispondere della fondatissima accusa di genocidio e crimini nei confronti dell’umanità. Il generale francese Jean Heinrich, un ex-comandante delle forze della Nato durante la guerra nella ex-Jugoslavia, dice che Ratko Mladic era «un pazzo da legare», totalmente «incontrollabile», un «capo banda» più che un «capo di guerra». «Era un generale, ma incapace di tenere i suoi uomini. Era più un capo banda che un capo di guerra, poco efficace sul piano militare, e al tempo stesso incontrollabile, pronto a tutto, con un grande carisma sulle sue truppe», racconta Heinrich in un'intervista all'agenzia France Presse. Ebbene, il nostro deputato Mario Borghezio, celebre esponente della Lega, è riuscito a rilasciare la seguente dichiarazione: «Non ho visto le prove, i patrioti sono patrioti e per me Mladic è un patriota. Quelle che gli rivolgono sono accuse politiche. Sarebbe bene fare processo equo, ma del Tribunale dell'Aja ho una fiducia di poco superiore allo zero» ha detto  Mario Borghezio in diretta alla Zanzara su Radio 24. «I Serbi avrebbero potuto fermare l'avanzata islamica in Europa - ha aggiunto Borghezio a Radio 24 - ma non li hanno lasciati fare. E sto parlando di tutti i Serbi, compreso Mladic. Io comunque andrò certamente a trovarlo, ovunque si troverà». Mi pare che sia sufficiente. Non posso commentare oltre per non incorrere nei reati di ingiuria o di diffamazione. Lascio che le parole di quest’uomo si commentino da sole, e a voi che leggete il trarre le debite conclusioni, ricordando che si tratta di un uomo politico italiano, e che nel suo partito queste sparate sono frequenti (il suo collega eurodeputato Speroni aveva proposto di sparare sugli immigrati di Lampedusa) e non più tollerabili. Ricordiamocene quando ci ritroveremo a tracciare una X sul simbolo di un partito, la prossima volta, nel segreto dell’urna.

L'europarlamentare Mario Borghezio



mercoledì 25 maggio 2011

TRIBUTO A MARIO DRAGHI

E’ con vivo, grande piacere che apprendiamo da tutti gli organi di stampa (compreso l”Economist” e il “Financial Times”) che il nominativo di Mario Draghi è giunto in dirittura d’arrivo per la presidenza della Banca Centrale Europea. Nella giornata di ieri, anche l’ultima riserva, quella di Angela Merkel, è caduta, spianando dunque la strada della candidatura di Mario Draghi. E’ stato proprio il ministro delle finanze tedesco Schaeuble, uno dei più grandi estimatori di Draghi, a fare rompere gli indugi, comprensibili, alla Merkel. Ricordiamoci, qualora qualcuno tralasciasse questo particolare, che Mario Draghi è il governatore della Banca d’Italia, uno dei paesi più indebitati dell’area Euro. Questo particolare, non trascurabile, è passato in secondo piano, data la fama, il successo, la stima unanime di cui gode questo formidabile signore, che ha sbaragliato letteralmente qualsiasi altro candidato. Anche il Presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, uno dei primi a caldeggiare la candidatura di Draghi, ha dichiarato la propria soddisfazione. E persino Sarkozy, che non brilla per stima ed ammirazione dello stivale, ha concesso senza esitazioni il suo appoggio. Allo stato attuale, è questo il dato sconcertante e lieto allo stesso tempo, Mario Draghi è solo nella corsa alla presidenza della BCE. Ma vediamo di conoscere meglio questo signore, uno dei pochi italiani riconosciuti a livello mondiale per le sue qualità indubbie di onestà, serietà, competenza ed equilibrio.


E' nominato Governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. In questa veste, è membro del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea, membro del Gruppo dei Sette e del Gruppo dei Venti oltre che del Consiglio d’Amministrazione della Banca dei Regolamenti Internazionali.
E' Governatore per l’Italia nel Consiglio dei Governatori della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, della Società Finanziaria Internazionale, dell’Associazione per lo sviluppo internazionale, dell’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti e della Banca Asiatica di Sviluppo.
E' anche Alternate Governor per l’Italia presso il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Interamericana di Sviluppo e la Società Interamericana di Investimento.
Dall’aprile 2006 è Presidente del Financial Stability Forum, divenuto Financial Stability Board dalla primavera del 2009.
Nel 1970 consegue, con il massimo dei voti e lode, la laurea in Economia all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza“, discutendo la tesi Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio con il prof. Federico Caffè. Prosegue gli studi al Massachusetts Institute of Technology sotto la guida dei proff. Franco Modigliani e Robert Solow, conseguendo il Ph.D. in Economics con la tesi Essays on Economic Theory and Applications.
Dal 1975 al 1978 è professore incaricato prima di Politica economica e finanziaria all’Università di Trento, poi di Macroeconomia all’Università di Padova e di Economia matematica all’Università di Venezia, quindi di Economia e politica monetaria all’Università di Firenze ove, dal 1981 al 1991, è Professore Ordinario della stessa disciplina.
Dal 1984 al 1990 ricopre la carica di Direttore esecutivo alla World Bank.
Nel biennio 1989-90 partecipa al gruppo di lavoro incaricato dal Ministro Guido Carli di elaborare “un testo unico delle disposizioni vigenti in tema di intermediazione finanziaria, bancaria e non bancaria”. Consulente economico della Banca d’Italia nel 1990. Viene nominato Direttore Generale del Tesoro il 17 gennaio 1991 e vi resta fino al 2001. Nel 1993 viene messo a capo del Comitato per le privatizzazioni. In qualità di Direttore Generale del Tesoro ha guidato i lavori della Commissione incaricata di redigere il Testo Unico in materia di intermediari e mercati mobiliari. E' stato, inoltre, Presidente dello European Economic and Financial Committee, membro del G7 Deputies e Presidente del gruppo di lavoro OCSE Working Party 3.
E' stato Vice Presidente e Managing Director di Goldman Sachs International e, dal 2004 al 2005, membro del Comitato esecutivo del Gruppo Goldman Sachs.
Il Prof. Mario Draghi è membro dal 1998 del Board of Trustees dell’Institute for Advanced Study (Princeton) e, dal 2003, della Brookings Institution. E' stato Visiting Fellow all’Institute of Politics, John F. Kennedy School of Government (Harvard University) nel 2001. E' autore di scritti su temi finanziari e macroeconomici.

Questo, sommariamente, il curriculum di questo formidabile personaggio, che, vista la fama di cui gode il nostro paese, considerato da molti il paese più settentrionale dell’Africa, è uno dei pochissimi italiani stimati ed ammirati all’estero. Non dimentichiamo, inoltre, che un presidente della BCE italiano, per quanto dotato di equilibrio ed equidistanza, inevitabilmente, se i nostri politici non porteranno, con le loro malefatte, il paese al suicidio finanziario, avrà un occhio di riguardo nei confronti dell’Italia, e potrebbe concorrere, con la sue indubbie qualità, ad evitare all’Italia il rischio default. La carica che andrà a ricoprire è una delle più prestigiose a livello mondiale, non possiamo che essere grati alla professionalità, alla misura, alla competenza di Mario Draghi, che in uno dei periodi più bui di questo paese, con una classe politica ai minimi storici, un governo Berlusconi – Scilipoti – Bossi, ne risolleva parzialmente le sorti. Onore e grazie dunque a Draghi, cui non posiamo che augurare un proficuo lavoro, certi che sarà all’altezza del suo compito, e non farà rimpiangere comunque il predecessore Trichet. Purtroppo, e anche questo è sintomatico, non sono pochi gli organi di stampa che fanno notare l’anomalia che contraddistingue Draghi: il fatto di essere italiano. In effetti, dobbiamo a malincuore ammettere che lo stereotipo dell’italiano all’estero è molto distante dalla personalità di Draghi. Il che non fa che sottolineare la bravura di questo signore, che ha dovuto, oltre a tutto il resto, superare anche il pregiudizio degli analisti stranieri. Per una volta non ci troviamo di fronte ad un suonatore di mandolino, un consumatore di spaghetti, un confezionatore di pizze, un santo, un navigatore, e, soprattutto, un affiliato all’onorata società.

BENE, INSOMMA

Pubblico con grande piacere il bellissimo articolo di Valeria Panigada (finanza.com) in quanto contiene, a distanza di tre giorni dal declassamento dell’Italia di Standard & Poors, una accurata analisi degli svizzeri di UBS. Si tratta di una analisi forse un po’ prematura, considerato che al momento, le risposte che hanno fornito i mercati al declassamento italiano è stata tutto sommato positiva, (ma non è detto che rimanga tale nel medio termine) e tutta sbilanciata sul versante ottimistico, quindi, proprio per questo motivo, va presa con le dovute cautele. Si tratta, però, considerata l’autorevolezza della fonte, di una valutazione impeccabile, che non tiene, comunque, nel dovuto conto gli elementi negativi (quelli fotografati da S&P) che fanno da contrappeso ad una analisi che, in ogni caso, risolleva non poco i nostri spiriti.

Il Belpaese rimane tale agli occhi degli analisti di Ubs, che suggeriscono sei buone ragioni per rimanere positivi sull'Italia e su Piazza Affari, nonostante la recente strigliata di Standard & Poor's. Lo scorso fine settimana l'agenzia di rating ha confermato il giudizio del debito italiano ad A+, abbassando però l’outlook da stabile a negativo in quanto “le attuali prospettive di crescita sono deboli e l’impegno politico per riforme che aumentino la produttività sembra incerto”. Un avvertimento che ha messo di cattivo umore gli investitori, già preoccupati per la situazione finanziaria di Grecia, Irlanda e Portogallo, ma che non ha impensierito Ubs. 
E' vero le incertezze sulla Penisola non mancano. A cominciare dagli ultimi dati macro, che hanno deluso le attese. Nel primo trimestre dell'anno la crescita del Prodotto interno lordo (Pil) è stata dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dell'1% su base annuale, mentre il mercato si aspettava un rialzo trimestrale dello 0,3% e annuale dell'1,3%. Un avvio debole che potrebbe impattare sulle stime di crescita dell'intero anno. A questo si è aggiunta più recentemente la perdita di consenso del premier, Silvio Berlusconi, evidenziata dalle elezioni comunali di metà maggio, che fa temere agli analisti una impasse politica. Secondo il mercato, se lo schieramento politico di maggioranza dovesse perdere anche nel prossimo incontro (il ballottaggio del prossimo fine settimana), il presidente del consiglio potrebbe essere incoraggiato a dimettersi, creando una crisi politica che ostacolerebbe le riforme e le misure di austerità necessarie per migliorare il livello di debito.
Una situazione che però non preoccupa Ubs. "Probabilmente alcune tensioni politiche e il potenziale spostamento di Giulio Tremonti nel ruolo di primo ministro potrebbero essere positivi, visto che è l'unico ad avere in mano la responsabilità per tagliare i costi e abbassare il deficit", sostengono gli analisti nella loro recente nota. L’ottimismo del broker svizzero sull'Italia è racchiuso in alcuni punti chiave. Ecco i suoi motivi per rimanere fiduciosi, nonostante tutto:  
Il primo riguarda il debito pubblico. Sebbene il rapporto debito-Pil sia al 119%, cioè sopra la media europea dell'85%, non c'è da preoccuparsi per Ubs, perchè la situazione finanziaria in realtà è tra le più salutari tra i Paesi periferici. "L'Italia ha un target sul deficit al 3,9% per il 2011, uno dei più bassi in Europa", sottolineano gli esperti. La secondo ragione arriva guardando alle banche: "Gli istituti di credito della Penisola sono ben capitalizzati e mostrano una struttura di finanziamento buona", precisano a Ubs.
Terzo e quarto elemento a favore dell'Italia è che: è uno dei Paesi meno correlati al ciclo economico e all'attività manifatturiera e che soffre meno del rialzo dei tassi di interesse (manovra iniziata ad aprile dalla Banca centrale europea). "Guardando ai debiti dei privati, il rapporto con il Pil è pari al 125%, uno dei più bassi d'Europa (in Uk pari al 226% e in Irlanda al 331%) - viene illustrato nel rapporto - E la struttura dei prestiti è costituita per la maggior parte da mutui di lunga durata e con tassi fissi (a contrario della Spagna)".
Altro aspetto che promuove l'Italia è rappresentato dalla sua convenienza: "E'il secondo mercato più conveniente del Vecchio continente secondo il modello Shiller PE. La batte solo la Grecia". Last but not least, ecco il mondo aziendale. Secondo Ubs, si sta assistendo da aprile dell'anno scorso a una ripresa degli utili societari, che si sono riportati in linea con il resto d'Europa senza però esaurire ulteriori spazi di crescita.
Guardando a Piazza Affari, Ubs rileva che il mercato azionario italiano è dominato dal settore energetico, bancario e delle utility, che insieme ricoprono circa il 70% del totale. Comparti su cui la casa d'affari elvetica ha un giudizio overweight. E tra i singoli nomi? Ecco che il broker suggerisce i suoi titoli preferiti: Eni, Intesa Sanpaolo e Telecom Italia a cui si aggiunge come ultimo Enel. "Questi titoli hanno sottoperformato il mercato negli ultimi 12 mesi", conclude Ubs, facendo intendere la possibilità di ghiotte occasioni.

(Valeria Panigada – RIPRODUZIONE RISERVATA)

lunedì 23 maggio 2011

IL GOVERNO AL TEMPO DELLA CRISI

Fino a quando siamo disposti a sopportare? Fino a che punto della crisi vogliamo arrivare prima di fare sentire la nostra indignazione, la fine del nostro spirito di sopportazione, quando faremo sentire chiara e forte la nostra voce a questa classe politica inutile, imbelle, impreparata, incollata alla poltrona, incapace totalmente di governare l’emergenza? Sabato 21 maggio è suonato il campanello d’allarme da parte di Standard & Poors, che ha tagliato l’outlook per l’Italia da stabile a negativo. Avrebbe potuto e dovuto fare di più. Avrebbe potuto tagliare anche il rating, e nessuno avrebbe potuto eccepire alcunché. Oggi, Fitch e Moody’s hanno dichiarato di lasciare inalterata la valutazione dell’Italia. Francamente non si comprende questo comportamento, vorrei dire misericordioso, nei confronti di un paese che, nonostante le enormi potenzialità, è entrato in un totale stallo politico che gli impedirà di mettere mano alle riforme strutturali. Dobbiamo essere grati alle agenzie di rating, che ci stanno trattando con il guanto di velluto. L’aspetto più grottesco sono state le dichiarazioni dei sindacalisti Bonanni (CISL) e Angeletti (UIL) che hanno sostenuto che Standard & Poors non sarebbe credibile. Non sarebbe credibile? Ma in che paese vivono costoro? Siamo noi ad aver perduto qualsiasi forma di credibilità. S&P ha ampiamente motivato la sua scelta, fotografando perfettamente la situazione del nostro paese. Un paese con un debito pubblico elevatissimo, che ha già tagliato tutto quello che poteva tagliare, con una pressione fiscale al 44%, un record mondiale, una evasione fiscale inestirpabile perché gli evasori non si vogliono perseguire, una economia in piena stagnazione, se non in recessione, una classe politica manifestamente, a destra come a sinistra, incapace di gestire questo passaggio storico, che tira a campare fino al 2013. Ma non ci possiamo permettere di aspettare altri due anni. Attendere questo lasso di tempo lasciandolo in mano a questo pugno di dilettanti significa imboccare direttamente la strada della Grecia, essere obbligati alla ristrutturazione del debito sovrano, che significa coinvolgere i soggetti privati nella bancarotta dello stato. La campana ha suonato, dobbiamo agire subito e ringraziare S&P che ci ha messo in allarme. Le riforme strutturali che ci chiede la UE sono quella del fisco (che non faremo mai, per il semplice fatto che le tasse, in questo paese, continueranno a non essere pagate)della previdenza, ma se alziamo il tetto della vecchiaia a 67 anni, quando entreranno i giovani nel mondo del lavoro? Forse sarà il caso di metter mano alle pensioni baby, versare una pensione per quarant’anni ad un soggetto collocato a riposo giovanissimo, o alle pensioni d’oro, quelle sopra i 5.000 euro e via discorrendo. E poi le privatizzazioni: la sanità, lo spaventoso buco nero della sanità non può sopportare i costi dell’uguaglianza a tutti i costi. E’ chiaro per tutti che non possiamo permetterci di offri tre la stessa tipologia di servizio ad un immigrato esattamente come ad un cittadino italiano. In linea di principio sarebbe giusto, ma i costi sono diventati insopportabili. Quanto all’istruzione, ci penseranno gli enti locali, le regioni, cui passeranno le competenze, a traghettare la scuola verso la privatizzazione. Il sistema sanitario nazionale deve riconsiderare tutti i rapporti commerciali con le multinazionali farmaceutiche, dal momento che, per esempio, i farmaci antineoplastici hanno prezzi vertiginosi, anche diverse migliaia di euro a confezione: principi attivi il cui brevetto è scaduto da tempo, ma che mantengono un prezzo elevatissimo perché lo stato non può o non vuole ricontrattare i costi con la potentissima lobby del farmaco. Insomma, gli aspetti cui mettere mano sarebbero davvero tanti. Ma che fare, dal momento che il nostro ceto politico non è in grado di fronteggiare la crisi? Intanto prendere spunto dalla protesta spagnola, gli “indignati” che, a turno, hanno formato dei presidi, accampandosi nelle piazze di molte città, indignati non con il governo, ma con la classe politica spagnola tout court. E invocare, diciamolo pure, un governo di tecnici. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma non possiamo continuare a lasciarci governare da un uomo troppo impegnato a badare a i fatti suoi, che da quando è “sceso in campo” ha triplicato i propri profitti e delle proprie aziende, che si trova a fronteggiare un conflitto di interessi spaventoso, (un industriale che fa il politico, una contraddizione in termini), un uomo che puntella il proprio scricchiolante governo con un gruppo di cosiddetti “responsabili”, sul giudizio morale dei quali lasciamo calare un pietoso velo. Nel martoriato Belgio, i cui conti pubblici sono pressocchè equivalenti ai nostri, un paese in preda alla paralisi istituzionale per la vittoria dei partiti scissionisti alle ultime lezioni, ha avuto la fortuna di costituire un governo tecnico che ha fatto così bene da risollevare parzialmente le sorti economiche del paese. E’ pur vero che i tecnici potrebbero essere soggetti ad un forte condizionamento politico, considerando che il parlamento sarebbe comunque costituito dagli stessi tristi figuri che vi compaiono oggi, ma, sinceramente, non vedo altra soluzione. Pensiamoci bene, tutti insieme, valutiamo l’ipotesi di una emulazione della protesta spagnola, consideriamo l’ipotesi di un esecutivo tecnico svincolato dai partiti, per il solo tempo necessario ad uscire dalla pericolosa deriva greca, che solo ieri Standard & Poors ci ha mostrato come non troppo distante.

sabato 21 maggio 2011

DE PROFUNDIS

L'agenzia Standard & Poor's ha tagliato l'outlook sul rating della Repubblica italiana da stabile a negativo, confermando il rating a lungo termine «A+ » e a breve termine «A/1+» sul debito sovrano. Questo significa che nei prossimi 24 mesi c'è una probabilità del 33% che il rating venga abbassato. Finora l'Italia era rimasta fuori dall'ondata di retrocessioni che ha già colpito Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. C’è, per la verità, da meravigliarsi che le agenzie internazionali di rating come la stessa S&P, Moody’s e Fitch, abbiano atteso tanto a ratificare quello che è sotto gli occhi di tutto il mondo, tranne che da noi. Le motivazioni addotte dall’agenzia che ha fatto uscire la sua valutazione non a caso nella notte tra venerdi e sabato, a mercati chiusi, sono ineccepibili: la prima è che l’Italia non cresce economicamente, non solo, anche quel risicato 1% è poco credibile, più verosimile appare lo 0% della stagnazione. Le seconda motivazione è lo stallo del sistema politico italiano, evidentemente incapace di attuare le riforme necessarie a far diminuire il rapporto debito pubblico/PIL, a far accrescere le entrate fiscali nonostante l’inaudita pressione tributaria del nostro paese, tra le più pesanti del mondo, e soprattutto, di mettere mano a quelle famose riforme strutturali che, pur dolorose, sono indispensabili. Il decreto appena licenziato sullo “sviluppo economico” è un pannicello caldo, non incide minimamente sui conti pubblici, è stato messo a punto da un governo svogliato, inadeguato, cieco ed ottuso, che pensa solo a tirare a campare fino al 2013. Già, il 2013, la naturale scadenza della legislatura, mancano ancora due anni: potrebbero essere i due anni fatali per il nostro paese. Intendiamoci: Standard & Poors non ha fatto altro che fotografare una situazione ampiamente conosciuta da tutti, ha semmai atteso un tempo lunghissimo per diramarla, forse per attendere qualche segno di vita da parte del nostro ceto politico, segno di vita che non c’è stato. Ricordiamo tutti i mesi e gli anni perduti a discutere di case di Scajola, di case di Montecarlo, di vicende giudiziarie che coinvolgono un solo uomo, Silvio Berlusconi. Mesi ed anni preziosi, perduti, in questioni risibili, prive della benchè minima importanza in confronto ad un paese la cui economia stava e sta andando in malora. Dobbiamo essere grati semmai a S&P, che ha stabilito il solo outlook negativo, lasciando sostanzialmente invariato il rating, poteva andarci peggio, molto peggio. L’agenzia di rating ha sottolineato, infatti, che se l’Italia procederà sulla strada delle riforme fiscali e strutturali, il rating potrà rimanere invariato. Ma bisogna fare presto, molto presto. E’ una corsa contro il tempo perché, e questo lo sappiamo tutti, da lunedi, all’apertura dei mercati, il vento delle speculazioni internazionali soffierà deciso sui nostri titoli di stato, e lo spread attuale con i bund tedeschi ce lo possiamo, fin d’ora, dimenticare. Sono fatti così i mercati: la situazione italiana era sotto gli occhi di tutti, ma l’Italia è rimasta sulla graticola a rosolare fino a quando S&P non ha messo nero su bianco come stanno le cose. Da quel momento, complice l’emotività dei mercati, comincerà per noi tutti un periodo difficile, delicatissimo: entriamo ufficialmente nel novero dei paesi a rischio default. Con noi ci sono la Grecia, ormai di fatto fallita, il Portogallo , l’Irlanda, la Spagna e il Belgio, che però, avendo la fortuna di essere governato da tecnici, sta risollevando le sue sorti. L’avessimo noi questa fortuna! Non è questione di centro destra o centro sinistra, l’opposizione ha poche idee e confuse, Berlusconi non appare in grado di governare l’emergenza, è stanco, demotivato, troppo impegnato nei fatti suoi per capire la storicità di questo giorno. Diciamolo subito: le riforme che la UE si aspetta da noi sono quelle famose denominate “strutturali” (che non si capisce mai bene cosa siano). E’ semplice: riforma della pensioni con innalzamento del tetto di vecchiaia a 67 anni, taglio delle pensioni baby – l’INPS non può permettersi di versare una pensione per cinquant’anni ad una persona che si è collocata a riposo sotto i quarant’anni, determinazioni di pensioni di “solidarietà”, vale a dire un taglio alle pensioni sopra i 5.000 euro (non sono poche come potrebbe apparire). Altra riforma strutturale: continuare sulla strada delle privatizzazioni. Sono dolorose, si vendono i gioielli di famiglia, non fa piacere a nessuno, ma si tratta di una via obbligata. Non parliamo della riforma del fisco perché, dispiace rimarcarlo, è assolutamente inattuabile in Italia. L’Italia è un paese dove non si pagano le tasse, e continuerà ad esserlo. Non c’è riforma che tenga. Siamo destinati ad essere in testa alle classifiche mondiali per evasione fiscale, ma una cosa abbiamo chiaramente compreso: in questo paese il problema dell’evasione è ineliminabile, è un tumore che ci portiamo da sempre appresso senza possibilità di guarigione. Ma le riforme di cui abbiamo accennato dovrebbero essere portate avanti da un governo forte, autorevole, e la nostra classe politica è troppo inetta, debole, divisa per questioni di bottega, per  attuare una simile svolta. E allora, il timore fondato è che per l’Italia stia per suonare il “de profundis”. Si comincia a vedersi tagliato il rating, l’economia continua a non crescere perché non sorretta a dovere dalla politica, l’evasione continua imperterrita, i titoli di stato sono costretti  ad applicare interessi troppo elevati per essere acquistati, insomma ci si incammina sulla stessa strada della Grecia e del Portogallo. La buona notizia che Mario Draghi (salvo cambiamenti dell’ultima ora dovuta ai nostri dissestati conti) sarà designato alla presidenza della BCE non può aiutarci più di tanto, anche perché, da professionista serio qual’è, Draghi deve mantenere una giusta equidistanza. E anche il tormentone che siamo troppo grandi per cadere, potrebbe rivelarsi una illusione: la Germania e gli stati del nord Europa potrebbero svincolarsi dalla periferia, e dare vita ad un euro a due velocità, anticamera di un ritorno alle valute nazionali, che per noi sarebbe la fine dell’Italia come l’abbiamo conosciuta finora. In ogni caso, il pericolo che più di ogni altro ci deve preoccupare, nel medio – lungo termine, è la cosiddetta “ristrutturazione del debito sovrano”, la stessa della quale si sta parlando in questi giorni per la Grecia, e che paesi come l’Argentina hanno ben conosciuto. Che cosa implica la ristrutturazione del debito sovrano? Per il cittadino essenzialmente questo: se abbiamo prestato allo stato 100, in obbligazioni o titoli di stato, la scadenza di tali titoli subisce un differimento, diciamo di un paio d’anni (i soldi rimangono tuoi, ma non puoi utilizzarli), e una riduzione del tasso di interesse applicato al momento della stipula o un taglio del valore nominale dei titoli (hai prestato allo stato 100, lo stato, insolvente, te ne restituisce 75)non si tratta, come è di tutta evidenza, di una prospettiva troppo allegra. Ricordiamo, lo abbiamo ribadito da queste pagine più volte, che quella in atto non è una crisi economica, ma un “tornante della storia”, una svolta epocale che ha avuto un inizio ma non può conoscere una fine, dal momento che, tra molti anni, si entrerà in un era di transizione tra un sistema economico finanziario ed un altro, che ancora non si intravvede. Non si esce dunque, da questa crisi, si può solo, come fanno i paesi virtuosi del nord Europa, gestirla, governarla, convivere con essa. Non aspettiamoci nessuna fine della crisi, cerchiamo di assecondarla provando a parare i colpi e a farci il meno male possibile. Ma con i politicanti di casa nostra, la vedo dura. Quando un ministro della repubblica continua il tormentone dei dipendenti pubblici fannulloni, non vedendo il livello di corruzione inaudito dei dirigenti delle P.A., c’è poco da stare allegri. Prepariamoci, dunque, ad un lunedi nero delle  borse, uno dei giorni peggiori dei nostri mercati, vediamo se il crollo imminente saprà sollecitare le nostre risorse migliori. O se, come accade in Belgio, un paese senza governo da oltre un anno, non sarà auspicabile un governo di tecnici anche da noi, svincolati da cosche, consorterie, clientele e logge. Sarebbe, allo stato attuale, l’unica soluzione possibile. Mandare a casa i politicanti di professione e affidare l’emergenza a tecnici indipendenti. Ma, considerato l’attaccamento dei nostri politici alle rispettive poltrone, mi appare abbastanza improbabile. Da noi un deputato, per essere costretto alle dimissioni, deve, come minimo, strangolare un avversario politico. Un consiglio, infine, mi sento di dare ai miei cari lettori, che hanno investito in obbligazioni o titoli di stato: niente panico, non correte a svendere i vostri prodotti, non farete che alimentare la speculazione internazionale e vi ritrovereste con una somma sensibilmente inferiore rispetto a quella investita: state alla finestra, tenete d’occhio i mercati, ma non contribuite ad alimentare la crisi, che con le banche in debito di liquidità, finirebbe per avvitarsi su se stessa.

venerdì 20 maggio 2011

L'ANGELO DEL MALE

E’ con una sorta di stupore, di incredulità, di raccapriccio, che, col passare dei giorni e il dipanarsi delle indagini, si scoprono via via particolari sempre più gravi e orrendi nella vicenda del parroco di Sestri Ponente don Riccardo Seppia. La vicenda è ormai nota a tutti: da circa quindici anni questo strano tipo di prete conduceva una vita a doppio binario: fustigatore dei costumi e amministratore dei sacramenti di giorno, lupo mannaro, adescatore, pervertito, drogato, spacciatore e magnaccia di notte. Ammettiamo solo per un momento che le intercettazioni e le prime evidenze di cui sono in possesso gli inquirenti corrispondano alla verità. E’ difficile trovare tante cattive qualità concentrate in un solo uomo: il livello di scelleratezza toccato da questo signore è umanamente insuperabile. Ricapitoliamo brevemente: Riccardo Seppia, sacerdote cattolico e parroco di S.Spirito di Sestri Ponente si sposta tra Milano e Genova continuamente: lo fa per rifornirsi di cocaina e di nuove prede da adescare per soddisfare i suoi appetiti sessuali ma anche per indurre alla prostituzione minori o addirittura bambini in cambio di droga. Prende, diversi anni fa, i primi contatti con questo sottobosco da “cuore di tenebra”, frequentando la saune per omosessuali a Milano. Da quel momento comprende qual è la sua seconda, vera vocazione: la pedofilia e il consumo e spaccio di cocaina. Li vuole giovani, sempre più giovani, ama le forti emozioni: arriva a chiedere con insistenza al suo tristo complice, arrestato in questi giorni, Emanuele Alfano, ex seminarista, di professione lenone, prede sempre più giovani, sino ad arrivare all’infanzia, li vuole di dieci anni. Lo chiede con insistenza al complice Alfano, non è questione di prezzo, lui può pagare con la droga qualsiasi somma. Francy, il suo “pusher” è costretto ad un superlavoro per tener dietro alle richieste di questo assatanato, che, evidentemente, non lavora solo per se stesso, ma si trova nel bel mezzo di una rete, una organizzazione ben orchestrata che sarebbe andata avanti chissà per quanto se non fosse stato per un piccolo particolare trascurato dal Seppia: la sua vita vistosamente dispendiosa, che mal si conciliava con il magro stipendio di parroco. E qui possiamo muovere la prima riflessione: Riccardo Seppia metteva in bella mostra il suo tenore di vita perché aveva raggiunto la consapevolezza del suo grado di impunità. Ora, anche se la difesa invocherà quasi certamente per questo sciagurato la seminfermità mentale, noi sappiamo bene che Seppia era un pervertito sì, ma non uno sciocco o un suicida. Quindi la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dal momento che questo signore faceva parte di una comunità chiamata Chiesa Cattolica, era uno dei suoi ministri, non esercitava il suo ministero in un remoto angolo del mondo ma nel bel mezzo di una grande città, potevano la gerarchie ecclesiastiche non sapere? E’ un po’ difficile da credere. Il quartiere dove Seppia, da quindici anni conduceva, senza la minima precauzione questa doppia vita, non si è accorto che quel prete aveva qualcosa nella testa che non doveva funzionare a dovere, e che comunque era totalmente inadatto a svolgere la sua missione? Siamo proprio certi che l’omertà sia una prerogativa del mezzogiorno? A Sestri Ponente tanti, ma proprio tanti dovevano sapere, o avere  almeno intuito, e non hanno detto niente. In Curia arcivescovile molti prelati vicini all’Arcivescovo dovevano sapere e hanno taciuto. I Riccardo Seppia non vengono su come i funghi nel giro di una notte. Una vita dedicata per l’80 per cento al crimine non può passare inosservata, soprattutto se il personaggio i questione indossa un abito sacro. E bisognava sentirle le omelie di questo satanasso, che rigore morale, che senso dell’etica, che austerità di costume! Peccato che a queste parole corrispondesse un crimine tra i più odiosi e detestabili del codice penale: la violenza sui minori. Questo signore non solo era uno spacciatore di droga, un adescatore di minori, uno sfruttatore della prostituzione, non solo: ha insanguinato l’abito che indossava. Si può non essere cattolici, si possono avere vedute diverse della religione, ma credo che tutti noi siamo disposti a tributare il massimo rispetto per l’abito che così indegnamente indossava questo scellerato. Le violenze e i misfatti da lui compiuti hanno sparso il sangue degli innocenti su quell’abito proprio perché da un uomo che lo indossa ti aspetti accoglienza, comprensione, pietà, carità e misericordia. Non ti aspetti che ti venda a qualcuno per una dose di cocaina, o che ti apra i pantaloni  per fare chissà che. Sono ferite, dell’anima, d’accordo, ma sono ferite che spargono un sangue che non si arresterà più, per tutta la vita del bambino che le ha subite, queste sono le ferite che non conoscono rimarginazione, cicatrizzazione, continueranno a sanguinare e a sporcare la tonaca di questo miserabile. E con la sua tonaca quella di una chiesa intera che non  ha saputo fermare o vigilare a sufficienza su chi gettava fango e discredito sulla comunità dei credenti. Da questa storia escono solo sconfitti: Riccardo Seppia, che ha compiuto nefandezze che nessun castigo, nessuna pena che sia in potere dell’uomo comminare sarà sufficiente ad emendare, non esiste perdono per l’uomo consacrato a Dio che viola uno dei comandamenti fondamentali istituiti personalmente da Gesù Cristo stesso: "Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato in mare. Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo, è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, càvalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo che essere gettato con due occhi 'nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue". (Mc. 9, 37-47); «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» (Mc 10,14), chi infrange questo comandamento non può che essere condannato senza appello, ma anche il quartiere di Sestri che ha girato la testa dall’altra parte, fingendo di non vedere lo strafottente tenore di vita del prete, e infine la Curia Arcivescovile di Genova che non ha vigilato o non ha voluto farlo, fingendo di non sapere e di non vedere. 

Dicevo che si tratta di una storia di sconfitte, una delle storie più amare e tristi che ci troviamo a raccontare, chi si sente cristiano, chi ha fede in Cristo, si sente bruciare nella sua stessa carne, sgomento davanti a quella che appare come una incarnazione del male. E’ come se le potenze luciferine avessero abitato, dimorato e disposto le mosse di quest’uomo, e lo avessero trasformato in un angelo ribelle, un angelo del male, Lucifero sulla terra. Non è vero che il demonio non esiste, come tanti positivisti sostengono: esiste, si chiama Riccardo Seppia, oggi, si chiamava altrimenti in altre epoche ed in altri luoghi, si chiamerà diversamente in futuro, in qualche altro luogo ancora. Esistono le incarnazioni del male, vi sono uomini che, con le loro atrocità, con le loro lucide coscienze perverse ci hanno fatto comprendere che il male esiste, che è qualcosa di ineliminabile nell’uomo, che per quanti sforzi possiamo compiere non potremmo mai dirci al di fuori o al di sopra di esso. Riccardo Seppia era uno di noi, era un uomo come noi. Non era una creatura nata in laboratorio, in vitro, il prodotto di una alchimia perversa: condivideva con noi l’umanità, la fragilità , la debolezza di noi comuni mortali. Ma aveva compiuto un passo in più, quello stesso   passo che rende il suo peccato non redimibile. Aveva scelto di consacrarsi a Dio, di dedicare la propria vita al servizio della parola di Cristo, alla cura delle sue anime, alla divulgazione e la pratica del Vangelo. Nessuno lo aveva obbligato: poteva restare un laico come tutti noi. No, ha voluto compiere quel passo in avanti che solo la Giustizia di Dio potrà giudicare.” Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perchè il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena."(Mt 6, 25-34). I tribunali degli uomini invocheranno, come già detto, la seminfermità di mente o qualche altra sciocchezza. Ma verrà il giorno in cui questo scellerato dovrà rispondere ad un tribunale che non è quello fallace e inadeguato degli uomini, ma sarà la giustizia di Dio a giudicare un uomo che sconterà qualche anno, se non qualche mese di galera, sceglierà il rito abbreviato per decurtare la pena, sarà affidato ai famigerati “servizi sociali” per essere recuperato e reintegrato alla vita civile, e tra poco sarà di nuovo tra di noi, pentito, contrito ed assolto. Noi lo assolviamo, la giustizia di Dio, l’unica che può leggere nelle coscienze come in una radiografia, saprà fare di meglio e di più.

martedì 17 maggio 2011

LA BUFALA DELLA PEC

Pubblico volentieri, avendo promesso di non scrivere più di un certo ministro che considero neppure degno di menzione, l’opinione dell’avv. Marco Scialdone, Guido Scorza, e nientemeno che della redazione del “Sole 24 ore”, sul formidabile flop della tanto sbandierata Posta Elettronica Certificata. Ad una mia specifica domanda, il mio commercialista, un professionista che dialoga continuamente con le Pubbliche Amministrazioni, mi ha confidato candidamente di non averla mai utilizzata. Se non la usa lui, che è un professionista, figuriamoci noi, che siamo cittadini qualsiasi.

La posta elettronica certificata (PEC) viene introdotta nel nostro ordinamento con il D.P.R 68/2005, a sua volta "attuativo" di una disposizione del 2000 del T.U.D.A., l'articolo 14, comma 3 che così recitava "la trasmissione del documento informatico per via telematica, con modalita' che assicurino l'avvenuta consegna, equivale alla notificazione per mezzo della posta nei casi consentiti dalla legge".

Passano gli anni e la PEC rimane un oggetto misterioso: nessuno la usa, complice la mancanza di interoperabilità con l'email tradizionale. La PEC funziona solo per comunicare con altre caselle PEC. La PEC, inoltre, è una roba solo italiana, negli altri paesi non esiste: un vero controsenso rispetto alla universalità della rete.

Una tecnologia, dunque, destinata a cadere nel dimenticatoio (del resto, la storia dell'informatica ne è piena) finchè qualcuno non decide di resuscitarla nel modo peggiore: imponendola per legge.

Con il Decreto Legge 185/2008 (convertito in legge 2/2009) il Governo prevede che le imprese e i professionisti debbano necessariamente dotarsi di una casella di PEC e, non contento, decide di "regalare" una casella di PEC ai cittadini che ne facciano richiesta.

L'articolo 16-bis della legge 2/2009, infatti, prevede che "per favorire la realizzazione degli obiettivi di massima diffusione delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni ai cittadini che ne fanno richiesta e' attribuita una casella di posta elettronica certificata il cui utilizzo abbia effetto equivalente, ove necessario, alla notificazione per mezzo della posta"

Fate bene attenzione alle parole: ai cittadini che fanno richiesta è attribuita una casella di posta elettronica certificata.

Nella stessa disposizione si rimanda ad un D.P.C.M. per la definizione delle modalità di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini.

Il Decreto in questione viene adottato il 6 maggio 2009 e, ancora una volta, specifica che (art. 3)
"Al cittadino che ne fa richiesta la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie, direttamente o tramite l'affidatario del servizio, assegna un indirizzo di PEC".

Lo stesso decreto specifica che l'affidatario del servizio sarà scelto con gara.

Riassumendo: il cittadino ha diritto ad una casella PEC.

Ad inizio agosto, quando tutti sono in vacanza, viene pubblicato il bando per la scelta dell'affidatario del servizio.

E' qui che il gioco delle tre carte si materializza: davanti avevi la PEC, l'avevi vista, era lì, solo che quando allunghi il dito, scopri che sotto la carta che hai indicato non c'è la PEC ma la CEC – PAC che non si capisce bene cosa sia.

Si capisce solo che si tratta di un sistema ancora più chiuso, diverso dalla PEC, che serve solo per comunicare con la PA e non con il resto del mondo e che costerà a tutti noi (giusto perchè doveva essere gratis!) tra i 25 e i 50 milioni di euro.

Dunque, la legge ci assegnava una casella di PEC (già di per sè una patacca) e Brunetta ha deciso che non la meritavamo e ci ha rifilato la CEC - PAC, con buona pace del diritto.
Il 29 novembre scorso è scaduto il termine entro il quale i professionisti di tutta Italia avrebbero dovuto dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata in ossequio all’obbligo - per fortuna o sfortuna senza sanzione - previsto all’art. 16 della Legge 185/08.
Naturalmente non è stato così e di questo, personalmente, mi rallegro perché ogni indirizzo PEC in circolazione è, allo stato, un inutile elemento di confusione ed ambiguità che non semplifica nulla e complica tutto.
Non riesco, pertanto, proprio a condividere - e me ne scuso con l’interessato - l’entusiasmo manifestato dal Ministro Brunetta per il milione di indirizzi dei quali, a suo dire, i professionisti italiani (architetti, avvocati, giornalisti, medici, commercialisti ecc.) si sarebbero dotati.
Come si fa a manifestare entusiasmo nel riferire che addirittura più del 100% dei Notai - ovvero 5000 indirizzi su 4731 iscritti - già disporrebbe di un indirizzo di posta elettronica certificata?
Dovrebbe essere evidente che c’è un errore e che, pertanto, c’è poco da star sereni: piuttosto che dar numeri in conferenza stampa con toni entusiastici il Ministro avrebbe dovuto avviare una seria ispezione per capire cosa sia realmente accaduto nel sistema PEC nel notariato.
In assenza di un’unica anagrafe dei domicili informatici - o di più anagrafi interconnesse - la PEC non può funzionare: la raccomandata - cui si ispira la nuova modalità di comunicazione elettronica sponsorizzata dal Ministro Brunetta - ha, sin qui, funzionato perché gli indirizzi dei destinatari sono elementi univoci e ben determinati e perché l’ordinamento è costruito sul sistema della mera conoscibilità di una comunicazione inviata all’indirizzo di domicilio o residenza del destinatario.
In assenza di tale certezza neppure la raccomandata avrebbe avuto successo.
Inutile, per la stessa ragione, ripetere che la pioggia di indirizzi di posta elettronica certificata che il Ministero, l’ACI, l’INPS, INFOCAMERE e persino Telecom stanno regalando a destra e a manca forse consentiranno al Ministro Brunetta di autocelebrarsi per l’enorme quantità di PEC in circolazione ma non fanno che accrescere l’ambiguità e scomporre l’identità di ciascuno di noi in tante identità digitali quanti sono gli indirizzi PEC di cui disponiamo.
Questa non è innovazione ma semplice propaganda di politica dell’innovazione miope ed ottusa che rischia di condannare il mondo delle comunicazioni elettroniche al caos.
In questo clima di grande confusione che andrebbe raccontato con voce grave e preoccupata piuttosto che con sorrisi e toni entusiastici, c’è però una buona notizia che arriva dal Tribunale amministrativo Regionale di Pescara i cui giudici, in barba alla disciplina sulla PEC e la firma digitale, hanno ben compreso che la tecnologia e l’innovazione devono essere strumenti di semplificazione nei rapporti tra PA e cittadino e non già sovrastrutture informatico-giuridiche idonee a rallentare processi e rappresentare ulteriori cavilli da legulei ed azzeccagarbugli.
Grandi potenzialità, zero applicazioni. È il destino della posta elettronica certificata che il ministro Brunetta ha voluto mettere dallo scorso anno a disposizione, gratuitamente, dei cittadini. Ribattezzata – con la consueta capacità di creare acronimi che solo nei ministeri hanno – Cec-Pac, non è certo per questo alone di mistero che la Pec pubblica ha ottenuto risultati deludenti.
Nel primo anno di vita se ne è dotato un milione di persone (contro i tre milioni attesi), ma in realtà è solo la metà che poi ha effettivamente attivato la mail certificata. E per di più, quei 500mila hanno inviato un solo messaggio. Probabilmente, quello per capire se lo strumento funziona davvero. Poi hanno riposto la loro Pec in un cassetto e lì si trova tuttora. Perché non sanno che farci. Ancora non esiste, infatti, un elenco dei servizi che si possono effettuare con la mail certificata. In teoria, si può dialogare con gli uffici pubblici senza muoversi di casa e con la certezza di avere un riscontro, perché il documento spedito via Pec equivale alla raccomandata con ricevuta di ritorno. Nella realtà, con quegli uffici il cittadino non sa che dirsi.

In chiusura mi consento un'ultima, amara, osservazione. L'unica occasione nella quale ho potuto utilizzare la PEC è stata la scomparsa di mia madre, avvenuta qualche mese fa. In quell'occasione, ho inviato una PEC all'INPS per comunicare il decesso di mia madre. Nel giro di due ore di orologio le pensioni relative a mia madre sono state rimosse. Magia della PEC! Peccato che per ottenere i ratei di tredicesima spettanti ai superstiti, mi sono dovuto recare personalmente presso gli sportelli INPS e compilare a mano un modello di una decina di pagine. Se si tratta di sospendere una pensione, la PEC funziona benissimo, (probabilmente sarebbe accettato anche un piccione viaggiatore), se, viceversa, si tratta di richiedere un giusto rimborso, la PEC non funzione più, occorre recarsi presso gli sportelli e compilare il tanto amato modello cartaceo, quindi attendere mesi se non anni. Misteri della burocrazia.
 

domenica 15 maggio 2011

SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI

Ricordi quella mattina, a Diano Marina, eravamo usciti presto dall’albergo che ci ospitava, era la fine di marzo, faceva ancora freddo, ma il cielo era limpido, sgombro di nubi, l’aria frizzantina, il sole radente si specchiava sulle pozzanghere lasciate sulla strada dalla pioggia del giorno prima. Camminavamo mano nella mano, per le strade non ancora affollate della cittadina, il vento sollevava mulinelli di foglie e scompigliava i tuoi capelli, io ti parlavo di non so quali progetti, tu, muta, con gli occhiali da sole, eri immersa nei tuoi pensieri. Ci sedemmo su di una panchina, in pieno centro, tu avesti un brivido di freddo, io  mi avvicinai per cingerti la vita con un braccio, e rimanemmo così a lungo, a goderci il tepore che emanava quel sole già primaverile. In quel momento mi sentivo felice. Non ti dissi nulla, continuammo la passeggiata, ma il tuo sorriso bastò a confortare il mio cuore. La sera, dopo la cena consumata al ristorante dell’hotel, salivamo nella suite che avevano preparato per noi: uno stile berbero che ricordava un po’ le ambientazioni del “tè nel deserto”, con colori caldi pastello alle pareti, gli arredi essenziali in legno bruno massello, le lampade bellissime, multicolori, le sedie in vimini intrecciati con i cuscini decorati con i fiori di ibisco. Poi uscivamo per percorrere il deserto lungomare. Cercavo il tuo braccio, stringendolo forte, il mare non si vedeva, si udiva solo l’impatto delle onde sugli scogli o sulla battigia, la rare lampade che illuminavano la strada emanavano una strana luce oltremarina, parlavamo poco, a tratti, i lunghi silenzi non pesavano sul cuore, li apprezzavo anzi come un dono da custodire. C’era molta serenità in quelle passeggiate solitarie, accanto ad un mare fuori stagione, incrociando qualche raro passante che scivolava via in fretta. Poi, una volta arrivati al belvedere, sostavamo a lungo, sempre in silenzio, cercando di scrutare un mare indecifrabile ed oscuro, per poi tornar sui nostri passi, a braccetto, qualche volta reclinavi il capo sulla mia spalla, e questo mi bastava ad infondermi un calore dolce e melodioso.

La mattina ti svegliavo piuttosto presto, mi alzavo per scostare la tenda della finestra davanti al letto: inquadrava perfettamente un borgo a picco sul mare, pareva una cartolina illustrata. Tornavo poi a letto, per abbracciarti e darti qualche bacio, tu ancora assonnata, avresti voluto indugiare ancora un po’, avevi ancora sonno: parevi una bambina, con gli occhi chiusi e la magica innocenza del sonno. Non sapevi che già da qualche ora ti guardavo dormire, ed il bimbo che è da sempre in me pareva uscire dalla mia anima ed aleggiare per la stanza, fino ad unirsi alla bimba che sei e che è in te, per giocare a rimpiattino, o semplicemente per raggiungerti nel sonno. Ho ancora nelle orecchie i suoni di risa che mi sembrava di sentire in quei momenti. Dopo la colazione, tutti i giorni, ci dirigevamo verso qualche località dell’imperiese da visitare, camminavamo a lungo, per quelle contrade, senza confusione, nella tranquillità che solo quella stagione sa regalare. A cena poi, una melodia sempre diversa accompagnava le portate, ci guardavamo negli occhi, come da molto tempo non facevamo, e i tuoi occhi azzurri si spalancavano, a volte, in seguito ad una esclamazione, e questi tuoi occhi, di quegli istanti, sono per sempre nei miei occhi.

Nei pomeriggi, ventosi ma soleggiatissimi, ci soffermavamo, per qualche tempo, al tavolino di qualche bar, per bere una birra, o una cioccolata calda. Il sole pareva non vedesse l’ora di tuffarsi nel mare, i tramonti, in quei luoghi e in quei tempi, sono sbrigativi ma intensi: gli ultimi bagliori, prima della scomparsa del disco rosso oltre l’orizzonte marino, sono come i lampi di un temporale, i colori si mescolano, il giallo contro il blu genera il verde dell’ultimo raggio del crepuscolo. Ti vedevo percorsa da un brivido, che ti dava una scossa alle spalle e alla schiena, mi tendevi la mano, allora, ed io te la baciavo teneramente, per poi abbracciarti, sentire ancora una volta il profumo dei tuoi capelli, indovinare la morbida sinuosità del tuo collo,  chiudere gli occhi  per rivivere i primi istanti…L’ultima sera, durante la consueta passeggiata sul lungomare immerso nelle tenebre, una lieve malinconia cominciò a salire dentro di noi, ma senza traboccare. Ci dicemmo cose, quella sera, che non voglio riportare, ma i nostri baci furono limpidi come il cristallo, e i nostri sguardi languidi come specchi d’acqua. Ci coricammo allacciati, una lacrima solcava la tua gota, io sospiravo senza una parola. Poi, prima di scivolare in un sonno d’altri tempi, vidi il tuo cuoricino fondersi con il mio, e l’ultimo pensiero che ricordo, prima di addormentarmi, fu che quello sarebbe stato, presto, molto presto, il nostro futuro.

“Se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio
di Dio il sorriso.”

(F. De Andrè)

A F.S. con tutto l’amore che posso.

mercoledì 11 maggio 2011

FANTASTICHERIA (parte terza)

E mi risvegliai, come volle Iddio, dopo un tempo immemorabile, mi risvegliai sdraiato su di un letto, in pieno giorno. Aprii gli occhi a stento, la stanza era illuminata a giorno, da un sole pieno che la investiva. Dove mi trovavo? Mi guardai attorno. Mi trovavo in una camera da letto che aveva qualcosa di familiare. La finestra che avevo davanti a me affacciava su di un giardino inondato di sole, vedevo i rami di un castagno che si stagliavano su di un cielo talmente azzurro da essere turchino. Era la casa di campagna, l’appartamento dell’entroterra ligure che i miei genitori utilizzavano per passarvi l’estate, e dove tante volte mi ero fermato per riposare, riprendere fiato, rifocillarmi, dormire al fresco tra i canti delle cicale, e, soprattutto, stare un poco con i miei genitori, per quel senso di protezione che ancora per un poco potevano darmi. Una volta compreso tutto questo, mi riadagiai sul letto, vestito di tutto punto, la testa poggiata sul cuscino, sentivo  le voci dei miei genitori provenire dalla stanza accanto. C’era una veranda che potevo scorgere dalla finestra, un tavolo da giardino e quattro sedie, sulle quali avevo portato a temine qualche lettura, al riparo dai raggi del sole, o al fresco della sera, quando i profumi dell’erba e dei fiori si esalano intensi ed inebrianti, e il senso del tempo che scorre e dell’avvicendarsi delle stagioni sembra arrestarsi come per incanto, tutto sembra immobile, negli attimi che precedono il tramonto, quando la luce del crepuscolo è così dolce e malinconica da smuovere anche gli animi più insensibili, la pace della sera che arriva sembra pervadere ogni cosa, dà consolazione agli animi irrequieti, agli occhi sempre spalancati, dà ristoro e protezione al viandante che non sa ancora di essere arrivato. Sentivo mio padre parlare, mia madre ascoltare in silenzio. “Bisogna aver pazienza, non è mai stato un ragazzo facile. Ora è inutile lamentarsi. Abbiamo avuto le nostre colpe, ma non è giusto che non perda occasione per rinfacciare tutto quello che lui pensa che abbiamo sbagliato o fatto male. “ “E che cosa avremmo fatto di così grave?” -  “Eh, lo sai bene” riprese mio padre “Lo abbiamo lasciato solo quando era un bambino. Tu avevi le tue fissazioni, le tue manie. Non si poteva muovere, non poteva neppure giocare per terra. Eravamo soli, isolati. Non avevamo amici, né parenti che potevano darci qualche consiglio, dirci: guardate che state sbagliando con questo bambino” -“Adesso sarà colpa mia se è venuto su così problematico!” – “La colpa semmai è di tutti e due. Quando era un bambino ero troppo distante, troppo impegnato, ricordi quanti posti di lavoro ho cambiato, allora. E’ vero che lo abbiamo lasciato troppo solo, ma quello che non mi va giù è che continui, ancora oggi, a rivangare nel passato, come se noi fossimo gli unici responsabili del suo malessere, del suo disagio.” – “Certo. E’ un po’ come se fossimo il capro espiatorio di tutte le sue delusioni. E sì che ce ne ha date tante di delusioni!” – “Beh, te l’ho detto, bisogna avere pazienza. E’ l’unico figlio che abbiamo, è vero che ha un carattere difficile, con noi fa sempre il prepotente, è sempre aggressivo, ma è sempre nostro figlio, non lo dimenticare neppure tu.” A questo punto mio padre si fermò e tacque a lungo. Anche mia madre smise di parlare, per un po’ ci fu un silenzio strano, come se i miei genitori si fossero accorti che io, dall’altra parte della porta, fossi lì ad ascoltare. Per una volta, decisi di non intervenire. In fondo, che cosa potevo aggiungere? Aveva ragione mio padre. Con tutti gli errori, le disattenzioni, gli svarioni di cui si sono macchiati, indubbiamente, non potevo proseguire con questo gioco dei sensi di colpa. Anche se fosse stato tutto vero, io avevo finito coll’approfittare di questa situazione, e avevo finito col trattare i miei genitori come i miei maggiordomi, o le mie governanti. Ne ero consapevole, ed ogni volta me lo rimproveravo, cercando di non ricadere più in questo gioco sinistro. Ma adesso volevo restare solo lì, sdraiato su quel letto, con le voci rassicuranti dei miei genitori che provenivano dalla stanza accanto. In fondo, con tutti i loro e i miei torti, potevo ancora assaporare il piacere di averli vicino, rassicuranti, protettivi, potevano darmi, almeno metaforicamente, quello che non mi avevano saputo trasmettere quando ero un bambino: la loro protezione, la loro tutela, il loro pronto aiuto. Ed ora, a 45 anni, potevo riaddormentarmi tranquillo, su quel letto, gustando il piacere del bambino che si addormenta piano cullato dal canto dolce e melodioso della mamma.
Il risveglio che seguì non fu altrettanto piacevole. Mi trovavo di nuovo in un letto, ma non era un letto qualsiasi. La prima cosa che provai fu un forte dolore nella zona lombosacrale. Cercai di sollevarmi, poggiando sui gomiti, mi guardai intorno, a destra e sinistra. Due paraventi a soffietto. Nell’oscurità circostante, spiccava una luce azzurrina d’emergenza, sempre accesa. Non ci volle molto a capire che ero in un ospedale. Ma cosa mi era successo? Avevo avuto un incidente di moto, un furgone aveva svoltato di colpo, e l’urto fu inevitabile, lasciando la moto per la strada, ed io, dopo un discreto volo, ero approdato sull’asfalto con il fondo schiena, rischiando la frattura del sacro. Mi avevano, per questo motivo, considerato l’impatto piuttosto violento sul selciato, trattenuto nell’osservazione breve dell’Ospedale dove era morto mio padre, morto ammazzato dall’incuria, l’ignavia, la sciatteria trascurata di un primario imbelle e colpevole. Questo pensiero non contribuì certo a tranquillizzarmi. Ritornai nella posizione supina, con cautela, dato il dolore ancora forte. Fuori, stava albeggiando. Le prime luci del giorno cominciavano a trapelare dalle veneziane abbassate, e i primi tramestii del personale che veniva a prendere servizio cominciarono a giungere alle mie orecchie. Un paio di inservienti, dietro ai carrelli delle pulizie, entrarono nel reparto: le prime luci orribili, al neon, si accesero strappandoci al tenue filo dell’indeterminatezza, del non finito e del non compiuto, illuminando con quella luce obitoriale, la nostra povera realtà di ammalati o bisognosi di cure. Mentre le due donne provvedevano svogliatamente a passare sui pavimenti un indefinibile panno che spostava la polvere invece che rimuoverla, la mia attenzione si soffermò sui miei vicini di letto. Nel letto alla mia sinistra non si avvertiva nulla, quasi fosse vuoto. Alla mia destra, un uomo si girava inquieto borbottando qualcosa che non riuscivo a cogliere. Quando le due meste presenze finirono la loro inutile opera di pulizia, entrò come un tornado una infermiera per controllare le nostre condizioni come si faceva al tempo del mio bisnonno: misurandoci la temperatura. Fortunatamente, l’orifizio prescelto dove introdurre il termometro fu quello orale in luogo di quello anale. Immediatamente, quando l’infermiera si accostò al paziente alla mia destra, questi le rovesciò addosso tutte le sue ansie e le sue preoccupazioni: “Guardi che devo assolutamente uscire, sono pasticcere, oggi devo assolutamente consegnare una fornitura per un matrimonio, è molto importante per il mio negozio” – “Ma caro signore”rispose l’infermiera “Possibile che nessuno la possa sostituire? Non possiamo lasciarla andare subito, aspettiamo l’esito dei controlli ematici e dell’ECG che le faremo tra poco. Guardi, con il cuore non si scherza.”  “Ma io mi sento bene, adesso. Senza di me non siamo in condizione di fare quella consegna. E’ molto importante.” – “Non decido io. Tenga presente che la sua salute, credo, sia più importante di una torta pasticcera”. Così lo congedò, tagliando corto, le pettoruta infermiera che accostandosi al mio letto mi fece presente che avrebbero effettuato un ultimo controllo delle orine, onde verificare l’assenza di una ematuria. Detto questo, passò oltre, facendo intuire che accanto a me, sul lato sinistro, non c’era nessuno. Ad un certo punto, il signore alla mia destra scostò la tenda del paravento per presentarsi e sfogarsi un poco anche con me. Vidi un uomo sui cinquant’anni, secco e rifinito, con un gran paio di baffi, e uno sguardo vacuo, smarrito. Mi spiegò che era il titolare di una pasticceria locale, che dei sottoposti non ci si poteva fidare troppo, la sua presenza era assolutamente necessaria e che quest’ordine doveva essere assolutamente evaso. Gli domandai cosa gli fosse successo. Mi rispose che la sera precedente, dopo cena , aveva accusato un malore, sembrava una banale crisi ipotensiva, ma era accompagnata da un preoccupante dolore toracico. In passato, e questo mi colpì, gli avevano già impiantato uno stent coronarico, e, da allora, come ovvio, doveva sottoporsi a controlli regolari. Ma ora si sentiva meglio, voleva, doveva potersene andare. Io rimasi un poco perplesso, cercando ugualmente di tranquillizzarlo. Venne una seconda infermiera, fece un prelievo al braccio del mio vicino, e  da me si fece consegnare una provetta con le mie orine. Il tempo passava, e col tempo si accresceva anche l’inquietudine del mio vicino. Ad un certo punto, verso le undici del mattino, non potè più fermarsi,  si alzò di colpo, infilandosi i pantaloni ripiegati sulla pediera del letto, e indossò la camicia e la maglia tirate fuori da un borsone accanto al suo letto. Io cercai di dissuaderlo, pregandolo di avere ancora un po’ di pazienza. Ma non volle sentire ragione. Mi colpì ancora una volta la sua innaturale magrezza, e non potei fare a meno di collegarla a quella di Massimo Troisi, la magrezza dell’ultimo film, quella che precedette la sua morte. Dopo essersi allacciato le scarpe, mosse i primi passi verso il corridoio, ma non fece in tempo a raggiungerlo perché cadde fulminato “come corpo morto cade”. Stramazzò al suolo come un animale abbattuto da un colpo di fucile che con precisione gli avesse trapassato il cervello. Balzai sul letto chiamando aiuto, ma capii subito che l’uomo che mi stava davanti, disteso a terra in una postura innaturale, era già morto. Arrivò un medico ed un paio di infermieri, lo adagiarono sul letto, richiudendo il paravento in modo che non potessi vedere. Dopo poco arrivò ancora qualcuno con un defibrillatore, ma le scosse elettriche che seguirono furono tutte vane, come avevo già compreso, la vita aveva già abbandonato quell’uomo. Constatato l’inevitabile, lo coprirono in fretta, e in fretta lo portarono via. Rimasi da solo, stupefatto e disorientato, solo nella stanza, ma invaso da una solitudine ben più profonda e amara, la solitudine che si prova davanti alla morte, davanti alle ultime cose, agli ultimi istanti, quella che hanno provato miliardi di uomini prima di me e che proverò io stesso, davanti al mio momento. L’enigma dell’abisso che ti si apre davanti, l’enigma di quello che ci aspetta, l’enigma della tomba. Restai così, con lo sguardo vacuo, attonito, pensando a quel’uomo che era morto per garantire la consegna di una torta nuziale, che non si era sicuramente risparmiato dopo il primo accidente, aggravando così le proprie condizioni e preparando l’infarto che lo avrebbe fulminato. Si leggeva nel suo sguardo triste e preoccupato una storia familiare di egoismi e di incomprensioni, di poco amore e poca pietà: un animale da soma che doveva garantire ai familiari lo stesso livello di agiatezza cui erano arrivati, continuando a far da solo, abituato a non chiedere aiuto più di tanto, la storia insomma,ancora una volta, di una disperata solitudine. Con quell’uomo che moriva per portare a termine una torta pasticcera, moriva dentro me stesso quel poco che restava di fiducia della possibilità da parte dell’uomo di collaborare con la grazia di Dio. Non c’è nessuna collaborazione, non siamo in grado di cooperare e di stringere la mano che Dio ci tende. La vita è troppo volgare ed egoista per consentirci questa possibilità. E’ solo Dio, per suo imperscrutabile giudizio, ad eleggere da sempre coloro che saranno salvati, che saranno gli eletti. La vita è una cosa troppo assurda, l’uomo un essere troppo ipocrita per meritare di rientrare, anche solo marginalmente, nel disegno divino.
E anche adesso mi torno a svegliare, ma sono qui, ora, a casa mia, mi dirigo verso il computer per scrivere queste righe. Sono ancora frastornato, non so neppure quanto tempo è durato il mio sonno, se poche ore o la notte intera. Ricordo vagamente come tutto ha avuto inizio. Mi trovavo invitato ad una cena da una cara amica, poi il vino e i racconti di un’altra invitata hanno fatto il resto. Da quel momento tutto si è fatto confuso ed indistinto. Che giorno è oggi? Quanto è durato il mio sonno ed il mio sogno? E questo mio essere qui, adesso, a casa mia, è davvero reale? E poi, sono solo a casa mia? Sì, sono solo. Cerco, nello studio, di raccogliere le idee. Certo, ho sognato a lungo, ma si trattava di sogni talmente vividi da apparire come reali. Passo in rassegna tutto quello che mi è accaduto in questi ultimi tempi, le cose più importanti, gli incontri salienti. Ripenso alla morte di mia madre, immersa nella follia, in un istituto della mia città che ne ha vilipeso la salma. Mi avevano promesso di comporla egregiamente, e invece, quando la vidi per il trasporto funebre, un triste spettacolo si offrì ai miei occhi: mia madre, sotto la luce impietosa e fredda del neon,  gialla e ridotta ad uno scricciolo, con addosso una camicia da notte (!) e i capelli scarmigliati che non avevano neppure visto il pettine. Da allora non mi sono più presentato in quell’istituto e se non gli ho fatto vedere i sorci verdi è stato solo perché nei quattro anni di permanenza presso quella struttura è stata trattata appena discretamente. Nei sogni che rivisito adesso con il pensiero, e che metto per iscritto in questo momento, mi rendo conto che mia madre non compare che marginalmente. Eppure si tratta della persona che mi ha condizionato maggiormente, la stessa persona che ha impresso alla mia vita una svolta, la più negativa. Mia madre, originaria di Napoli, nata da genitori avellinesi, perduto il padre all’età di 9 anni, lasciava la città natale insieme alla madre e altri parenti alla volta degli Stati Uniti. Genova doveva rappresentare semplicemente una tappa intermedia per l’imbarco alla volta degli States. Invece, inaspettatamente, mentre gli altri parenti si sarebbero imbarcati, mia nonna, una donna lucida ma divorata da vizio del gioco e dalle speculazioni sballate, decise di rimanere nella mia città. Mia nonna dilapidò l’intero patrimonio che le aveva lasciato il marito, e mia madre fu costretta, giovanissima, ad andare a “servizio”, come si diceva allora. Conobbe in una sala da ballo (eravamo nell’immediato dopoguerra) mio padre, che si lasciò abbacinare dalla bellezza fisica (solo fisica, peraltro) di mia madre, tralasciando tutto il resto. Si sposarono dopo un paio d’anni, e dopo altri due anni circa nacqui io, da questa unione sbilenca ed arrangiata. I miei genitori cambiarono diverse abitazioni, mia madre non aveva più alcun parente a Genova, sua madre era scomparsa nel frattempo, e mio padre aveva trovato il modo per chiudere i ponti con tutti i suoi parenti. Andarono avanti così, alla cieca, in una grande città, isolati, senza un’amicizia degna di nota. Anche i genitori di mio padre si erano sposati in età avanzata, ed erano morti entrambi. Mio padre, nei primi sei anni di vita, era lontano e distratto (aveva cambiato diversi posti di lavoro) ed io, in pratica, mi trovai in balia di una donna del tutto inadatta ad essere madre, probabilmente psicopatica, assediata da rituali ossessivo compulsivi, incapace totalmente di dare o trasmettere affetto. Ed io, da zero a sei anni, vissi una vita in sordina, come un pesce in un acquario, privo di rapporti umani, con coetanei o adulti, solo con quella sciagurata. Mio padre aveva avvertito solo una vaga sensazione che le cose non andassero per il verso giusto, ma, in assenza di qualcuno che lo consigliasse per il meglio, alla fine, lasciò che il dramma muto di cui ero protagonista, si consumasse sino in fondo. Dall’inizio della scuola elementare in poi le cose migliorarono, le relazioni con gli altri mi furono di grande aiuto, ma ormai, come qualsiasi neuropsichiatra infantile sa, il danno era compiuto. Quanto volte ho pensato: meglio nessuna madre che una pessima madre, e lo penso ancora adesso. Ma perché adesso mi tornano alla mente tutte queste cose? Forse perché nei quattro anni in cui mia madre è stata ospite dell’istituto che l’aveva in cura per una demenza senile, non le ho fatto sentire abbastanza la mia vicinanza? Forse, non saprei dirlo. Nella vita di ciascuno di noi c’è sempre qualcosa di irrisolto, qualche nodo da sciogliere, qualche conflitto aperto. La conclusione di questa “fantasticheria”, questa carrellata di sogni ad occhi aperti, non poteva che essere una dialogo con la madre scomparsa. Solo che questo dialogo non c’è mai stato, neppure quando siamo rimasti soli io e lei. La sua mente era ormai irrimediabilmente compromessa, e le vie di trasmissione definitivamente interrotte. E anche adesso, che lei non c’è più, non riesco a dare un senso alle mie parole, e non riesco più a parlare con lei, una madre sbagliata, una madre inesistente. Per molto tempo ho cercato nelle donne che mi circondavano ed anche con quelle con le quali ho intrattenuto rapporti sentimentali, una forma di compensazione, quelle qualità tutoriali e di supporto che surrogavano la madre assente, ma adesso non più. Ora ho finalmente scoperto il bimbo che è in me e che per tanto tempo io stesso ho trascurato, è vivo e reale, ha dei bisogni concreti che cerco di soddisfare, nei limiti del possibile. Lo lascio parlare, lo lascio piangere, qualche volta disperare (e allora sto male con tutto me stesso), ma come si conviene con ogni bambino, non posso assecondarlo in tutto, devo stabilire delle regole. Ma sono qui, tutti i giorni e tutte le notti, lo tengo con me, lo ascolto e lo consolo, ma soprattutto lo rassicuro: io non me ne andrò, non lo abbandonerò più, ci sarò sempre per lui. Continueremo soli, ma insieme, finchè non moriremo entrambi, tristemente, certo, non circondati dall’affetto di una famiglia (che non c’è più) ma non saremo soli perché io avrò cura di lui. Quanti anni ci sono voluti affinchè comprendessi una realtà così evidente, quanto tempo, quante fatiche, e quante sconfitte. Povero bambino mio, abbandonato, trascurato, non amato, lasciato sempre solo ad ingoiare le proprie lacrime, a consumare il tempo in una solitudine acre e disperata, immerso in un tempo privo di futuro, in ore che non passavano mai, preso a calci, buttato via come si butta un giocattolo rotto, reso invisibile da due adulti duri, con poca pietà e poco amore, chiusi nei rispettivi egoismi, mai ascoltato perché le sue parole cadevano solo nel vuoto o creavano irritazione, apostrofato solo per sgridarlo, muto, per la paura di dire qualcosa di sbagliato, chiuso nella gabbia come un uccellino infelice, o come uno scoiattolo destinato a percorrere per sempre la stessa ruota. “Ma adesso non è più così: in qua e in là circola l’aria; e in mezzo il mondo intero risplende come se fosse di vetro”. 

Si conclude così, con la terza parte, il racconto, o meglio, la novella “Fantasticheria”, il cui titolo è ispirato all’omonima novella di Giovanni Verga che apre la raccolta “Vita dei campi”. Trattandosi di un unico racconto, suddiviso in tre parti perché scritte in momenti diversi, andrebbe letto tutto insieme: le tre parti sono a loro volta suddivise in tre quadri distinti, con una conclusione, drammatica, dedicata al dialogo mai avvenuto con la Madre. Credo sia da considerarsi una novella, secondo l’etimologia latina (narrazione di cose nuove, sorprendenti, fantastiche)e mi auguro, come sempre, di essere stato all’altezza del giudizio dei miei gentili lettori. Un’ultima precisazione: i fatti raccontati sono reali, ad alcuni di essi sono state apportate alcune modifiche per esigenze narrative.