lunedì 2 maggio 2011

FANTASTICHERIA

Mi trovavo a casa di una amica, qualche sera fa, invitato a cena, era presente anche un’altra invitata, un medico bravissimo ed una brillante conversatrice. Ad un certo punto, ma il ricordo si fa un po’ indistinto per il troppo vino bevuto, il medico comincia a raccontare di un suo viaggio in Cambogia, risalente a qualche anno fa. Si trovavano, lei e il suo gruppo, presso il villaggio che funziona da base per la visita della mitica Angkor Vat, la città favolosa dei khmer. Cenavano al crepuscolo, sotto una veranda, la luce calda ammorbidiva anime e profili, un senso di languore, dolce e malinconico, si era impadronito dei presenti. Un’orchestrina, da dentro il locale suonava in sordina musiche orientali, tipiche del luogo. Gli astanti chiacchieravano del più e del meno, quando, all’improvviso, qualcosa incuriosì il medico di cui parlavo, e attirò la sua attenzione. I suonatori stavano eseguendo una canzone, una canzone che aveva qualcosa di familiare, era una musica occidentale. Ascoltando meglio, il medico si accorse che si trattava di una melodia a lei ben nota, perché era la canzone dei suoi genitori, la canzone che aveva accompagnato il loro matrimonio. Sì, era proprio così, i suonatori cambogiani stavano eseguendo “Passione” la famosa canzone napoletana. Sempre più incuriosita, il medico si mosse verso l’orchestrina per domandare cosa ci facesse una canzone simile in mezzo alle loro musiche tradizionali. I suonatori le mostrarono gli spartiti: in effetti, in mezzo agli altri, c’era anche quello di “Passione”, senza titolo né autore, capitato lì Dio solo sa come. La cosa, inutile dirlo, turbò non poco il medico, arrivato in quell’angolo del mondo ad ascoltare la canzone dei propri genitori. Quella sera la cena continuò normalmente, continuammo a conversare, a gustare le prelibatezze preparate dalla padrona di casa e a bere un ottimo Chianti. Quando uscii, verso la mezzanotte, la testa mi girava un poco, e i miei pensieri erano leggermente annebbiati. Una volta giunto a casa, mi coricai quasi subito, data l’ora, ma non riuscii a prendere sonno. Continuavo a ripensare a quel tramonto sul Mekong, all’orchestrina che suonava, così lontana, una canzone così familiare…Girando e rigirandomi nel letto mi rivedo seduto sull’orlo di una fontana,  tra gli spruzzi d’acqua argentina e le azzurre ninfee profumate: accanto a me, seduti attorno ad un tavolino, nella luce che filtrava dai rami di un ciliegio, quattro colleghi del mio essere di allora. I quattro parlavano sottovoce fra di loro, come se non si accorgessero della mia presenza. Dai loro bisbigli riuscivo a comprendere solo qualche frase qua e là, a intervalli irregolari: parlavano di me, non c’era dubbio, come se non fossi lì con loro. Ad un certo punto uno di loro, il più anziano, con uno strano borsalino in testa e un sigaro tra le labbra, diceva che non ci si poteva fidare di me, una persona che voleva piacere a tutti, uno che cercava negli altri solo conferme per rintuzzare il suo narcisismo. La signora seduta accanto al fumatore di sigaro rispose che parlavo troppo, non ci si poteva confidare con me, avrei spiattellato tutto il giorno dopo, tale era la mia smania di protagonismo, ero loquace fino al maldicenza. Stavo per reagire, mi alzai dal bordo della fontana, ma nel cercare di raggiungere i quattro al tavolino, inciampai, non so come, nella radice di una pianta, un limone che nella penombra non avevo visto. Caddi in avanti, probabilmente battendo il capo, perché persi i sensi e mi sentii sprofondare in un pozzo nero e profondo. Ripresi i sensi, dopo un tempo non misurabile, ritrovai una fontana, sulla quale mi stavo sporgendo per lavarmi le mani. Ma non era la fontana di prima, ero vestito da motociclista, la fontanella si trovava di fronte ad un camposanto, vicino a me stava il mio migliore amico, l’amico d’infanzia, appoggiato ad una moto di grossa cilindrata, mentre stata discorrendo con la sua fidanzata. Il cimitero, lo riconobbi, era quello di Chiavenna, in provincia di Sondrio, vi era sepolto il nostro professore di Italiano delle superiori, una persona speciale, un gentiluomo d’altri tempi, dai gusti raffinati e dai modi garbati. Aveva notato che in me e nel mio amico erano custoditi i semi di un sapere antico, che si sarebbe sviluppato, si sarebbe accresciuto se solo qualcuno, qualcuno come lui, lo avesse incoraggiato, lo avesse nutrito con l’amore del padre che vede formarsi la sua creatura. Fu una persona importante, per tutti e due. Morì, come tutti si muore, nel giro di pochi mesi, per una malattia che non perdona, lasciò un vuoto che ci ferì fino alle lacrime. Ma cosa ci faceva, adesso, la sua fidanzata? E che stavano dicendo? Stava parlando lei, lui ascoltava. Non capivo bene, erano un poco distanti da me, nonostante il fatto che eravamo soli nel piazzale davanti al cimitero. Ma credo che lei stesse parlando di me. Lei diceva che ero solo invidioso, non ero in grado di capire le scelte del mio amico, m faceva soffrire il fatto che lui avesse trovato il vero amore, ed io preda della mia vanità e della mia fatuità, non ero riuscito a raccogliere niente di stabile o di duraturo, avevo solo perso il mio tempo svolazzando di fiore in fiore, cadendo nell’inconcludenza. Lui taceva, annuendo, mentre lei lo incalzava, non ero un buon amico per lui, non lo avevo mai compreso, non ero capace di ascoltare gli altri, le parole servivano solo a me, e adesso, che loro si trovavano ad un passo dal matrimonio, non potevo che essere geloso della sua felicità. Io cercai di intervenire, di dirle che non era vero niente, non ero mai stato invidioso di un amico, che le sue parole erano il frutto di una fantasia contorta, ma, nell’avvicinarmi alla coppia, uno sparo, come uno schianto, echeggiò per tutta la valle, lacerando il silenzio del meriggio sonnecchioso, uno squarcio si aprì nel mio petto, trapassando la tuta da motociclista che indossavo, aprendo una ferita dalla quale il sangue sgorgò come dalla fontana, nella quale caddi, di schiena, subito prima di perdere i sensi. Vidi il rosso del mio sangue tramutarsi in cremisi mescolandosi all’acqua della fontana, lo sentii gorgogliare dalla ferita e poi… più nulla. Mi risvegliai sdraiato su un divano, in una stanza al buio, al di là della porta accostata si udiva una musica assai in voga negli anni settanta, e diverse persone, probabilmente ragazzi e ragazze ridere e scherzare. Avevo la testa pesante, e sentivo una gran febbre percorrere il mio corpo. Mi alzai a fatica, e aprendo uno scuro della finestra, gettai uno sguardo al di là del vetro: potevo scorgere un paesaggio familiare, si trattava di Mura degli Angeli, un quartiere dove risiedeva la maggior parte dei ragazzi che componevano la mia compagnia di allora. Riconobbi anche la stanza: l’appartamento era quello di una nostra buona amica, una sedicenne come noi, che aveva messo a disposizione la sua casa per una festa tra amici. Ma perché quella febbre, cosa facevo da solo in quella stanza? Piano piano cominciai a ricordare. Era la prima volta che mi trovavo a tu per tu con una ragazza vera, una ragazza bellissima, la più bella della compagnia. Ero assai inesperto, intimidito dalla sua avvenenza e dalla sua intraprendenza. Quel pomeriggio, quando cominciarono i balli lenti, lei mi prescelse, per non lasciarmi più. I nostri corpi si sfioravano, poi si toccarono, potevo sentire le sue forme, aderenti al mio corpo legnoso. Un’emozione invincibile mi padroneggiò: le sue labbra si accostavano alle mie, mi baciò a lungo, nella penombra, in mezzo alle altre coppie che ballavano. Quei baci risuonano ancora oggi nella mia memoria, come schiocchi di una frusta, percorrono la mia schiena, dandomi dei brividi di trepidazione. Quella sera, l’emozione mi vinse a tal punto, che mi salì un febbrone da cavallo, e la padrona di casa, guardandomi preoccupata, prima mi fece stendere sul divano, poi telefonò a mio padre perché mi venisse a prendere. Ecco cosa facevo da solo, sdraiato su quel divano. Mi accostai piano alla porta, ancora socchiusa, la musica si andava spegnendo, i ragazzi chiacchieravano sorseggiando un bicchiere o seduti sulle poltrone della vasta sala messa a disposizione dalla nostra buona amica. Potevo udire le parole che diceva una coppia in piedi, appoggiata alla parete accanto alla porta della mia stanza. Non distinguevo bene le parole, ma feci presto a comprendere che si parlava di me. Lui, un mio buon amico, diceva che ero un tipo ambiguo, mi interessavo troppo di politica, giocavo a fare l’intellettuale, ma al contempo frequentavo compagnie poco raccomandabili, rincasando spesso ubriaco, la sera. Lei mi difese, replicando che mi trovava intelligente e sensibile, un po’ timido forse, ma le piaceva come parlavo. Ma lui insistette: meglio non fidarsi, avevo preso a frequentare quei gruppuscoli extraparlamentari, giocavo a fare il marxista, ma poi le mie buone maniere e  le mie frequentazioni denunciavano la mia estrazione borghese, la mia ipocrisia di fondo,  in palese contrasto con le idee che credevo di professare. Poi, una voce richiamò la ragazza, che si allontanò in fretta, e la conversazione cessò. Nella mia testa c’era una gran confusione, me la sentivo come imbottita di piombo, fui costretto a sdraiarmi nuovamente, nell’attesa che venisse mio padre. Ripensai alla ragazza che mi aveva appena baciato: era davvero accaduto? Veramente, fra i tanti aveva scelto me, così timido ed impacciato? Sfioravo col pensiero quei momenti sublimi, il sapore di quei baci, il suo indimenticabile profumo di donna…L’ho ancora nella narici, ancora in bocca sento il sapore delle sue labbra. Era inevitabile per me essere travolta da quell’emozione febbrile. Mio padre arrivò infine, in macchina mi guardava incuriosito e preoccupato, io tremavo come una foglia, e mentre l’auto accompagnava piano le curve, mi sentivo scivolare in un sonno cui non volevo cadere. Lottai disperatamente per non dormire, volevo ricordare i seni, la vita di quella ragazza, l’odore dei suoi capelli, il profumo delle sue labbra…Aderire al suo corpo mi aveva fatto ribollire il sangue, mi aveva dato il capogiro, una vertigine mi diede la delicata linea del suo splendido collo. Lottavo, volevo giocare con la memoria, ma il sonno alla fine mi vinse, mi strappò all’illusione di quelle visioni, mi domandai e mi domando anche adesso dove mi sarei risvegliato, e soprattutto cosa mi avrebbe aspettato.  (Continua)