mercoledì 11 maggio 2011

FANTASTICHERIA (parte terza)

E mi risvegliai, come volle Iddio, dopo un tempo immemorabile, mi risvegliai sdraiato su di un letto, in pieno giorno. Aprii gli occhi a stento, la stanza era illuminata a giorno, da un sole pieno che la investiva. Dove mi trovavo? Mi guardai attorno. Mi trovavo in una camera da letto che aveva qualcosa di familiare. La finestra che avevo davanti a me affacciava su di un giardino inondato di sole, vedevo i rami di un castagno che si stagliavano su di un cielo talmente azzurro da essere turchino. Era la casa di campagna, l’appartamento dell’entroterra ligure che i miei genitori utilizzavano per passarvi l’estate, e dove tante volte mi ero fermato per riposare, riprendere fiato, rifocillarmi, dormire al fresco tra i canti delle cicale, e, soprattutto, stare un poco con i miei genitori, per quel senso di protezione che ancora per un poco potevano darmi. Una volta compreso tutto questo, mi riadagiai sul letto, vestito di tutto punto, la testa poggiata sul cuscino, sentivo  le voci dei miei genitori provenire dalla stanza accanto. C’era una veranda che potevo scorgere dalla finestra, un tavolo da giardino e quattro sedie, sulle quali avevo portato a temine qualche lettura, al riparo dai raggi del sole, o al fresco della sera, quando i profumi dell’erba e dei fiori si esalano intensi ed inebrianti, e il senso del tempo che scorre e dell’avvicendarsi delle stagioni sembra arrestarsi come per incanto, tutto sembra immobile, negli attimi che precedono il tramonto, quando la luce del crepuscolo è così dolce e malinconica da smuovere anche gli animi più insensibili, la pace della sera che arriva sembra pervadere ogni cosa, dà consolazione agli animi irrequieti, agli occhi sempre spalancati, dà ristoro e protezione al viandante che non sa ancora di essere arrivato. Sentivo mio padre parlare, mia madre ascoltare in silenzio. “Bisogna aver pazienza, non è mai stato un ragazzo facile. Ora è inutile lamentarsi. Abbiamo avuto le nostre colpe, ma non è giusto che non perda occasione per rinfacciare tutto quello che lui pensa che abbiamo sbagliato o fatto male. “ “E che cosa avremmo fatto di così grave?” -  “Eh, lo sai bene” riprese mio padre “Lo abbiamo lasciato solo quando era un bambino. Tu avevi le tue fissazioni, le tue manie. Non si poteva muovere, non poteva neppure giocare per terra. Eravamo soli, isolati. Non avevamo amici, né parenti che potevano darci qualche consiglio, dirci: guardate che state sbagliando con questo bambino” -“Adesso sarà colpa mia se è venuto su così problematico!” – “La colpa semmai è di tutti e due. Quando era un bambino ero troppo distante, troppo impegnato, ricordi quanti posti di lavoro ho cambiato, allora. E’ vero che lo abbiamo lasciato troppo solo, ma quello che non mi va giù è che continui, ancora oggi, a rivangare nel passato, come se noi fossimo gli unici responsabili del suo malessere, del suo disagio.” – “Certo. E’ un po’ come se fossimo il capro espiatorio di tutte le sue delusioni. E sì che ce ne ha date tante di delusioni!” – “Beh, te l’ho detto, bisogna avere pazienza. E’ l’unico figlio che abbiamo, è vero che ha un carattere difficile, con noi fa sempre il prepotente, è sempre aggressivo, ma è sempre nostro figlio, non lo dimenticare neppure tu.” A questo punto mio padre si fermò e tacque a lungo. Anche mia madre smise di parlare, per un po’ ci fu un silenzio strano, come se i miei genitori si fossero accorti che io, dall’altra parte della porta, fossi lì ad ascoltare. Per una volta, decisi di non intervenire. In fondo, che cosa potevo aggiungere? Aveva ragione mio padre. Con tutti gli errori, le disattenzioni, gli svarioni di cui si sono macchiati, indubbiamente, non potevo proseguire con questo gioco dei sensi di colpa. Anche se fosse stato tutto vero, io avevo finito coll’approfittare di questa situazione, e avevo finito col trattare i miei genitori come i miei maggiordomi, o le mie governanti. Ne ero consapevole, ed ogni volta me lo rimproveravo, cercando di non ricadere più in questo gioco sinistro. Ma adesso volevo restare solo lì, sdraiato su quel letto, con le voci rassicuranti dei miei genitori che provenivano dalla stanza accanto. In fondo, con tutti i loro e i miei torti, potevo ancora assaporare il piacere di averli vicino, rassicuranti, protettivi, potevano darmi, almeno metaforicamente, quello che non mi avevano saputo trasmettere quando ero un bambino: la loro protezione, la loro tutela, il loro pronto aiuto. Ed ora, a 45 anni, potevo riaddormentarmi tranquillo, su quel letto, gustando il piacere del bambino che si addormenta piano cullato dal canto dolce e melodioso della mamma.
Il risveglio che seguì non fu altrettanto piacevole. Mi trovavo di nuovo in un letto, ma non era un letto qualsiasi. La prima cosa che provai fu un forte dolore nella zona lombosacrale. Cercai di sollevarmi, poggiando sui gomiti, mi guardai intorno, a destra e sinistra. Due paraventi a soffietto. Nell’oscurità circostante, spiccava una luce azzurrina d’emergenza, sempre accesa. Non ci volle molto a capire che ero in un ospedale. Ma cosa mi era successo? Avevo avuto un incidente di moto, un furgone aveva svoltato di colpo, e l’urto fu inevitabile, lasciando la moto per la strada, ed io, dopo un discreto volo, ero approdato sull’asfalto con il fondo schiena, rischiando la frattura del sacro. Mi avevano, per questo motivo, considerato l’impatto piuttosto violento sul selciato, trattenuto nell’osservazione breve dell’Ospedale dove era morto mio padre, morto ammazzato dall’incuria, l’ignavia, la sciatteria trascurata di un primario imbelle e colpevole. Questo pensiero non contribuì certo a tranquillizzarmi. Ritornai nella posizione supina, con cautela, dato il dolore ancora forte. Fuori, stava albeggiando. Le prime luci del giorno cominciavano a trapelare dalle veneziane abbassate, e i primi tramestii del personale che veniva a prendere servizio cominciarono a giungere alle mie orecchie. Un paio di inservienti, dietro ai carrelli delle pulizie, entrarono nel reparto: le prime luci orribili, al neon, si accesero strappandoci al tenue filo dell’indeterminatezza, del non finito e del non compiuto, illuminando con quella luce obitoriale, la nostra povera realtà di ammalati o bisognosi di cure. Mentre le due donne provvedevano svogliatamente a passare sui pavimenti un indefinibile panno che spostava la polvere invece che rimuoverla, la mia attenzione si soffermò sui miei vicini di letto. Nel letto alla mia sinistra non si avvertiva nulla, quasi fosse vuoto. Alla mia destra, un uomo si girava inquieto borbottando qualcosa che non riuscivo a cogliere. Quando le due meste presenze finirono la loro inutile opera di pulizia, entrò come un tornado una infermiera per controllare le nostre condizioni come si faceva al tempo del mio bisnonno: misurandoci la temperatura. Fortunatamente, l’orifizio prescelto dove introdurre il termometro fu quello orale in luogo di quello anale. Immediatamente, quando l’infermiera si accostò al paziente alla mia destra, questi le rovesciò addosso tutte le sue ansie e le sue preoccupazioni: “Guardi che devo assolutamente uscire, sono pasticcere, oggi devo assolutamente consegnare una fornitura per un matrimonio, è molto importante per il mio negozio” – “Ma caro signore”rispose l’infermiera “Possibile che nessuno la possa sostituire? Non possiamo lasciarla andare subito, aspettiamo l’esito dei controlli ematici e dell’ECG che le faremo tra poco. Guardi, con il cuore non si scherza.”  “Ma io mi sento bene, adesso. Senza di me non siamo in condizione di fare quella consegna. E’ molto importante.” – “Non decido io. Tenga presente che la sua salute, credo, sia più importante di una torta pasticcera”. Così lo congedò, tagliando corto, le pettoruta infermiera che accostandosi al mio letto mi fece presente che avrebbero effettuato un ultimo controllo delle orine, onde verificare l’assenza di una ematuria. Detto questo, passò oltre, facendo intuire che accanto a me, sul lato sinistro, non c’era nessuno. Ad un certo punto, il signore alla mia destra scostò la tenda del paravento per presentarsi e sfogarsi un poco anche con me. Vidi un uomo sui cinquant’anni, secco e rifinito, con un gran paio di baffi, e uno sguardo vacuo, smarrito. Mi spiegò che era il titolare di una pasticceria locale, che dei sottoposti non ci si poteva fidare troppo, la sua presenza era assolutamente necessaria e che quest’ordine doveva essere assolutamente evaso. Gli domandai cosa gli fosse successo. Mi rispose che la sera precedente, dopo cena , aveva accusato un malore, sembrava una banale crisi ipotensiva, ma era accompagnata da un preoccupante dolore toracico. In passato, e questo mi colpì, gli avevano già impiantato uno stent coronarico, e, da allora, come ovvio, doveva sottoporsi a controlli regolari. Ma ora si sentiva meglio, voleva, doveva potersene andare. Io rimasi un poco perplesso, cercando ugualmente di tranquillizzarlo. Venne una seconda infermiera, fece un prelievo al braccio del mio vicino, e  da me si fece consegnare una provetta con le mie orine. Il tempo passava, e col tempo si accresceva anche l’inquietudine del mio vicino. Ad un certo punto, verso le undici del mattino, non potè più fermarsi,  si alzò di colpo, infilandosi i pantaloni ripiegati sulla pediera del letto, e indossò la camicia e la maglia tirate fuori da un borsone accanto al suo letto. Io cercai di dissuaderlo, pregandolo di avere ancora un po’ di pazienza. Ma non volle sentire ragione. Mi colpì ancora una volta la sua innaturale magrezza, e non potei fare a meno di collegarla a quella di Massimo Troisi, la magrezza dell’ultimo film, quella che precedette la sua morte. Dopo essersi allacciato le scarpe, mosse i primi passi verso il corridoio, ma non fece in tempo a raggiungerlo perché cadde fulminato “come corpo morto cade”. Stramazzò al suolo come un animale abbattuto da un colpo di fucile che con precisione gli avesse trapassato il cervello. Balzai sul letto chiamando aiuto, ma capii subito che l’uomo che mi stava davanti, disteso a terra in una postura innaturale, era già morto. Arrivò un medico ed un paio di infermieri, lo adagiarono sul letto, richiudendo il paravento in modo che non potessi vedere. Dopo poco arrivò ancora qualcuno con un defibrillatore, ma le scosse elettriche che seguirono furono tutte vane, come avevo già compreso, la vita aveva già abbandonato quell’uomo. Constatato l’inevitabile, lo coprirono in fretta, e in fretta lo portarono via. Rimasi da solo, stupefatto e disorientato, solo nella stanza, ma invaso da una solitudine ben più profonda e amara, la solitudine che si prova davanti alla morte, davanti alle ultime cose, agli ultimi istanti, quella che hanno provato miliardi di uomini prima di me e che proverò io stesso, davanti al mio momento. L’enigma dell’abisso che ti si apre davanti, l’enigma di quello che ci aspetta, l’enigma della tomba. Restai così, con lo sguardo vacuo, attonito, pensando a quel’uomo che era morto per garantire la consegna di una torta nuziale, che non si era sicuramente risparmiato dopo il primo accidente, aggravando così le proprie condizioni e preparando l’infarto che lo avrebbe fulminato. Si leggeva nel suo sguardo triste e preoccupato una storia familiare di egoismi e di incomprensioni, di poco amore e poca pietà: un animale da soma che doveva garantire ai familiari lo stesso livello di agiatezza cui erano arrivati, continuando a far da solo, abituato a non chiedere aiuto più di tanto, la storia insomma,ancora una volta, di una disperata solitudine. Con quell’uomo che moriva per portare a termine una torta pasticcera, moriva dentro me stesso quel poco che restava di fiducia della possibilità da parte dell’uomo di collaborare con la grazia di Dio. Non c’è nessuna collaborazione, non siamo in grado di cooperare e di stringere la mano che Dio ci tende. La vita è troppo volgare ed egoista per consentirci questa possibilità. E’ solo Dio, per suo imperscrutabile giudizio, ad eleggere da sempre coloro che saranno salvati, che saranno gli eletti. La vita è una cosa troppo assurda, l’uomo un essere troppo ipocrita per meritare di rientrare, anche solo marginalmente, nel disegno divino.
E anche adesso mi torno a svegliare, ma sono qui, ora, a casa mia, mi dirigo verso il computer per scrivere queste righe. Sono ancora frastornato, non so neppure quanto tempo è durato il mio sonno, se poche ore o la notte intera. Ricordo vagamente come tutto ha avuto inizio. Mi trovavo invitato ad una cena da una cara amica, poi il vino e i racconti di un’altra invitata hanno fatto il resto. Da quel momento tutto si è fatto confuso ed indistinto. Che giorno è oggi? Quanto è durato il mio sonno ed il mio sogno? E questo mio essere qui, adesso, a casa mia, è davvero reale? E poi, sono solo a casa mia? Sì, sono solo. Cerco, nello studio, di raccogliere le idee. Certo, ho sognato a lungo, ma si trattava di sogni talmente vividi da apparire come reali. Passo in rassegna tutto quello che mi è accaduto in questi ultimi tempi, le cose più importanti, gli incontri salienti. Ripenso alla morte di mia madre, immersa nella follia, in un istituto della mia città che ne ha vilipeso la salma. Mi avevano promesso di comporla egregiamente, e invece, quando la vidi per il trasporto funebre, un triste spettacolo si offrì ai miei occhi: mia madre, sotto la luce impietosa e fredda del neon,  gialla e ridotta ad uno scricciolo, con addosso una camicia da notte (!) e i capelli scarmigliati che non avevano neppure visto il pettine. Da allora non mi sono più presentato in quell’istituto e se non gli ho fatto vedere i sorci verdi è stato solo perché nei quattro anni di permanenza presso quella struttura è stata trattata appena discretamente. Nei sogni che rivisito adesso con il pensiero, e che metto per iscritto in questo momento, mi rendo conto che mia madre non compare che marginalmente. Eppure si tratta della persona che mi ha condizionato maggiormente, la stessa persona che ha impresso alla mia vita una svolta, la più negativa. Mia madre, originaria di Napoli, nata da genitori avellinesi, perduto il padre all’età di 9 anni, lasciava la città natale insieme alla madre e altri parenti alla volta degli Stati Uniti. Genova doveva rappresentare semplicemente una tappa intermedia per l’imbarco alla volta degli States. Invece, inaspettatamente, mentre gli altri parenti si sarebbero imbarcati, mia nonna, una donna lucida ma divorata da vizio del gioco e dalle speculazioni sballate, decise di rimanere nella mia città. Mia nonna dilapidò l’intero patrimonio che le aveva lasciato il marito, e mia madre fu costretta, giovanissima, ad andare a “servizio”, come si diceva allora. Conobbe in una sala da ballo (eravamo nell’immediato dopoguerra) mio padre, che si lasciò abbacinare dalla bellezza fisica (solo fisica, peraltro) di mia madre, tralasciando tutto il resto. Si sposarono dopo un paio d’anni, e dopo altri due anni circa nacqui io, da questa unione sbilenca ed arrangiata. I miei genitori cambiarono diverse abitazioni, mia madre non aveva più alcun parente a Genova, sua madre era scomparsa nel frattempo, e mio padre aveva trovato il modo per chiudere i ponti con tutti i suoi parenti. Andarono avanti così, alla cieca, in una grande città, isolati, senza un’amicizia degna di nota. Anche i genitori di mio padre si erano sposati in età avanzata, ed erano morti entrambi. Mio padre, nei primi sei anni di vita, era lontano e distratto (aveva cambiato diversi posti di lavoro) ed io, in pratica, mi trovai in balia di una donna del tutto inadatta ad essere madre, probabilmente psicopatica, assediata da rituali ossessivo compulsivi, incapace totalmente di dare o trasmettere affetto. Ed io, da zero a sei anni, vissi una vita in sordina, come un pesce in un acquario, privo di rapporti umani, con coetanei o adulti, solo con quella sciagurata. Mio padre aveva avvertito solo una vaga sensazione che le cose non andassero per il verso giusto, ma, in assenza di qualcuno che lo consigliasse per il meglio, alla fine, lasciò che il dramma muto di cui ero protagonista, si consumasse sino in fondo. Dall’inizio della scuola elementare in poi le cose migliorarono, le relazioni con gli altri mi furono di grande aiuto, ma ormai, come qualsiasi neuropsichiatra infantile sa, il danno era compiuto. Quanto volte ho pensato: meglio nessuna madre che una pessima madre, e lo penso ancora adesso. Ma perché adesso mi tornano alla mente tutte queste cose? Forse perché nei quattro anni in cui mia madre è stata ospite dell’istituto che l’aveva in cura per una demenza senile, non le ho fatto sentire abbastanza la mia vicinanza? Forse, non saprei dirlo. Nella vita di ciascuno di noi c’è sempre qualcosa di irrisolto, qualche nodo da sciogliere, qualche conflitto aperto. La conclusione di questa “fantasticheria”, questa carrellata di sogni ad occhi aperti, non poteva che essere una dialogo con la madre scomparsa. Solo che questo dialogo non c’è mai stato, neppure quando siamo rimasti soli io e lei. La sua mente era ormai irrimediabilmente compromessa, e le vie di trasmissione definitivamente interrotte. E anche adesso, che lei non c’è più, non riesco a dare un senso alle mie parole, e non riesco più a parlare con lei, una madre sbagliata, una madre inesistente. Per molto tempo ho cercato nelle donne che mi circondavano ed anche con quelle con le quali ho intrattenuto rapporti sentimentali, una forma di compensazione, quelle qualità tutoriali e di supporto che surrogavano la madre assente, ma adesso non più. Ora ho finalmente scoperto il bimbo che è in me e che per tanto tempo io stesso ho trascurato, è vivo e reale, ha dei bisogni concreti che cerco di soddisfare, nei limiti del possibile. Lo lascio parlare, lo lascio piangere, qualche volta disperare (e allora sto male con tutto me stesso), ma come si conviene con ogni bambino, non posso assecondarlo in tutto, devo stabilire delle regole. Ma sono qui, tutti i giorni e tutte le notti, lo tengo con me, lo ascolto e lo consolo, ma soprattutto lo rassicuro: io non me ne andrò, non lo abbandonerò più, ci sarò sempre per lui. Continueremo soli, ma insieme, finchè non moriremo entrambi, tristemente, certo, non circondati dall’affetto di una famiglia (che non c’è più) ma non saremo soli perché io avrò cura di lui. Quanti anni ci sono voluti affinchè comprendessi una realtà così evidente, quanto tempo, quante fatiche, e quante sconfitte. Povero bambino mio, abbandonato, trascurato, non amato, lasciato sempre solo ad ingoiare le proprie lacrime, a consumare il tempo in una solitudine acre e disperata, immerso in un tempo privo di futuro, in ore che non passavano mai, preso a calci, buttato via come si butta un giocattolo rotto, reso invisibile da due adulti duri, con poca pietà e poco amore, chiusi nei rispettivi egoismi, mai ascoltato perché le sue parole cadevano solo nel vuoto o creavano irritazione, apostrofato solo per sgridarlo, muto, per la paura di dire qualcosa di sbagliato, chiuso nella gabbia come un uccellino infelice, o come uno scoiattolo destinato a percorrere per sempre la stessa ruota. “Ma adesso non è più così: in qua e in là circola l’aria; e in mezzo il mondo intero risplende come se fosse di vetro”. 

Si conclude così, con la terza parte, il racconto, o meglio, la novella “Fantasticheria”, il cui titolo è ispirato all’omonima novella di Giovanni Verga che apre la raccolta “Vita dei campi”. Trattandosi di un unico racconto, suddiviso in tre parti perché scritte in momenti diversi, andrebbe letto tutto insieme: le tre parti sono a loro volta suddivise in tre quadri distinti, con una conclusione, drammatica, dedicata al dialogo mai avvenuto con la Madre. Credo sia da considerarsi una novella, secondo l’etimologia latina (narrazione di cose nuove, sorprendenti, fantastiche)e mi auguro, come sempre, di essere stato all’altezza del giudizio dei miei gentili lettori. Un’ultima precisazione: i fatti raccontati sono reali, ad alcuni di essi sono state apportate alcune modifiche per esigenze narrative.