domenica 26 settembre 2010

MORTE DI UNA MADRE


Non è un fatto pubblico, è, anzi, uno dei più privati dell’esistenza, e non dovrebbe trovare spazio in un blog su internet, ma questa volta decido di fare un’eccezione, e di pubblicare qualcosa di intimo e difficilmente comunicabile. Da quattro anni mia madre, dopo la morte di mio padre, è ospite di una casa di riposo. E’ stato un lento accostasi all’evento che ora avrà luogo, verrebbe da dire, finalmente. Non è mai stata una buona madre. Da sempre la ricordo come una paziente psichiatrica, cui, in epoca più recente, è subentrata una forma di demenza senile. Non è stata una buona madre, o meglio, è stata una pessima madre, non per sua colpa, non si sceglie di ammalarsi. Forse non avrebbe dovuto sposarsi, forse non avrebbe dovuto avere figli, ma ormai il danno è stato fatto e non si può più tornare indietro. Però, adesso che sta morendo, non riesco a non avere compassione per lei e per me stesso, che sono, malgrado tutto suo figlio. Compassione perché lei si sta spegnendo lentamente e pietà di me che rimango solo, privo dell’ultimo tenue legame con questo maledetto mondo. Non ho più un solo parente, non ho famiglia, non ho più ormai neppure un legame sentimentale, non ho avuto figli. Ma adesso che rimango solo mi accorgo che, tutto sommato ho più pietà di me stesso che di lei che se ne va. Nessuno avrà più cura di me, nessuno si accorgerà se sono rimasto al mondo o no. Gli amici, quelli, sono andati, o non sono mai arrivati. Gli amici. Un amico di infanzia che fa l’odontoiatra ad Alessandria, che dopo la separazione dalla moglie si è talmente rincoglionito al punto da sposare una prostituta cubana. Un altro amico che vive a Sestri Levante e se non sono io a chiamarlo quelle tre o quattro volte all’anno, non di fa mai vivo. Un’amica che è tale solo sulla carta, che mi cerca solo quando ha bisogno di qualche cosa. Adesso che sono solo non so neppure a chi fare testamento, e se ha senso che io faccia un testamento. Mi farò cremare e qualcuno (ma chi?) si prenderà la briga di disperdere le mie ceneri, affinché nulla resti delle mie spoglie mortali in questo mondo. Nessuna tomba, perché non rimanga una “illacrimata sepoltura”. Mia madre muore in queste ore, piano piano, tra le sue piaghe torpide, dall’odore dolciastro, quell’odore di morte che tante altre volte ho sentito in quell’istituto, sempre annunziatore di un decesso. Chissà se lo avvertirò anch’io, su me stesso, quando sarà il mio turno. Mia madre muore nell’anonimato di un istituto che è un cronicario dove la gente va solo per morire o sopravvivere ancora un poco. Muore tra operatori stressati, stanchi e demotivati, vittime di un lavoro faticoso, duro, pesante sotto ogni aspetto, alcuni di loro già “bruciati” dalla loro opera. Ogni volta, in questi giorni, che entro nell’istituto, nella stanza dove la morte sta per ghermire la sua preda, un senso di profonda angoscia, che rasenta fisicamente l’angor, un sentimento ambiguo, composito, fatto di desiderio che tutto finisca, che non ha senso proseguire una vita ormai priva di scopo, totalmente dipendente dagli altri, intrisa solo di dolore e sofferenza, e, allo stesso tempo, il desiderio che si conservi ancora quello che non può più durare, che non può più proseguire, che è destinato a finire. Anche nel linguaggio medico il vocabolo “terminale” non ha soltanto una accezione scientifica, ma anche antropologica: significa che tutti noi siamo “esseri per la morte”, e che il momento della morte è un passaggio fondamentale della nostra esistenza, forse quello più importante. Per questo, lungi dall’anonima, terrificante, morte ospedaliera, ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di morire nella propria casa, in mezzo ai propri cari, stringendo le loro mani, quando il silenzio è l’unico mezzo di comunicazione perché parlare ormai non ha più senso, è un silenzio che va oltre le parole. Invece, solo a pochi privilegiati è concessa questa morte piena di umanità e di conforto al tempo stesso. Si muore fulminati da un infarto, in un incidente stradale, in una tremenda corsia ospedaliera, soli, senza qualcuno che ci stringa lamano o sfiori con le labbra la nostra fronte, si muore di cancro, velocemente, giorno dopo giorno, divorati dal di dentro, storditi dalla morfina, nonostante le ottimistiche quanto inutili e fasulle statistiche sulla sopravvivenza  a questa malattia. Io queste cose non posso più dirle a mia madre, che ormai  ha già cominciato a morire, ma, a dire il vero ha cominciato a morire quando è entrata in quell’istituto, un posto senza orizzonti e senza finestre, senza domani e con un oggi onnipresente. Forse queste cose non le avrebbe capite neppure prima, molti anni fa, forse non avrei saputo neppure comunicargliele, trasmetterle quello che avevo e no ho più dentro. Si cerca sempre di evitare i discorsi che tirano in ballo, direttamente o indirettamente la morte. Fa paura, si cercano improbabili gesti scaramantici, si preferisce dire “ma via, quante tristezze, parliamo d’altro…” Già, parliamo d’altro… Mi sono sempre sentito rispondere così quando cercavo di introdurre con chichessia questo argomento. Esiste un Dio? La nostra anima è veramente immortale? Che cosa nasconde l’enigma della tomba? Ma tutto questo adesso non ha più importanza. Quando una madre muore, muore qualcosa anche dentro di noi, anche in un caso particolare come il mio. Colei che ci ha generato, mia madre con particolare sofferenza, al solito per l’inettitudine e l’incapacità dei medici che erano presenti. I medici…quanti personaggi rivoltanti fra di loro. Da quelli dell’ospedale dove mio padre ha trovato la morte, entrato per una enterite e uscitone dopo quindici giorni cadavere. Mi dicevano che ero troppo emotivo allorquando facevo loro notare che mio padre se ne stava andando. Salvo poi, darmi ragione ad esequie avvenute. Nessuno avrà più cura di me, sarò alla mercè di questa cricca di banditi, di cacciatori di soldi, di ignoranti pressapochisti, che potranno farmi a pezzi ed ammazzarmi come hanno fatto con mio padre, per il semplice fatto che nessuno perorerà la mia causa, nessuno cercherà di proteggermi dai loro continui errori e dalla loro inaudita superficialità. Io non sarò più in grado di difendermi, potranno fare di me tutto quello che vorranno e la mia fine sarà così accelerata. Io non ho diritto ad una morte dignitosa, dolce, umana: nessuno stringerà le mie mani, nessuno sfiorerà la mia fronte con un bacio. Ma ormai non ha più importanza. Con mia madre se ne va anche la mia ultima responsabilità. Non dovrò rispondere ad altri che a me stesso, e alla mia coscienza. Smetterò di lavorare, di fare un lavoro che mi ripugna da anni, cercherò di rientrare in possesso di quello che il mio povero padre mi ha lasciato a prezzo di sacrifici. E se la crisi economica si divorerà tutte le mie rendite, che importa? Non ci sono più che io, posso anche farmi ingoiare dal nulla. Siamo esseri condannati alla morte, dopo essere stati illusi di avere uno spirito superiore, immortale, ma sappiamo che potrebbe non essere così. L’unica libertà che ci è stata concessa è quella di scegliere il momento della propria fine. Non sprechiamo questo privilegio: se qualcuno ritiene che la vita che gli è stata concessa non valga la pena di essere vissuta e decide per la morte, non biasimiamolo per questo. Ognuno farà le sue valutazioni, oppure non le farà come la maggioranza di noi, che cerca di dimenticare quello che lo aspetta immergendosi nelle proprie stupide occupazioni. E a te, madre mia, cosa posso lasciare prima che sia tu a lasciare me? Chissà se mi riconosci ancora, se avverti la mia presenza accanto a te. Alla fine della tua vita hai perduto anche l’uso della parola, solo i tuoi occhi hanno conservato una certa mobilità. Ma il calice deve essere bevuto sino all’ultima goccia. Il suo corpo assumerà sempre di più le fattezze di uno scheletro, il processo di decomposizione inizierà con il cuore ancora pulsante, la bocca semiaperta, le guance tirate che lasciano intravvedere i malfermi denti, le livide fosse orbitali, gli occhi semi aperti ma già spenti e senza sguardo, tutta la sequela non deve essere risparmiata, affinchè il calice sia consumato del tutto. E quando il momento verrà, niente papisti, niente ipocriti farisei a recitare omelie già confezionate, ad invocare il perdono dei tuoi peccati, a somministrarti un viatico che nessun essere umano è in grado di darti. Solo Dio fa una radiografia delle nostre coscienze, non ci sono indegni intermediari. Le mie labbra allora potranno, per l’ultima volta, sfiorare le tue guance terree, basterebbe una bara piccola, così piccola…
Quando muore una madre non accade nulla di quello che vagheggiano e descrivono i poeti: la verità è un’altra: ha senso la vita? La vita forse non ha senso, è solo volgare. Quando muore una madre l’unica cosa che accade è che nel cuore del figlio che resta cede di schianto qualcosa che poi crolla, e dalle cui macerie non si può più costruire nulla, perché nulla si può edificare su qualcosa che non c’è più, anche se non c’è mai stato, come nel nostro caso. Il vuoto rimane vuoto, continua la mia corsa verso il niente, continuerò a girare a vuoto senza risultato, a cercare di riempire quello che non si può riempire perché non esiste neppure il recipiente da colmare. Eravamo solo io e i miei genitori: adesso ci sono solo io. Non c’è famiglia, c’è solo vuoto. Ormai è tardi per un altro miracoloso incontro: nessuna donna sarà più al mio fianco. Per quello che mi resta, continuerò da solo, è preferibile la solitudine alle discussioni estenuanti, ai falsi adattamenti, alle polemiche senza fine, ai conflitti spinti fino all’odio…Basta, con te se ne va quel poco di interesse che avevo ancora nella vita.  All’indomani della tua morte qualcosa cambierà, anche se non so ancora esattamente cosa… Addio, mamma.

lunedì 20 settembre 2010

PROTESTANTI SENZA SAPERLO (cattolici immaginari)



Stando alle statistiche, la maggioranza dei cristiani nel mondo professa il cattolicesimo della Chiesa Romana. Il protestantesimo, diviso nelle sue più disparate confessioni, è distanziato di diverse lunghezze. Sempre per le statistiche, per quanto riguarda il nostro paese, una maggioranza vicina al 100% della popolazione che non si considera atea, professa il cattolicesimo. Questo dato è inesatto nel modo più assoluto. Vediamo perché. Siamo stati battezzati, abbiamo, chi più chi meno, seguito il catechismo per essere pronti ad accogliere il corpo di Cristo e, successivamente, con la Cresima, diventare “soldati di Cristo”. Trascorso questo periodo, che arriva al massimo alla fanciullezza, nella grande maggioranza, l’italiano si dimentica della religione, non frequenta la Chiesa, non è praticante, alla domanda “Lei crede in Dio? Si considera cattolico?” quasi regolarmente risponde: “Sì, credo in un Dio che non è esattamente quello della Chiesa, mi considero cattolico, ma prego e mi raccolgo a modo mio, nella mia camera, non frequento la parrocchia”. Ora, questi milioni di sedicenti cattolici non sono tali. Nessuno si prende la briga di approfondire temi cha appartengono alla teologia o alla filosofia, considerate discipline accademiche, per iniziati, e tira diritto, con le quattro nozioni che sono sopravissute dal catechismo in un angolo della propria memoria. Cercherò di riassumere, nel modo più chiaro possibile le differenze fondamentali tra la chiesa cattolica romana e le chiese riformate.
Cominciamo dai due soli dogmi che accomunano le due chiese: in assenza di questi dogmi (verità rivelate dalle Scritture, non dimostrabili razionalmente e per questo oggetto di fede) non si può parlare di cristianesimo. Il primo è l’Incarnazione di Dio in Cristo, la sua passione e la sua Resurrezione. Il secondo è l’unità e la trinità di Dio, costituito di Padre, Figlio e Spirito Santo, che i Concili di Nicea e Costantinopoli hanno stabilito come tre persone consustanziali, partecipanti cioè della stessa sostanza ed aventi pari dignità. Per tutto il resto, cattolicesimo e protestantesimo si differenziano profondamente. Il Pontefice non è il vicario di Cristo, il rappresentante di Dio sulla terra, per la semplice ragione che nessun essere umano può assumere una simile funzione. Il Papa è una persona qualsiasi, eletto da un concistoro di altri esseri umani che, al suo pari, non rappresentano che se stessi. E questo vale per la cosiddetta “infallibilità” papale. Non è che quando il Pontefice parla “ex cathedra” è ispirato direttamente da Dio e quindi la sua parola diviene paragonabile alla Sacra Scrittura, divenendo Legge di Dio. Non esiste sul fronte protestante nessun riconoscimento dell’autorità papale. Per questa ragione le confessioni riformate più “radicali” definiscono ancora oggi i cattolici come “papisti”. Per i protestanti solo il Concilio può prendere decisioni o assumere posizioni che un solo uomo non è in grado di prendere, fallibile e fragile come qualsiasi essere umano. Seconda questione: esiste, per il credente, il monoteismo assoluto, un dio solo, per quanto trinitario, null’altro. La pletora dei Santi e il culto della Madonna sono considerate dai protestanti delle forme di idolatria paganeggiante. In effetti il culto dei santi deriva dall’Olimpo degli dei ellenici, e il culto della Madonna, per secoli considerato da una parte della chiesa a rischio di eresia, rasentando l’”iperdulia”, è stato elaborato dalla chiesa romana per raccogliere consensi presso il pubblico femminile, per molti secoli considerato non degno di menzione, privo persino di un’anima spirituale. La donna, esclusa per qualche misterioso motivo dal sacerdozio, si doveva accontentare di partecipare della natura di Maria Vergine, la madre di Cristo, per questo concepita senza peccato originale (secondo il discutibilissimo dogma dell’immacolata concezione) e avendo partorito miracolisticamente Gesù Cristo con l’ausilio dello Spirito Santo. Secondo la maggior parte delle chiese protestanti, che ammettono ovviamente non solo il sacerdozio femminile, ma che hanno esteso questo concetto, allargandolo al cosiddetto “sacerdozio universale dei fedeli”, Maria era una donna come tutte le altre, ha partorito Cristo come qualunque altra donna, e non ha meriti particolari se non quello del rispetto dovuto alla madre del Cristo. L’intercessione dei santi, le indulgenze plenarie, tuttora concesse dal sommo pontefice in occasioni particolari come il giubileo o l’anno santo, sono un retaggio del periodo precristiano, intrise di superstizione e credulità popolare, e appartengono ad una maniera di pensare umana, troppo umana.
C’è poi, non secondaria, la concezione del divario esistente tra sacerdozio e laicato. Mentre per il protestantesimo esiste il “sacerdozio universale dei fedeli”, ognuno è sacerdote a se stesso, la differenza tra fedele e Pastore, nelle comunità riformate è solo di funzione, non di grado (il Pastore è semplicemente una guida spirituale, un divulgatore della Parola di dio), nel cattolicesimo la differenza è soprattutto di grado. Il  prete cattolico possiede prerogative che un laico non può neppure immaginare: amministra i sacramenti, celebra la messa, consacra l’ostia , con l’elevazione, conservata nel tabernacolo, oltre che distribuirla ai fedeli, conserva, insomma, un’aureola di “sacralità” che è completamente fuori tempo e fuori luogo. I protestanti fanno la comunione sotto le due specie, i fedeli, a turno, somministrano il pane e il vino; ai preti cattolici spetta il privilegio di bere il vino, ai fedeli solo quello di nutrirsi misticamente del pane di Dio. E a proposito di sacramenti, le confessioni evangeliche ne riconoscono solo due, i soli istituiti direttamente da Cristo secondo le Scritture: la Santa Cena (la messa dei papisti) e il battesimo. La chiesa romana ha aggiunto, con il trascorrere dei secoli e con la tradizione e la documentazione patristica e scolastica, la Cresima, l’Ordine sacro, la confessione dei peccati, l’estrema unzione, addirittura il matrimonio. Ora, se per sacramento, in teologia, si intende un veicolo della Grazia di Dio, una donazione diretta tra il Padre e le sue creature, è difficile spiegare come la confessione dei propri peccati ad un altro uomo peccatore, fragile e debole quanto noi, si possa considerare un sacramento. O come il matrimonio, la promessa, poche volte mantenuta per la verità, di unirsi ad un'altra persona, possa essere elevata al rango di “sacramento”. La confessione è un semplice atto, volontario s’intende, che il fedele compie in preparazione all’eucarestia, il matrimonio in chiesa non è altro che una promessa formulata dagli sposi, in perfetta buona fede, al cospetto di Dio, null’altro. L’Ordine sacro, come già visto non ha motivo di esistere dal momento che un pastore, per esercitare quella che si definisce “cura d’anime” non ha bisogno di alcun sigillo o mandato divino, è un comune mortale come i fedeli, solo più preparato nelle questioni religiose e spirituali in genere. Non parliamo poi della cresima, neppure degna di nota, con essa i papisti rasentano il ridicolo, o dell’estrema unzione, al massimo un “viatico” per l’aldilà, non certo un sacramento. Quanto alle Scritture, sappiamo che i libri entrati nel Canone cattolico non coincidono pienamente con quelli accolti dalla grande maggioranza dei protestanti: ci sono molti dubbi su alcune epistole, considerate eterodosse,  ma accolte dal magistero cattolico perché più favorevoli ad una gestione della chiesa di tipo apostolico romano. Ma soprattutto quello che differenzia le due confessioni è la possibilità, per i protestanti, di interpretar liberamente (il cosiddetto libero esame) le sacre scritture, che rimangono viceversa, nella chiesa cattolica, di esclusiva pertinenza e discrezionalità dei vertici vaticani. I testi che si occupano di ermeneutica o esegesi delle scritture possono essere pubblicati, ancora oggi, solo se recanti l’”imprimatur” e il “nihil obstat” della Curia romana. E’ forse per questa ragione che, non a caso, la teologia del secolo scorso, con qualche rarissima eccezione, è stata esclusivamente protestante, i teologi che hanno scritto e divulgato non appartengono alla chiesa di Roma, ma sono i Barth, i Bonhoffer, i Cullman, i Bultmann ecc. A rigore l’unico teologo autorizzato a pubblicare in ambito cattolico è il Papa. Tutti gli altri sono dei semplici catechisti, anche se si fregiano del titolo di “teologo”. Emblematico il caso di Hans Kung, appartenente solo formalmente ancora al cattolicesimo, una delle poche voci fuori dal coro papista: gli è stato tolto l’insegnamento di teologia alla facoltà di Tubinga. A casa nostra, il giovane e brillante teologo Mancuso, uscirà molto presto dai ranghi della chiesa cattolica. Altra vexata quaestio tra cattolici e protestanti è rappresentata dalla dottrina del fondamentale sacramento per i cristiani: l’Eucarestia. Può apparire una questione d poco conto, adatta ai sofisti ed ai filosofi accademici, e invece ha delle ricadute fondamentali. Per i cattolici nel tabernacolo, una volta consacrata, è “realmente”  presente il corpo e il sangue di Cristo. Al di là degli accidenti del pane e del vino (che sono solo le sembianze esteriori delle due sostanze) nell’ostia avviene una trasfigurazione e trasformazione mistica che fa sì che il Cristo sia presente concretamente. E’ la cosiddetta “transustanziazione”. Lutero stesso, influenzato dal moderato Melantone, accettò la discutibile formula della “consustanziazione”, una via di mezzo che asserisce che insieme alle sostanze del pane e del vino è presente anche il corpo ed il sangue del redentore. Più sbrigativamente, e realisticamente, Zwingli, che ha fondato ed influenzato l’intera chiesa riformata di tipo calvinista, sostenne che nell’ostia il Cristo è rappresentato solo simbolicamente, spiritualmente, che ogni volta che si officia la santa cena e ci si ciba del pane e del vino non si fa altro che  celebrare il memoriale della morte sulla croce del redentore. La differenza, non di poco conto, risiede nella concezione “magico-esoterica” tipica della teologia cattolica, pregna dello spiritualismo decadente ellenico, e dei suoi influssi magico animistici tipici dello zoroastrismo e dei culti egizi. Altro capitolo scottante e di non facile comprensione è rappresentato dalla “giustificazione”. In che modo l’uomo può meritare al cospetto di Dio la salvezza? Quali sono i mezzi a sua disposizione, che cosa può fare per collaborare con la grazia di Dio, o, ancora, è nel potere dell’uomo fare qualcosa per modificare il decreto di Dio su di lui?. Sono le domande fondamentali, le questioni sulle quali teologi e filosofi dibattono da sempre, e per le quali è, ovviamente impossibile una parola definitiva. La posizione cattolica, in estrema sintesi, sostiene che la natura umana, solo parzialmente corrotta dal peccato originale, non è completamente degradata, possiede viceversa una scintilla divina che la mette in grado di cooperare con la Grazia di Dio. E’ la famosa questione della “meritorietà delle opere”. L’uomo, collaborante con la grazia divina, nel corso della propria esistenza, accumula un tesoro di opere meritorie che, alla fine del percorso terreno, gli meritano il consenso del Padre, ed il premio della vita eterna. Ora, Dio non è il gran Ragioniere dell’Universo, che alla fine della nostra esistenza compila un bilancio del nostro persorso e formula un conto profitti e perdite della nostra vita, restituendoci in termini di vita eterna o di pena eterna quanto abbiamo compiuto, nel bene e nel male, nella nostra vita terrena. Ai meritevoli assegna il Paradiso, ai reprobi l’inferno. Per quelli che si sono comportati non troppo bene ma neppure troppo male, esiste il Purgatorio, inventato di sana pianta dai cattolici (non ne esiste la benché minima traccia nella Scritture). Una permanenza di qualche secolo, che può essere abbreviata dall’intercessione della preghiera dei mortali, soprattutto delle donne consacrate all’esilio dal mondo nei monasteri di clausura, ed ecco che, mondi da ogni residuo di peccato, possono fare ingresso nel paradiso dei santi. Questa è l’epica religiosa cattolica. Una serie di miti, alcuni puramente favolistici e immaginifici, che, nel corso dei secoli, ha costituito un vero e proprio patrimonio mitologico, un’epica, appunto, cui attingere alla bisogna. La visione protestante, come sempre più razionale, è più articolata e complessa. Dio ha stabilito, per suo decreto imperscrutabile, da sempre, dall’eternità, la sorte delle sue creature. Come un tenero Padre tutte le accoglie nel suo grembo, alla fine del cammino terreno. Non ci sono né Paradisi e tantomeno inferni o purgatori. L’uomo, possedendo un’anima spirituale, è una emanazione di dio stesso, e alla fine del percorso terreno, ritornerà, sarà riassunto nell’essenza del Padre. Diciamo che si annienterà in Lui, come in una sorta di Nirvana. Per i protestanti esiste la predestinazione assoluta, per cattolici quella relativa. Non è una differenza da poco. Per gli uni l’anima umana, dal peccato di origine, considerato comunque alla stregua di mito precristiano,  è irrimediabilmente e totalmente corrotta. Non è cioè in grado compiere alcun atto che possa meritare il compiacimento del creatore. Per i cattolici, come già detto, l’uomo non ha completamente perduto la capacità di compiere il bene, solo così può collaborare con l’opera del Padre. E’ la famosa disputa tra Lutero ed Erasmo da Rotterdam sul “libero arbitrio ed il servo arbitrio”. Per Lutero il servo arbitrio significa che l’uomo è in grado di compiere liberamente delle scelte solo dopo che gli eventi o le circostanze lo hanno posto in una determinata situazione. In parole diverse: Dio ha stabilito da sempre l’”ordine naturale delle cose”, una successione di eventi, di avvenimenti e circostanze che non vuole e non può modificare. Se lo facesse, dovrebbe ogni volta intervenire “miracolisticamente” nella vita dell’uomo. Può essere utile il paragone con il Fato e Zeus per i greci: il Fato era qualcosa che faceva parte di Zeus, pur sovrastandolo, e lo stesso Zeus non aveva il potere di modificare i decreti del Fato. Non deve apparire troppo pessimistica la concezione della predestinazione assoluta e dell’incapacità del’uomo di compiere opere meritorie: ricordiamoci che la motivazione più vera che ci spinge ad un certa azione è anche la più nascosta. E la più vera è quella egoistica. Anche nelle azioni più altruiste, anche nel donarsi completamente al nostro prossimo, l’essere umano, nella sua imperfezione, rincorre una causa egocentrica: bilanciare una colpa nascosta, meritarsi l’ammirazione degli altri uomini, meritare un tornaconto, per quanto spirituale, al cospetto di Dio. L’egoismo è la più vera e allo stesso tempo la più nascosta delle motivazioni del nostro agire. La posizione protestante nei confronti del compiere il bene, è quella filosofica di Kant per il quale il bene va compiuto in quanto “imperativo categorico”, di per se stesso, universalmente, per il solo fatto che è giusto, non in vista di un ritorno spirituale. Ricordo, inoltre, che Dio, nella sua bontà di Padre, non respinge nessuno dei suoi figli, tutti gli esseri umani torneranno nella sua essenza. Ma c’è il problema del male, qualcuno dirà. A noi creature appare indicibilmente ingiusto che alle persone malvagie, ai criminali terreni, agli assassini possa essere riservato un trattamento paragonabile a chi si è ben portato in questa vita. Ma, prescindendo dal fatto che solo Dio può leggere nel cuore e nelle coscienze di ciascuno di noi, (che non siamo di conseguenza in grado di giudicare un nostro simile), è pensabile che nell’aldilà, abitato solo dall’infinità di Dio, tutto quello che da questa parte è imperfetto sarà portato a perfezione, tutto quello che è incompiuto sarà portato a compimento. La sola cosa che il Padre ci richiede è di avere fede in Lui, di abbandonarci alla sua grazia, compiendo il bene per il solo fatto che è giusto e in conseguenza della nostra fede in lui. Ecco, sommariamente, cosa si intende per “salvezza per mezzo della fede”. Cristo sulla croce ha “vicariato” la funzione umana, ha sostituito, con il suo sacrificio la natura umana, che in lui si è completamente redenta, glorificandosi con il sangue della croce. Teniamo a mente, quando pensiamo che molti altri esseri umani sono morti ed hanno patito per qualche causa terrena, che sulla croce, in quel lontano giorno (e questa è materia di sola fede) non è morto un semplice essere umano, è morto per la salvezza dell’uomo un dio. Non possiamo neppure immaginare con le nostre forze che cosa significhi la morte di un dio. E’ qualcosa di imperscrutabile e allo stesso modo di terribile.
Mi fermo qui. Abbiamo sommariamente esaminato le sole questioni “dottrinali”. Non è questo il luogo, ci si dilungherebbe troppo, per parlare di quelle etiche. Qui le differenze divengono a dir poco abissali. Si veda il tema dell’eutanasia, che vede sostanzialmente favorevoli i protestanti e fermamente contrari i cattolici, che sostengono addirittura, ancora oggi, il divieto alla contraccezione! Per Ratzinger il rimedio al dilagare dell’AIDS nell’Africa sub sahariana è la semplice astensione. A questo punto è inutile persino discutere. Ci sono, nel costume cattolico, degli aspetti che rasentano il ridicolo. Come la posizione della chiesa nei confronti dei divorziati. E sì che il Tribunale della Sacra Rota lavora tutto l’anno a pieno ritmo per annullare previo lauto compenso matrimoni altrimenti non annullabili. Pur tuttavia, al divorziato che, sebbene macchiato dell’onta dell’infrazione del sacramento del matrimonio, voglia comunque accostarsi ai sacramenti, concede una possibilità: il divorziato può comunicarsi solo se ha fatto voto solenne di astenersi da qualsiasi rapporto sessuale (sic!). Siamo quasi al grottesco.
La considerazione finale consiste nell’esaminare, per quanto possibile, gli aspetti, direi psicologici dell’appartenenza a due confessioni, che, come abbiamo visto, sono totalmente inconciliabili.
Il cattolico, per semplificare, è un bimbo nella fede, laddove il protestante possiede una fede adulta. Per il cattolico la Chiesa è una tenera madre consolatrice che accoglie tutti i suoi figli. Monda le coscienze nel lavacro purificatore della confessione e prepara alla comunione con Dio, riacquisendo ogni volta che ci si pente, la sua grazia. Poi ogni volta si torna a peccare, per poi tornare a mondarsi e così via, fino alla morte (ma c’è pur sempre l’ultima chance dell’estrema unzione!). Il protestante porta il peso della propria condizione di peccatore e di essere imperfetto e lacunoso completamente sulle proprie spalle, non ci sono facili assoluzioni, né scappatoie, non ci sono morgane, non trabocchetti e vie di fuga. Ognuno resta solo, col peso dei propri peccati, o delle proprie malefatte, è responsabile fino all’ultimo di ciò che ha compiuto, ma ancora più forte in lui è la fede, le vera fede che ti fa pensare che, nonostante tutto, nonostante la mia totale imperfezione ed il mio degrado, il mio egoismo e la mia indifferenza al dolore altrui, esiste un Padre, dal quale provengo, che mi ama come nessuna creatura al mondo può amarmi, spassionatamente e disinteressatamente, al di là del bene e del male, e che mi ama a tal punto da accettarmi per quello che sono, nella mia spaventosa nudità e povertà, mi ama a tal punto dall’essere morto per me sulla croce, e a alla fine della mia esistenza terrena mi accoglierà in se stesso uccidendo il vitello più grasso ed io, dopo tanto vagabondare, dopo tanto aver girato a vuoto, illudendomi di aver costruito qualcosa, di aver lasciato traccia a quelli che restano, mi scioglierò nell’unico abbraccio che conta, piangerò le lacrime più vere e cocenti, solo allora sinceramente pentito di quella poca cosa che sono stato sulla terra, che dà solo onori e piaceri effimeri e fatui, e solo in quell’istante comprenderò tutto quello che in tanti anni di studi ricerche non ho compreso, perché inafferrabile, capirò finalmente il senso della vita, quella vera, quella eterna, il senso del bene e del male, tornerò finalmente, dopo tanta fatica, ad appropriarmi di quello che la vita mi ha offuscato se non nascosto: la mia anima, la sua essenza. Ma tutto questo un cattolico romano non può capirlo, chiuso com’è nei suoi vuoti rituali e nelle sue aride giaculatorie: hanno fatto di una fede viva un insieme di norme morte, hanno resuscitato il fariseismo del Sinedrio, guardando solo le apparenze e le forme, si sono rinchiusi nella cittadella inespugnabile delle loro rigide regole ereditate non dalla Scrittura, ma dalla tradizione patristica e scolastica, hanno obbedito a papi, esseri fragili e peccatori quanto e più di noi, si sono fatti abbacinare non da una fede che non deve confliggere con la ragione, ma da un coacervo di miti e leggende che li hanno resi ciechi e sordi al richiamo del vero Dio e del vero perdono.

Settembre 2010                                                                  Roberto Tacchino

domenica 12 settembre 2010

PARLANDO DI EUTANASIA

L'EUTANASIA ED IL SUICIDIO ASSISTITO

Ricevo e pubblico volentieri la posizione della Tavola Valdese sull’argomento. Si tratta, soprattutto se si osserva che si tratta di un documento del 1998, di una analisi di una lucidità, equilibrio e senso etico incomparabili. La considero la parola definitiva sul tema dell’eutanasia, ed è uno dei motivi, oltre ad una miriade di altri, che mi ha convinto che, nell’ambito del cristianesimo, i protestanti posseggono una statura morale, spirituale e dottrinale enormemente superiore a  quella dei cattolici romani, i cosiddetti “papisti”.

A cura del Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza, nominato dalla Tavola Valdese,
composto da persone appartenenti alle chiese evangeliche e attive nell’ambito della ricerca, dell’università e della chiesa

Premessa

Il dibattito sull’eutanasia e il suicidio assistito si è notevolmente ampliato negli ultimi anni interessando sempre più da vicino tanto il grande pubblico quanto le categorie coinvolte nella cura dei malati inguaribili. Il presente documento intende approfondire questa delicata materia. Il primo capitolo contiene la spiegazione dei termini impiegati nel dibattito e precisa il loro significato. Successivamente il documento espone lo stato del dibattito. In terzo luogo esso passa in rassegna le situazioni cliniche nelle quali il problema si pone. Il quarto capitolo discute alcuni orientamenti e proposte e l’ultimo capitolo infine esamina più da vicino gli aspetti di ordine etico e pastorale emersi nei punti precedenti.
Due sono le argomentazioni di maggior rilievo: la prima si appella al rispetto per l’autonomia del paziente (numeri 2.8 e 5.6); la seconda estende il concetto di cura fino a includervi l’aiuto offerto a chi intende morire dignitosamente (numeri 4.3 e 5.4).

1 – Definizioni

1.1 L’eutanasia può essere definita in senso lato come qualsiasi atto compiuto da medici o da altri, avente come fine quello di accelerare o di causare la morte di una persona. Questo atto si propone di
porre termine a una situazione di sofferenza tanto fisica quanto psichica che il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengono non più tollerabile, senza possibilità che un atto medico possa, anche temporaneamente, offrire sollievo.
1.2 L’eutanasia attiva consiste nel determinare o nell’accelerare la morte mediante il diretto intervento del medico, utilizzando farmaci letali (ad esempio un barbiturico ad azione rapida che induce il coma e una dose elevata di cloruro di potassio, che determina l’arresto cardiaco). Questo è il significato che attribuiremo al termine eutanasia nel proseguimento della discussione.
1.3 Il suicidio assistito indica invece l’atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte
grazie all’assistenza del medico: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio (si tratta in genere di barbiturici o di altri forti sedativi o ipnotici) su esplicita richiesta del suo paziente e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l’atto diretto del medico che somministra in vena i farmaci al malato.
1.4 Il termine eutanasia passiva viene invece utilizzato per indicare la morte del malato determinata, o meglio accelerata, dall’astensione del medico dal compiere degli interventi che potrebbero prolungare la vita stessa: un esempio potrebbe essere rappresentato dall’astensione dal trattare con terapia antibiotica un malato di demenza di Alzheimer, oppure un neonato gravemente deforme, con breve aspettativa di vita, colpito da polmonite. In realtà, sarebbe opportuno non utilizzare il termine eutanasia in tal senso; è invece preferibile in questo caso parlare di astensione terapeutica.
1.5 In altri casi i medici devono ricorrere, per mantenere in vita una persona, all’impiego di apparecchi meccanici oppure alla nutrizione totale mediante sonda o fleboclisi o ad entrambi i mezzi. Si definisce allora come sospensione delle cure la decisione di fermare questi interventi, con il risultato della morte dell’individuo, peraltro in tempi non sempre rapidi.
1.6 La morte può anche essere causata o accelerata dall’impiego in dosi massicce di farmaci, come ad esempio la morfina o i suoi derivati, somministrati allo scopo di alleviare sintomi quali il dolore o la dispnea. In questi casi la morte non è la conseguenza di un atto volontario del medico, ma piuttosto un effetto collaterale del trattamento. 

2 – Stato del dibattito

2.1 In oncologia, l’argomento trova sempre più spesso spazio nelle riviste specializzate e nei congressi medici. Fra il 1991 e il 1996 è possibile identificare 296 citazioni sul suicidio assistito in riviste oncologiche, mentre nel decennio 1981-1990 le citazioni erano solo 21. Nel numero di febbraio 1997 del Journal of Clinical Oncology, organo ufficiale dell’American Society of Clinical Oncology, troviamo un editoriale e due articoli sul suicidio assistito. Questo dato è particolarmente interessante, specie se si aggiunge alla crescente frequenza con cui è possibile trovare tale argomento nei programmi dei più importanti congressi di oncologia, in quanto fino a pochi anni fa esso non trovava posto in sedi dove la discussione riguardava esclusivamente le procedure diagnostiche e i protocolli terapeutici delle malattie neoplastiche.  Nel numero di febbraio 1997 del Journal of Clinical Oncology, organo ufficiale dell’American Society of Clinical Oncology, troviamo un editoriale e due articoli sul suicidio assistito. Questo dato è particolarmente interessante, specie se si aggiunge alla crescente frequenza con cui è possibile trovare tale argomento nei programmi dei più importanti congressi di oncologia, in quanto fino a pochi anni fa esso non trovava posto in sedi dove la discussione riguardava esclusivamente le procedure diagnostiche e i protocolli terapeutici delle malattie neoplastiche.
A questi dati occorre poi aggiungere quelli riguardanti altre malattie croniche, specialmente le patologie neurologiche come il morbo di Alzheimer e le gravi lesioni permanenti del sistema nervoso.
2.3 Si può in generale rilevare quindi un crescente interesse verso il termine della vita, focalizzato soprattutto sulla qualità del periodo terminale della vita e del morire.
2.4 Non c’è alcun dubbio sul fatto che si vada intensificando la percezione che le tecnologie mediche sempre più complicate e costose siano in grado di allungare la vita, ma non necessariamente di migliorarne la qualità.
2.5 È interessante rilevare come la discussione porti sempre in primo piano il ruolo del medico nel
porre termine anticipatamente alla vita. Il problema quindi non è tanto se sia lecito o no troncare volontariamente la vita, ma se sia lecito che il medico assista il malato nel suicidio o procuri la morte con un atto deliberato. Ciò comporta un profondo mutamento nel ruolo del medico stesso, che si trasforma da chi agisce esclusivamente per tenere in vita il suo paziente il più a lungo possibile in chi svolge un ruolo attivo nel procurare la morte, quando non vi siano più possibilità di conservare al paziente una dignitosa qualità di vita. È questo aspetto del problema che sembra incontrare la più fiera opposizione negli ambienti medici.
2.6 D’altro canto, si rilevano prese di posizione contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito fondate su argomenti giuridici, poiché la giurisprudenza in vigore nella maggior parte dei paesi considera tali atti come veri e propri omicidi; nella particolare situazione del suicidio assistito, mentre l’atto del suicidarsi non è mai considerato un reato, lo è invece il prestare aiuto, il facilitare il suicidio stesso.
2.7 Sul piano più strettamente etico, uno degli argomenti che ricorrono più spesso nelle argomentazioni contrarie all’eutanasia è certamente quello che si richiama alla "sacralità" della vita: per un’etica religiosa essa è data all’uomo da un Creatore che è il solo a poterne disporre e non è lecito alla creatura intervenire attivamente per abbreviare anche di poco la sua durata. Solo Dio è padrone della vita e della morte. Ma anche un’etica non esplicitamente radicata nella religione fa talvolta riferimento all’intoccabilità della vita, implicitamente riconoscendole un valore sacro e in qualche modo "soprannaturale".
2.8 Contro queste argomentazioni si situa il diritto del malato di poter decidere di porre termine a un’esistenza divenuta intollerabile. Egli chiede perciò al medico di esercitare le sue conoscenze non più per mantenerlo in vita, ma per condurlo rapidamente e in maniera indolore alla morte.
2.9 In realtà, poiché molteplici e complesse sono le situazioni di fronte alle quali ci si trova, è necessario esaminare le condizioni nelle quali può sorgere la richiesta di eutanasia o di suicidio assistito. 

3 – Situazioni cliniche

3.1 I malati di cancro sono le persone dalle quali più spesso può venire la richiesta di eutanasia o di
assistenza al suicidio. Molti tumori maligni sono oggi suscettibili di essere trattati con diverse modalità terapeutiche: la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia, da sole o in combinazione, oppure in sequenza, sono in grado di prolungare notevolmente la vita dei malati di tumore, anche se il numero di quelli guaribili è ancora decisamente basso. Come conseguenza, nella maggior parte dei casi, questi malati vivono con la loro malattia per diversi anni, sottoponendosi a trattamenti rilevanti, che causano a loro volta disturbi (si pensi alle menomazioni prodotte da alcune chirurgie demolitive, oppure agli effetti collaterali della radioterapia e della chemioterapia). Nel momento in cui il tumore si diffonde progressivamente nell’organismo, esso determina l’insorgere di sintomi molto gravi: dolori spesso intensissimi, estrema debolezza, vomito, dispnea, paralisi e perdita di controllo degli sfinteri. Anche se le cure palliative correttamente impiegate sono in grado di controllare in parte questi sintomi, qualche volta il dolore o la dispnea sono tali che i farmaci a disposizione hanno solo degli effetti parziali. In questo stadio il paziente può considerare il suo stato intollerabile e richiedere al medico di intervenire per accelerare la morte.
In questo stadio il paziente può considerare il suo stato intollerabile e richiedere al medico di intervenire per accelerare la morte.
La condizione dei malati di Aids è esemplificativa degli atteggiamenti possibili di fronte alla certezza della morte e alla previsione abbastanza precisa di quanto ci si può attendere nel resto della vita.
Si tratta di persone consapevoli del fatto che la loro malattia può in certi casi essere prolungata per alcuni anni. Dopo un periodo anche abbastanza lungo di sieropositività, esse andranno soggette ad infezioni opportunistiche e a diverse forme di tumore maligno con effetti devastanti sulle condizioni di vita, fino alla fine.
3.3 La malattia di Alzheimer ha in genere un decorso di molti anni dal momento dell’esordio, caratterizzato da una perdita della memoria specie per i fatti recenti. Nell’evoluzione della malattia, le facoltà intellettuali si deteriorano progressivamente. Tuttavia, le persone colpite sono in grado di condurre, per tre o più anni, una vita relativamente piena. Solo negli stadi terminali si assiste a una totale incapacità di svolgere le funzioni vitali più elementari. È importante rilevare come in questo caso, come nelle forme più rare di demenza senile e presenile, non ci si trovi in pratica mai di fronte a un’esplicita richiesta di affrettare la morte. Piuttosto, è possibile che il medico debba decidere se ottemperare o meno ad un testamento biologico (living will) nel quale l’individuo abbia espresso in anticipo il desiderio di non essere curato per prolungare l’esistenza in una simile situazione.
3.4 In altre malattie neurologiche a decorso ingravescente, come la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, si assiste a una progressiva perdita delle capacità motorie dell’organismo. Eventi improvvisi, in genere dovuti a disturbi circolatori, possono analogamente rendere impossibile qualsiasi movimento tranne quello degli occhi. La persona colpita diventa quindi incapace di svolgere anche le più elementari funzioni della vita, come spostarsi, mangiare, provvedere all’igiene e ai bisogni corporali, mentre le facoltà intellettuali restano perfettamente integre. Di qui può scaturire la decisione consapevole del malato di richiedere al medico di porre termine alla sua esistenza.
3.5 Situazioni abbastanza simili si possono osservare anche nel corso di altre gravi malattie croniche, come l’artrite reumatoide. In tutti questi casi si assiste a quello che viene in genere indicato come un "grave impedimento cronico". La gravità dell’impedimento è naturalmente un dato difficilmente quantificabile: una persona affetta da una devastante forma di artrite deformante, che le impedisca di svolgere un’attività professionale sulla quale si concentri tutto l’interesse dell’esistenza, può ritenere il suo stato più intollerabile di quanto non lo avverta invece un individuo che svolga un’attività prevalentemente intellettuale e che si trovi immobilizzato in un letto.
3.6 I rapidi progressi delle tecniche di rianimazione e delle terapie intensive consentono di mantenere in vita anche per lunghi periodi di tempo individui che hanno subito gravi lesioni cerebrali. Essi dipendono totalmente dalle macchine per la respirazione e da sonde gastriche per la nutrizione. Molto spesso le funzioni cerebrali sono in queste persone totalmente e irreversibilmente distrutte e non esiste alcuna prospettiva di un seppur minimo recupero. Si parla allora di "stato vegetativo persistente". Le decisioni richieste ai medici curanti riguardano in questi casi la sospensione delle tecniche rianimato-rie: in pratica, il paziente è "lasciato morire".
3.7 Esistono poi molte situazioni nelle quali il medico non si trova di fronte a vere e proprie malattie gravemente invalidanti o a sintomi fisici intollerabili, ma che ugualmente possono determinare in una persona il nascere e il consolidarsi della convinzione che la sua vita si sia esaurita e non vi sia alcuna ragione di prolungarla ulteriormente. Si pensi in particolare alla situazione degli anziani, i quali spesso presentano gravi e multiple limitazioni delle capacità fisiche e psichiche, accompagnate dalla sensazione di essere "di peso" ai familiari. In queste circostanze un’eventuale richiesta di eutanasia ha da essere valutata con estrema cautela, anche perché spesso nasconde sintomi di depressione, curabili sia farmacologicamente, sia con un supporto psicologico.
4 – La ricerca di orientamenti
4.1 Da un lato, la sospensione delle cure alle persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente, è stata ritenuta eticamente accettabile in molte sentenze emesse da diverse corti di giustizia, specie nei paesi anglosassoni. Non sempre, tuttavia, la morte in questi casi segue immediatamente la sospensione delle terapie, specie quando questa riguarda l’eliminazione della nutrizione e della somministrazione di liquidi: l’ammalato può morire per il digiuno e la disidratazione, fra sofferenze facilmente immaginabili. È quindi giustificato chiedersi in quale misura sia più accettabile lasciar morire una persona, piuttosto che accelerarne la morte con un’iniezione di farmaci letali.

Le maggiori controversie riguardano naturalmente l’eutanasia (attiva) e l’assistenza al suicidio. Disolito ci troviamo di fronte a persone che la medicina ha tenuto in vita per lunghi periodi, grazie a tecnologie sempre più complesse. Queste persone hanno consapevolmente accettato i trattamenti che il medico ha loro proposto: è comprensibile che gli possano chiedere, quando egli abbia chiaramente spiegato che la medicina non è più in grado di controllare i sintomi, non solo di sospendere ogni altra inutile cura, ma di intervenire attivamente per accelerare la morte, in modo indolore e rapido. Quando siano rispettate le condizioni di libera scelta, non esiste alcun valido motivo per costringere una persona a prolungare una sofferenza che egli reputa inutile e disumana.
4.3 L’opposizione della maggior parte dei medici, sulla base del loro dovere di fare tutto il possibile per mantenere in vita il malato, a praticare l’eutanasia, andrebbe riconsiderata alla luce di un concetto di medicina che comprende anche l’imperativo di evitare inutili sofferenze. Coloro che praticano la medicina hanno il dovere di applicare nel modo più completo ed efficiente le conoscenze e le tecnologie a disposizione. Occorre tenere sempre presente che simili strumenti non sono fini a se stessi, ma sono da utilizzare nell’ottica di una cura globale del paziente inteso come totalità della persona e pertanto essi possono essere impiegati per abbreviare sofferenze non altrimenti eliminabili.
4.4 Come si è accennato in precedenza, uno degli argomenti ricorrenti contro l’eutanasia e il suicidio assistito è quello della sacralità e intangibilità della vita. È certamente vero che la vita rappresenta il valore supremo che va rispettato e salvaguardato come tale. Tuttavia è lecito chiedersi che cosa si intende esattamente e correntemente per vita. Esiste una condizione biologica, rappresentata dall’insieme delle funzioni biochimiche cellulari, dalla riproduzione cellulare, dal funzionamento dei vari organi. Queste funzioni, seppure con complessità crescente dagli organismi unicellulari fino ai primati e al genere umano, sono fondamentalmente simili in tutti gli esseri viventi. Ciò che distingue la vita umana è l’insieme delle esperienze, delle relazioni con le altre persone, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, delle speranze nel futuro, delle attese, degli sforzi per rendere degna e umana la vita.
In altri termini, è necessario distinguere la vita biologica dalla vita biografica: quando la vita biografica cessa, come nel caso di uno stato vegetativo persistente, oppure divenga intollerabile, come nelle malattie terminali, deve essere presa in considerazione l’eventualità di porre termine alla vita biologica.
4.5 L’introduzione nella prassi medica e nella legislazione di una qualche forma di liceità dell’eutanasia e del suicidio assistito suscita il timore di uno scivolamento verso altre forme di accelerazione della morte anche in persone inconsapevoli o non consenzienti. La società potrebbe incamminarsi su un pericoloso "pendio scivoloso" (slippery slope), al termine del quale potremmo accettare di sopprimere legalmente anziani, disabili, disadattati. Poiché la bioetica nasce dopo la seconda guerra mondiale e dopo gli orrori del nazismo, il vivo ricordo delle esperienze della Germania hitleriana esercita senza dubbio una forte influenza nel generare e rendere vivi e presenti questi timori: il periodo nazista viene considerato come la prova dello scivolamento dall’eutanasia volontaria a quella involontaria e alla progressiva erosione di ogni regola etica. In realtà la politica dei nazisti nei confronti dei deboli, dei malati e in genere degli individui ritenuti non adatti alla nuova società ariana fu iniziata e attuata violando il codice penale tedesco e suscitò la reazione, peraltro inutile, del ministero della Giustizia.
Questa politica non ha nulla a che vedere con l’idea e la pratica dell’eutanasia com’è oggi intesa.
Non si hanno notizie di casi di eutanasia volontaria richiesta da malati di cancro o da persone affette da malattie croniche nella Germania di Hitler. Pertanto, utilizzare questo argomento per opporsi all’eutanasia sembra perlomeno poco fondato storicamente e scorretto sul piano dialettico, poiché tende ad accostare due fenomeni radicalmente diversi.
4.6 La posizione dell’opinione pubblica al riguardo ha subito negli ultimi anni significativi mutamenti.
Nell’Oregon (Usa) nacque nel 1987 la Hemlock Society, un’organizzazione non-profit, che sponsorizzò nel 1991 la presentazione di una proposta di legge in favore del suicidio assistito al Senato di quello stato. La proposta non fu mai discussa, ma nel 1994 i cittadini dell’Oregon approvarono, con una maggioranza del 52% di voti favorevoli, la legge oggi nota come "Death with Dignity Act", che consente ai medici di prescrivere i farmaci necessari al suicidio a favore di un paziente, purché egli sia cittadino dell’Oregon, abbia una previsione di vita non superiore a sei mesi e vi sia il parere favorevole di altri due medici. In un referendum svoltosi nel novembre 1997 i cittadini dell’Oregon, questa volta con una maggioranza del 60% a favore, hanno respinto una proposta d’abrogazione della legge. Molti medici si sono espressi contro tale legge. Una posizione nettamente contraria è stata presa dall’American Medical Association. Non è ancora chiaro come e in che misura essa sarà applicata, anche perché la Drug Enforcement Agency (Agenzia di controllo sui farmaci) ha minacciato di sospensione della licenza i medici che prescriveranno farmaci per aiutare un paziente a commettere suicidio.
È in ogni modo interessante rilevare che sulla stampa specializzata degli Usa sono state numerose le prese di posizione sostanzialmente favorevoli alla legge e critiche nei confronti dei medici, accusati di scegliere di prolungare le sofferenze degli ammalati piuttosto che farsi coinvolgere in una scelta indubbiamente difficile.
È in ogni modo interessante rilevare che sulla stampa specializzata degli Usa sono state numerose le prese di posizione sostanzialmente favorevoli alla legge e critiche nei confronti dei medici, accusati di scegliere di prolungare le sofferenze degli ammalati piuttosto che farsi coinvolgere in una scelta indubbiamente difficile.
Al Parlamento europeo l’on. Léon Schwartzenberg ha presentato, come relatore, un Documento di lavoro nel luglio 1990 e un Progetto di relazione nel febbraio 1991, sull’assistenza ai malati terminali, nei quali l’eutanasia attiva e il suicidio assistito sono visti come possibilità accettabili e rispettose della dignità e dell’autonomia dei pazienti. I due documenti non risultano essere stati ulteriormente discussi.
4.8 Con riferimento all’esperienza dei Paesi Bassi, occorre anzitutto ricordare che per il codice penale olandese l’eutanasia è considerata un crimine, ma è trattata in una sezione separata del codice. La legislazione attuale trae origine da una serie di avvenimenti e processi iniziati nel 1973, anno di fondazione della Società olandese per l’eutanasia volontaria. Nel 1985 la Commissione di stato sull’eutanasia propose di emendare il codice penale in modo tale che la morte provocata a una persona su esplicita e ripetuta richiesta di questa non fosse considerata un crimine a condizione di essere data nel contesto di buona pratica medica e che la condizione del malato fosse senza possibilità di miglioramento. Questa proposta non fu mai accolta come tale e il codice penale non fu mai modificato. Bisogna ricordare che l’Associazione medica olandese ha ripetutamente espresso parere favorevole all’eutanasia e queste prese di posizione hanno influenzato non poco le decisioni del Parlamento.
4.9 Nel 1991 la Commissione Remmelink riportò al Parlamento che i casi d’eutanasia andavano stimati fra 2.000 e 8.000 l’anno e segnalò circa 400 casi di suicidio assistito. Le richieste di eutanasia erano circa tre volte più numerose di quelle praticate: in due terzi dei casi quindi era stata trovata dal paziente e dal medico una scelta alternativa all’eutanasia, oppure il malato era deceduto prima della sua messa in atto. In circa 1.000 casi i medici segnalavano di aver praticato l’eutanasia senza esplicita richiesta del paziente. Fino al 1990 i casi di eutanasia segnalati dai medici olandesi erano relativamente pochi: nel 1990 ne furono segnalati 454, nel 1994, 1.424. Contemporaneamente sono nettamente diminuiti i casi sottoposti a procedimento penale: da due su dieci segnalati nel 1983 a quattro su 1.322 nel 1992.
4.10 Questi mutamenti rilevanti sono senza dubbio conseguenti alla nuova normativa in vigore in Olanda, attuata dal governo olandese a partire dal 1990 e trasformata in legge il 1º giugno 1994. Secondo questa normativa, il medico che opera l’eutanasia deve rispettare precise condizioni: vi deve essere una ripetuta, confermata, volontaria richiesta da parte del malato; lo stato del paziente deve essere così grave da rendere intollerabile la sofferenza e non vi deve essere più alcuna possibilità di intervento medico; prima di praticare l’eutanasia il medico deve consultarsi con un collega esperto, che non abbia prima avuto in cura il paziente. Dopo la morte del paziente, il medico segnala il caso all’autorità giudiziaria: solo il procuratore del distretto può decidere se sono stati rispettati i criteri previsti e di conseguenza autorizzare la sepoltura senza intraprendere un procedimento penale nei confronti del medico.
4.11 L’evoluzione delle norme sull’eutanasia in Olanda costituisce un esempio di come un contesto culturale particolarmente attento agli interessi di tutte le componenti sociali (la gran maggioranza dei cittadini dei Paesi Bassi da tempo si è dichiarata favorevole alla depenalizzazione dell’eutanasia) e una posizione aperta e non dogmatica della professione medica possono consentire di raggiungere su questioni drammatiche delle soluzioni accettabili. È pur vero che sono segnalati circa 1.000 casi l’anno di eutanasia su pazienti che non avevano espressamente indicato la loro volontà in tal senso; essi devono certamente preoccupare e far riflettere, ma il fatto che si conoscano i termini del problema consente di intervenire per ridurli e se possibile eliminarli. Essi non stanno comunque ad indicare che l’Olanda si sia incamminata su un pendio scivoloso: possiamo, infatti, supporre che casi del genere si verificassero ben prima che la nuova normativa fosse accettata e che una pratica simile esista anche nei paesi nei quali l’eutanasia non è accettata.
4.12 L’eutanasia e il suicidio assistito, praticati in un contesto di precise regole e di controlli validi, ma non vessatori, nei confronti tanto del paziente quanto del medico, costituiscono un’espressione di libertà dell’individuo nel momento in cui egli giudica che la medicina non sia più in grado di migliorare il suo stato e che l’esistenza, ulteriormente prolungata, sarebbe intollerabile. È opportuno sottolineare come, in definitiva, solo l’essere umano pienamente cosciente sia in grado di decidere se la propria vita sia ancora degna di essere vissuta; donne e uomini sono responsabili delle loro vite e delle loro scelte e nessuno, medico, istituzione religiosa o società, può in ultima analisi imporre l’obbedienza a valori non condivisi.

Tenendo conto di tutto quanto detto in precedenza, una ponderata depenalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito non implicano necessariamente rischi incontrollabili per la società; conseguentemente dovremmo evitare di esprimere la nostra opinione in conformità a principi astratti e valori nei quali non tutti i cittadini di un paese sono tenuti a riconoscersi.
4.14 L’espressione di libertà implicita nella richiesta di eutanasia presuppone una completa e adeguata informazione e discussione fra medico e paziente sullo stato della malattia e sulle prospettive di vita e di morte, sempre che il paziente desideri essere informato fino in fondo sulle proprie condizioni. Non è immaginabile parlare di eutanasia quando, come avviene spesso in un contesto culturale quale quello italiano, si dicono al malato pietose bugie o gli si concedono mezze verità, ergendogli intorno una barriera che vorrebbe essere di protezione e che invece non fa altro che sottrarre al paziente dignità e libertà (quando non ha lo scopo principale di evitare ai familiari e al medico l’imbarazzante compito di affrontare con il malato argomenti sui quali essi non sono assolutamente preparati a discutere).
4.15 Certamente l’esperienza degli altri paesi e in particolare dell’Olanda, che ha depenalizzato l’eutanasia, deve essere studiata e trasferita in altre realtà sociali con estrema cautela. Riteniamo tuttavia che anche per l’Italia sia giunto il momento di affrontare la questione e di iniziare un cammino anche legislativo che stimoli la discussione tanto nell’opinione pubblica quanto nell’ambito dei medici, delle professioni sanitarie e delle chiese.

5 – Considerazioni etiche e pastorali

5.1 Da un punto di vista pastorale la distinzione tra eutanasia attiva e astensione terapeutica è importante e merita di essere sottolineata. L’astensione terapeutica infatti rispetta, pur non completamente, il tempo di attesa della morte, con una sua propria ritualità che l’accompagnamento pastorale conosce dalla tradizione. L’eutanasia attiva invece non rispetta questo tempo di attesa, ma lo anticipa. E questo anticipare implica un’azione diretta, immediata, da parte dell’intervento medico, che deve essere assunta in tutte le sue implicazioni.
5.2 Se l’etica medica può motivare e giustificare la sua azione sulla base di valutazioni antropologiche generali, è possibile motivare e giustificare questa stessa azione da un punto di vista pastorale? Quali argomenti possono essere addotti, in un’ottica etico-pastorale, per confutare o accettare la domanda del malato grave e la disponibilità del medico al suicidio assistito?
5.3 A queste domande non è facile dare risposte esaurienti. Probabilmente non esistono risposte esaurienti, né per chi intende motivare la scelta per l’eutanasia attiva, né per chi intende confutarla. Il conflitto tra principi e norme è sempre largamente soggettivo. Ciò che può permettere di dire di sì alla richiesta di un malato grave di interrompere la sua vita può nascere soltanto da una profonda relazione con il suo stato di sofferenza e di dolore. L’accoglienza di una domanda di suicidio assistito può essere assunta da un accompagnamento pastorale che tiene aperta la dimensione di conflittualità che tale decisione implica, per il malato inguaribile, per il medico, per la figura pastorale, per i familiari. Una conflittualità che tuttavia non può sottrarsi all’insistenza della domanda e alla percezione del dolore e della sofferenza che esigono una risposta nel qui e ora. Non si tratta di cercare giustificazioni o legittimazioni all’azione che si compie per difendere il "diritto alla vita" di chi vuole poter morire. Si tratta piuttosto di prendere atto che non vi sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti per opporre un rifiuto di principio. Ciò a cui non si può sfuggire è la domanda che l’altro mi rivolge con insistenza e che io percepisco in tutta la sua gravità.
5.4 Fino ad oggi, in ambito cristiano, a parte alcune eccezioni, è prevalso un giudizio negativo nei confronti dell’eutanasia attiva. Esso si fonda sulla Bibbia e soprattutto sulla morale cristiana, e si riassume nell’affermazione che Dio solo è colui che dà la vita e la può togliere, da cui l’affermazione dell’intangibilità o della "sacralità" della vita. Intervenire in questa relazione di vita e di morte vorrebbe dire "prendere il posto di Dio". Ma significa veramente sostituirsi a Dio accogliere la domanda di un malato grave che intende porre termine alla sua vita? Si sottrae a Dio una parte della sua signoria sul mondo e sulla vita accogliendo la richiesta di un malato grave di poter morire? O si mette in questione il potere acquisito dalla medicina moderna di mantenere in vita un corpo che produce dolore senza più poter accedere a un senso della vita? E ancora, dietro a questa onnipotenza della medicina non si nasconde una difficoltà ad affrontare la propria morte?

L’etica cristiana e la pastorale devono fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, devono assumerli fino in fondo, senza divagare, senza proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di autoredenzione. La sofferenza e il dolore non producono salvezza, sono dimensioni dell’esistenza umana da accettare, ma anche da combattere, in sé non hanno nulla di positivo. Ma ciò non va confuso con il fatto che molte persone si aprono alla fede nel tempo della malattia e della sofferenza e che sia precisamente questo tempo a gettare nuova luce sull’esistenza. Un tempo di malattia e di sofferenza che provoca nuovi interrogativi sulla vita e sulla morte, stimolo di nuova spiritualità, ricerca di fede che può assumere una dimensione terapeutica. La domanda di eutanasia attiva nasce anche su questo terreno, sul terreno di una fede viva e consapevole. E dal momento che la fede personale non è mai disgiunta da una relazione di comunità, il singolo ha bisogno del supporto relazionale delle persone che lo circondano e di quello della comunità cristiana di appartenenza.
5.6 Nell’ambito della pastorale si parla molto del rispetto della spiritualità del malato. Ma questo rispetto sembra arrestarsi improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di poter morire. Quasi che questa domanda nascesse da un mondo che non gli appartiene. Che cosa impedisce di leggere anche questa domanda come segno di una spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue promesse? Con quale autorità spirituale posso io contrastare la libertà e responsabilità di un altro di decidere il tempo della sua morte quando il vivere è un’umiliazione quotidiana senza speranza? Qual è la fonte dell’autorità che mi impone di costringere una persona inguaribile a continuare a vivere una vita di morte? Chi sono io per sottrarre al malato inguaribile questo diritto di poter morire? Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? Per quanto paradossale possa essere, in una tale situazione accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda della vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Il medico che accoglie questa domanda del malato inguaribile l’accoglie all’interno di un lungo processo di cura e di relazioni. Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni.

Roma, 7 febbraio 1998

Il Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza

.
Le riflessioni e le proposte di chiese, gruppi e singole persone vanno inviate al "Gruppo di lavoro sulla bioetica",
via Pietro Cossa 42, 00193 Roma; E-mail: fvt.rost@chiesavaldese.org.
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Il documento è stato pubblicato su Testi&Documenti del settimanale evangelico Riforma (n. 16 del 17 aprile
1998)
.
Il documento può essere liberamente riprodotto, in tutto o in parte, citando la fonte.

sabato 11 settembre 2010

ANCORA SUL SIGNORAGGIO BANCARIO




Il Signoraggio bancario, argomento del tutto ignorato dai nostri media. Si tratta di un argomento molto interessante, dal momento che anche l'italia, al pari delle altre nazioni europee, dalle vecchie "500 lire" con il mercurio alato (recante sul fronte la dizione: "repubblica italiana", è passata alle duemila lire di Galileo, recante sul fronte la dizione "Banca d'Italia". La Banca d'Italia, per la massima parte, è partecipata da istituti bancari privati. E qui sta la differenza. Si batte moneta sul nulla, creando un debito che si traduce in titoli di stato, attivando una spirale senza fine, costituita dagli interessi passivi, che si riversa sui cittadini attraverso un debito pubblico che rimane sostanzialmente costante, e la creazione di una spirale inflattiva senza fine. Si tratta di un cambiamento epocale, in economia. Dal quel momento il signoraggio delle banche nazionali, e di quella centrale, è divenuto un caso patologico, che rapina il cittadino, costituendolo quale "debitore finale". Ricevo e volentieri pubblico il seguente “dossier” sull’argomento.

IL SIGNORAGGIO BANCARIO E LA FRODE DEL DEBITO PUBBLICO
Il signoraggio è la più colossale truffa che sia mai stata organizzata nella storia. È il mezzo usato da pochi uomini per ottenere un potere supremo: il potere di controllare, governare, intere nazioni. Eppure probabilmente non sapete niente a riguardo, perché se i media non parlano di un argomento, questo di conseguenza è come se non esistesse. Ma il signoraggio è il problema mondiale più serio che esisti, perché è il padre di ogni malessere economico e sociale.

In parole povere:
Per emettere moneta, tutti gli Stati del mondo li hanno sempre chiesti in prestito a delle Banche Centrali private, che creano questo denaro dal nulla, semplicemente stampandolo.
Il debito pubblico, lungi dall'essere dovuto alle incompetenze dei politici, è in realtà il debito che lo Stato, noi, abbiamo nei confronti di queste Banche Centrali usuraie, e ammonta a tutta la moneta emessa, più gli interessi mai emessi.
Definizione di signoraggio
Il signoraggio è il reddito percepito da chi emette moneta, pari alla differenza tra il valore facciale della moneta, detto valore nominale, e il suo costo di produzione, detto valore intrinseco.


Il 98% della moneta circolante è moneta scritturale (vale a dire virtuale come assegni, carta di credito etc.), il restante 2% è moneta fisica, a sua volta costituita per il 98% da banconote e per il 2% da monete metalliche. Il valore intrinseco delle moneta scritturale è nullo (basta memorizzare i soldi nei computer). Per le monete metalliche il costo è di 20 cent circa a moneta, e per le banconote è sempre un valore irrisorio intorno ai 5 cent di euro (quanto costa la carta e l'inchiostro?).

È importante sapere che dopo il 15 Agosto 1971, con l'abolizione da parte del presidente Nixon degli accordi di Bretton Woods del 1944, la moneta emessa non ha nessuna contropartita aurea. Vuol dire che non esiste più convertibilità con le riserve di metalli preziosi come l'oro (nelle nuove banconote infatti non compare più la scritta "Pagabili a vista al portatore", proprio perché non si attinge più alla riserva aurea per creare moneta, e di conseguenza non può neppure essere convertita).
La moneta oramai viene creata dal nulla, semplicemente stampandola.
Con la abolizione delle riserve, la moneta non ha più un valore creditizio, ma un valore indotto, vale a dire prende forma dall'accordo e per convenzione di chi la utilizza come mezzo di scambio.
Siamo noi che diamo un valore alla moneta, tanto è vero che, come ha detto il professore di diritto Giacinto Auriti, se prendiamo un governatore e lo spediamo su un isola deserta a stampare moneta quella moneta non acquista un valore perché non c'è nessuno che la accetta e la utilizza.
Emissione della moneta

Arriviamo al nodo cruciale: chi crea ed emette la moneta?
Mentre le monete di metallo sono coniate ed emesse dallo Stato, la moneta scritturale e le banconote sono create, stampate, dalle Banche Centrali Nazionali (nel nostro caso Bankitalia SpA per conto della Banca Centrale Europea o BCE, in America la Federal Reserve, in Inghilterra la Bank of England) che sono però banche private a tutti gli effetti (su Bankitalia leggetevi anche questo).

Analizziamo la truffa: come avviene l'emissione del denaro della Banca Centrale

L'emissione del denaro da parte della Banca Centrale, avviene solo in contropartita a Obbligazioni emesse dallo Stato al corrispettivo valore, che la nostra BC (Bankitalia) acquista indirettamente attraverso l'acquisto di titoli di stato sul mercato di questi titoli.
Semplice esempio: quando lo Stato ha bisogno di un milione di euro, emette titoli di Stato (come BOT, CCT etc..) da un milione di euro. Per chi non sapesse cosa sono questi titoli: sono come dei "pagherò" che alla scadenza (hanno una vita che può variare da 3 mesi ad alcuni anni) lo Stato ripagherà ai loro proprietari, dandogli capitale più una percentuale di interesse (a seconda del titolo).
Quando Bankitalia acquista questi titoli dal valore di un milione, crea un milione di euro dal nulla (stampa in banconote solo il 2%) e lo cede allo Stato, che a sua volta paga gli stipendi i sevizi etc...
La Banca Centrale ora proprietaria di questi titoli, può subito venderli alle banche e ai risparmiatori. In ogni caso, una volta scaduto il periodo di vita, lo Stato dovrà dare al possessore dei titoli il capitale più una percentuale di interessi.

Per semplicità ho tralasciato il tasso di sconto, cioè l'interesse sul prestito di denaro deciso dalla BCE stessa!

Ecco la colossale truffa: la Banca Centrale si appropria del reddito da signoraggio di tutta la moneta emessa (sia scritturale che le banconote). Questo è testimoniato dal fatto che ponga al passivo nel suo bilancio tutta la moneta emessa non come sarebbe corretto al valore tipografico, ma al suo valore nominale.

Si comporta come se la moneta fosse di sua proprietà all'atto dell'emissione, come se ci fosse ancora una riserva a cui attinge per creare denaro. Ma quella riserva non c'è più!

Inoltre, non c'è nessuna norma né Europea né Italiana, che dica di chi è la proprietà della moneta. Dopo l'abolizione degli accordi di Bretton Woods, la moneta perde il valore creditizio, non rappresentando più un debito per la banca. Di conseguenza, avendo un valore indotto, la proprietà della moneta appartiene alla collettività.

La Banca non può (per logica) prestare quel denaro poiché non è di sua proprietà, ma purtroppo avviene proprio così.
Facendo leva sul riflesso condizionato causato dall’abitudine secolare di dare sempre un corrispettivo per avere denaro, le banche centrali hanno emesso la moneta col corrispettivo del debito, cioè “prestandola”. In tal modo i grandi usurai non si sono solo limitati ad espropriare i popoli dei valori monetari, ma li hanno indebitati di altrettanto, caricando, sin dall’origine, il costo del denaro del 200%.
[...]
La riserva aveva un significato quando la banconota era convertibile in oro a richiesta del portatore. È diventata ormai una ridicola sceneggiata, per mascherare la truffa dell’emissione con cui la banca centrale consegue un arricchimento parassitario pari alla differenza – duplicata dall’equivalente prestito – tra costo tipografico e valore nominale della moneta. (Giacinto Auriti)
[http://www.signoraggio.info/sovranita_monetaria_auriti.htm]



Il debito pubblico, è quindi il debito che lo Stato ha nei confronti di questi banchieri usurai, e ammonta a tutta la moneta emessa (prestatandola!) dalla Banca Centrale, più gli interessi, che la Banca non crea e non stampa.

Centinaia di migliaia di milioni di euro ogni anno vanno via, per pagare un debito che è in realtà fondato su una frode: il signoraggio bancario. La maggior parte delle tasse che paghiamo servono, secondo i politicanti amici dei banchieri, a pagare questo debito, che come abbiamo visto proprio debito per noi non è.
Signoraggio, Esempio in soldoni
(di Sandro Pascucci)
lo Stato prende in prestito una banconota da €100 euro dalla Banca Centrale e la «paga» con una «obbligazione» da €100. A fine anno dovrà «drenare» dalla popolazione quei €100 per restituirli al legittimo proprietario (che è il Bankiere Internazionale), più gli interessi, diciamo un 2,5%. La Banca Centrale ha stampato quella banconota spendendo (tutto compreso) 30 centesimi di euro (quindi era solo un pezzo di carta, una merce come un altra, come un biglietto del cinema) mentre la banconota da €100 (+2,5%), che lo Stato restituisce alla Banca Centrale, l'ha tolta a noi ed essa è frutto del nostro lavoro, delle nostre fatiche, del nostro sudore, insomma è pregna di valore e impegno umano! La Banca Centrale è una tipografia e si comporta come se fosse la padrona della banconota! Ve lo immaginate l'impresario di un teatro che si sente dire dal tipografo: «Considerato che l'ingresso al tuo spettacolo «vale» €40 allora i biglietti da me stampati te li affitto e me li paghi €41» !
Ergo:
il signoraggio su una singola banconota è di €102,5 - €0,30 = €102,2
Fate Voi i conti.. e questa è la punta dell'iceberg, sotto, celata e forse più pericolosa, c'è la riserva frazionaria. [www.signoraggio.com]

Dove sono gli enormi profitti della truffa del signoraggio?
Essi sono, [alla Megan] tutt'intorno a te. Il signoraggio è nelle banconote che usi, tutte di proprietà BCE - come chiaramente scritto sopra!! - è nelle tasse che paghi, nei servizi che non hai, nei serbatoi vuoti delle auto della Polizia, nelle stampanti dei tribunali ferme per mancanza di carta, nelle mani vuote dei barboni per strada, nelle lacrime delle vedove e degli orfani di chi si è ammazzato per insolvenza... il signoraggio è nei conti correnti segreti delle Cayman, nel mutuo che stai pagando, nell'aria inquinata che respiri - aria inquinata dalla combustione del petrolio, noto veicolo di riciclaggio dei dollari-carta-straccia, è nei magazzini-pieni-di-invenduto per l'anemia finanziaria di cui la Società tutta soffre, Società che pur li ha costruiti, quei magazzini, e poi li ha riempiti col lavoro dei suoi cittadini... il signoraggio è celato dalla partita doppia, che bilancia una banconota da 30 centesimi con un Titolo di Stato - che rappresenta il nostro futuro lavoro. Il Grasso Bankiere paga con 30 centesimi un'ora del tuo tempo, della tua vita... e tu mi vieni a chiedere dov'è il signoraggio? ma per favoreee...
[Sandro Pascucci www.signoraggio.com]


Ma il signoraggio non ha solo la funzione di arricchire questi banchieri internazionali, è anche un metodo e un mezzo di controllo della massa, con la schiavitù che ne deriva.

La soluzione è semplice: bisogna prendere coscienza che la proprietà della moneta appartiene al popolo, a noi, e non può quindi esserci prestata dalle Banche. Dobbiamo ottenere la nostra sovranità monetaria, e non affidarla a delle banche usuraie.
Il signoraggio derivante l'emissione della moneta deve essere nostro, come dovrebbe essere nostro il denaro che abbiamo fra le mani. Il signoraggio andrebbe accreditato ad ognuno come reddito da cittadinanza.
Attualmente i politici e i media sono sotto il controllo di questi banchieri usurai, e non hanno nessuna intenzione di far trapelare una verità tanto sconvolgente. Alcuni grandi politici si opposero a questo sistema di indebitamento, stampando denaro di Stato, e non preso in prestito alle Banche Centrali. È il caso del presidente degli Stati Uniti Lincoln e del presidente Kennedy. Furono entrambi assassinati.