martedì 31 gennaio 2012

MA NON E' UNA COSA SERIA (the italian way ai tagli alla politica)

La sforbiciata da 1.300 euro lordi al mese evita che con il contributivo i deputati ottengano buste paga più alte. (!)
       

Via al taglio degli stipendi per i politici. Oppure no? Andando a studiare bene la sforbiciata approvata ieri si scopre che a fronte dei circa 200 parlamentari più importanti (dai presidenti di Camera e Senato ai presidenti di commissione) - per cui scatta un taglio del 10% dello stipendio pari a 300-400 euro in meno al mese per un risparmio complessivo delle due Camere valutabile in 7/800 mila euro - il deputato «semplice» continuerà a guadagnare circa 5.000 euro netti per la sola indennità grazie ad un taglio nominale di 1.300 euro lordi al mese che saranno accantonati in un fondo ad hoc. Al netto, in pratica, non cambia nulla.
L'escamotage. Com'è possibile? L'operazione serve ad impedire che - a causa del nuovo sistema di calcolo contributivo delle loro pensioni che si può scaricare dalle tasse - i deputati potessero ottenere paradossalmente buste paga più pesanti. In sintesi: per la maggioranza dei peones gli introiti rimarranno gli stessi mentre i parlamentari più importanti ci rimettono qualcosa. Ma vediamo nel dettaglio le decisioni prese ieri dall’ufficio di presidenza della Camera cui oggi dovrebbe adeguarsi anche il Senato. Sui tagli delle loro spese le due Camere hanno infatti deciso di procedere in parallelo, per evitare disparità nei trattamenti di deputati e senatori. Il nuovo regolamento conferma anche che dal primo gennaio 2012 è sparito il vecchio e convenientissimo vitalizio ed è partito il calcolo della pensione dei parlamentari con il sistema contributivo. Un sistema che dovrà essere applicato anche ai dipendenti del Palazzo e che, come detto, per Montecitorio comporterà un taglio apparente delle indennità di 1.300 euro.

«Sacrifici». Un escamotage, quest’ultimo, per evitare che i tagli ai costi della politica, con il conseguente adeguamento del trattamento pensionistico dei parlamentari a quello del resto degli italiani, determinassero un aumento dell’assegno mensile del deputato che sarebbe emerso grazie al diverso trattamento fiscale dei versamenti contributivi. Nel caso dei vitalizi, infatti, la trattenuta veniva tassata mentre i versamenti contributivi sono deducibili cioè procurano un calo delle tasse. I 1.300 euro in meno, in ogni caso, verranno depositati in un fondo a tutela di eventuali ricorsi. «Si tratta di scelte sagge ed equilibrate - dice Renzo Lusetti - segretario di presidenza - in linea con i sacrifici che abbiamo chiesto agli italiani».

I portaborse. Alla Camera (il Senato lo farà oggi), è stato inoltre deciso che potrà essere rimborsata in modo forfettario solo la metà dei contributi versati dal Parlamento per gli assistenti parlamentari. L’altra metà dovrà essere giustificata con fatture. «Entro un mese» annuncia inoltre il questore della Camera, Antonio Mazzocchi, presenteremo una proposta di legge per regolamentare la figura dei cosiddetti portaborse. Quanto ai deputati, uno studio esaminato dall’Ufficio di Presidenza della Camera dovrebbe finalmente porre fine all’infinita polemica sui guadagni dei parlamentari italiani comparati a quelli dei loro colleghi euroepi. I deputati italiani, infatti, secondo questo studio possono contare su una indennità mensile di circa 5.000 euro netti (escluse le diarie giornaliere) a fronte dei 5.035 euro dei colleghi francesi, dei 5.110,31 euro dei tedeschi e dei 6.200 euro dei parlamentari europei.

Tetto per i manager pubblici. Per i dirigenti di authority, ministeri, agenzie, società pubbliche di vario titolo (ma non per Eni, Enel, Poste e altre aziende quotate) sta per scattare un tetto agli stipendi. I manager pubblici non potranno guadagnare più di circa 310mila euro lordi l’anno, ovvero della retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. (ma come, solo 310.000 euro l’anno? Non saranno pochini?) Poveracci.

Fonte: Il Messaggero ©Riproduzione riservata

venerdì 27 gennaio 2012

THE ITALIAN WAY

Riporto di seguito un magnifico articolo del popolare analista dei mercati Eugenio Benetazzo: si tratta della consueta lucida dissertazione questa volta mirata sugli ultimi provvedimenti del governo Monti e l’isterica e italiota reazione delle consorterie italiane, ancorate a filo doppio alle loro rendite di privilegio. Sposo, avendolo già fatto per iscritto in post precedenti, completamenti le tesi di Benetazzo: alla rivolta dei camionisti e dei taxisti si contrappone fortunatamente, come sottolineato dall’autore, il fatto che l’Italia, anche se qualcuno cerca di non accorgersene, sta acquistando, per la prima volta nella storia della UE, un ruolo di primo piano, al punto che Monti è l’unica figura affiancabile a Merkel e Sarkozy. Non trascuriamo questo aspetto, i mercati non lo fanno, non commettiamo noi l’errore di non valorizzare un momento felice della nostra politica economico finanziaria. E quando in TV fanno la loro comparsa quegli stessi giornalisti che qualche mese fa non volevano sentire parlare di contrazione economica, minimizzando il tutto, da un mese a questa parte si sono perfezionati nell’arte del disfattismo catastrofista: continuano a fare paragoni con la Grecia, paventando l’ellenizzazione dell’Italia, non comprendendo che un confronto tra noi e i greci è completamente impraticabile. Balbettano di economia non possedendo la minima cultura del settore, illustrando al pubblico la situazione finanziaria italiana nello stesso modo in cui potrebbe farlo un tabloid scandalistico. Non sanno distinguere una azione da una obbligazione, parlano di realtà che non conoscono. Un motivo di più per considerare un odiosa gabella il pagamento di un canone che è in assoluto l’imposta più irrazionale e iniqua. Lavorano poco, lavorano male, dobbiamo anche sostentarli…

Il nostro paese soffre di una malattia congenita sin dalla sua nascita: la sindrome nimby (not in my backyard). Siamo tutti pronti ad alzare la voce per richiedere ed esigere grandi cambiamenti e le tanto sospirate riforme di cui sentiamo parlare ormai da almeno due decenni, tuttavia importa solo che queste riforme non ridimensionino, incidano o compromettano il nostro orticello di casa o la nostra sfera personale. Vista l'escalation di lamentale, disagi e proclami da quasi tutti i contribuenti, risparmiatori, imprenditori, professionisti e pensionati possiamo percepire che la nazione è sulla via del cambiamento, rinnovamento e speriamo a breve anche del miglioramento. Ma davvero credevate di riformare il paese senza creare malessere e dissidi per milioni di italiani ?

Nella penisola a forma di stivale ci sono centinaia di caste, al cui confronto quella politica è veramente poca cosa, ed è proprio per questo che siamo stati imballati per decenni, a causa di convenienze e piaggerie sempre di parte, indissolubili e radicate nel territorio in ogni forma e sorta. Alla fine siamo quasi tutti mafiosi se ci pensate, ed essere mafiosi non significa sparare con la lupara indossando la coppola, ma difendere e proteggere con l'arroganza un privilegio da qualcuno (etimologicamente il termine “mafia” deriva dalla parola islamica “mahyas” ovvero arroganza e prepotenza). Il nostro passato storico e la nostra genetica antropologica ci dimostra che noi italiani della rappresentanza democratica, del confronto dialettico, della critica costruttiva, della concertazione collettiva non ce ne facciamo proprio niente. Anzi, più diamo spazio a queste rappresentazioni di governance democratica (almeno sulla carta), più ci facciamo male.

Siamo una pseudo nazione nata dall'aggregazione forzata di venti popolazioni obbligate a stare assieme con cultura, tradizioni, costumi ed usanze una diversa dall'altra. Per questo motivo abbiamo avuto bisogno in diversi momenti della nostra storia di un imperatore, di un feudatario, di un aristocratico, di un duce, di un tycoon televisivo ed oggi di un primo ministro tecnico. Nel nostro subconscio, da italiani abbiamo bisogno di qualcuno che “antidemocraticamente” dall'alto dei cieli ci dica “così si deve fare e così si fa”. Anche se sembra un pensiero brutale, purtroppo rappresenta una verità scomoda e inconfutabile. Con grande presunzione, dopo la delusione del decreto Salva Italia, con il decreto Cresci Italia il paese avvertirà dei benefici sostanziali già entro i prossimi due anni. Mi auguro che anche il mercato del lavoro sia oggetto di una così forte stringente riforma strutturale. Ogni cambiamento solitamente preoccupa chi ha privilegi, chi ha qualcosa da difendere, chi ha vissuto senza correre grandi rischi o beneficiato di posizioni di rendita.

Certo alcuni punti di questi interventi potevano essere gestiti con diverse tempistiche e modalità di attuazione (vedi il caso delle licenze ai taxi), ma ancora una volta emerge lo spirito dell'italian way: siamo bravissimi tutti a criticare, ma sono veramente pochi quelli che poi sanno governare. Il calcio insegna: sessanta milioni di opinionisti e contestatori contro un solo allenatore della nazionale. Sul fronte bancario potremmo proporre lo stesso assunto: il decreto Salva Italia (o meglio dire Salva Banche) ha rappresentato non una delle possibili manovre da intraprendere, ma l'unica manovra da proporre, nonostante lo scontento e il mormore popolare ovvero salvare anche con interventi palesemente di parte, manovre di cortesia e di indubbio favore il sistema bancario italiano e non solo. Scusate, tra di voi vi è qualcuno che desidera ardentemente che la sua banca fallisca, l'euro affondi e i suoi risparmi accantonati da una vita si polverizzino ?

Come Henry Paulson per gli USA nel 2008 anche Mario Monti ed il suo contestato governo ha fatto quello che si doveva fare per salvare la pompa del sistema economico: ovvero mettere a disposizione delle banche l'intera economia nazionale, dando il tempo e gli strumenti necessari per riprendersi, nell'interesse indiretto anche di tutti i detentori di risparmio. Forse si sarebbe potuto gestire il tutto con un diverso approccio, magari congelando gli interessi sui titoli di stato detenuti dagli investitori non residenti, ma alla fine dobbiamo anche comprendere che quest'uomo è stato imposto non solo per salvare le banche europee, ma anche e soprattutto per proteggere l'integrità strutturale dell'euro a fronte del subdolo attacco portato avanti dagli Stati Uniti per indebolire la nostra divisa, destinata a compromettere l'egemonia valutaria del dollaro nei nuovi paesi che in futuro traineranno l'economia planetaria.

Per quanto concerne dopo i poteri forti e le ossessive tesi complottistiche  sbandierate da alcuni talk show italiani e i loro conduttori, forse ci si dovrebbe soffermare a riflettere se veramente si può oggi parlare di complotto dell'Europa contro l'Italia. Al momento attuale casomai mi sento di dire che è l'Italia a potersi permettere, se volesse, di complottare contro l'Europa, se ci pensate infatti i tre uomini istituzionali più potenti del momento sono proprio italiani. Mario Draghi alla BCE, Mario Monti in Italia (pensate all'accoglienza ed al consenso che ha ricevuto al London Stock Exchange) e Andrea Enria all'EBA (la nuova autorità di vigilanza bancaria in Europa). Con il recente downgrade della Francia e la perdita continua di consenso della Merkel in Germania, la maggior parte di noi non se ne è ancora accorta, ma dopo l'era Berlusconi, il nostro peso, ingerenza e prestigio in Europa come italiani sta sorprendentemente cambiando. Anche a nostro favore.

Eugenio Benetazzo – eugeniobenetazzo.com

Se questo non fosse sufficiente, riporto quanto scritto sul più autorevole quotidiano finanziario del mondo , il “Financial Times” nell’edizione del 27 gennaio.  Il titolo suona pressappoco così: “L’Europa si appoggia sulle spalle di Mario Monti”. Non è tutto oro, lo sappiamo bene, ma rimane un fatto che l’Italia, dopo vent’anni di assenza, ritorna in primissimo piano sul proscenio politico economico e finanziario non solo d’Europa, ma del mondo. Merkel, Sarkozy e Monti sono le tre figure di riferimento per la conduzione, la continuazione e la sopravvivenza non già dell’euro ma dell’Unione Europea intera. Non è poco, in un paio di mesi.
L'Europa si appoggia sulle spalle di Monti". Cosi' titola un editoriale del Financial Times, secondo il quale "l'Italia e' tornata. La tedesca Angela Merkel e' al vertice del potere europeo. Il francese Nicolas Sarkozy puo' considerarsi il piu' energico dei leader europei. Mario Monti e' il piu' interessante. Dopo un'assenza durata circa 20 anni l'Italia e' tornata in scena. Il futuro di Monti potrebbe essere quello dell'Europa".
"La grande questione - conclude il FT - e' se l'Europa e' in grado di competere in un mondo nel quale l'Occidente non e' piu' dominante. Per questo quello che Monti sta facendo in Italia e' veramente importante". "C'e' stato un tempo - spiega il FT - in cui l'Italia aveva qualcosa da dire in Europa". "L'era di Silvio Berlusconi ha messo fine a questa influenza".
"Mr Berlusconi - prosegue il FT - prendeva in giro l'aspetto della signora Merkel. Mr Monti parla con lei di economia". "Monti conta perche' e' in Italia che le prospettive a lungo termine dell'euro saranno decise". "Monti ha un paio di carte da giocare. Le sue misure di austerita' si stanno gia' dimostrando impopolari, ma i politici italiani eletti non sono in buona salute. Per cui Monti pensa di avere un altro anno - prime delle elezioni previste nella primavera del 2013 - per realizzare la sua strategia".
"La seconda carta e' che puo' parlare il linguaggio della verita' con la Germania". "Non c'e' nessuna garanzia che Monti riuscira' a farcela. I grossi tagli di spesa e l'aumento delle tasse sono una cosa. Ma il vero test saranno le liberalizzazioni" e "non sara' facile".
The Financial Times – 27/01/2012

ULTIM’ORA
La cosiddetta “agenzia di rating” FITCH, l’unica a maggioranza di capitale europeo (cioè francese, guarda caso), ha abbassato il rating dell’Italia di due notch, portandolo ad “A-“ con il solito outlook negativo. Ora, prescindendo dal fatto che le agenzie di rating non se le fila più nessuno, tanto meno i mercati, la decisione di Fitch appare quanto mai intempestiva. Stiamo attraversando, dall’inizio della contrazione economica, il 2007, il primo (e speriamo non l’unico) periodo positivo sotto ogni aspetto. Oggi lo spread è sceso sotto i 400 punti, Piazza Affari ha conosciuto una settimana costantemente sopra i 16.000 punti di contrattazioni, i titoli bancari non sono mai andati così bene. Il governo tecnico di Mario Monti ha ottenuto il riconoscimento e il rispetto dovuto agli esecutivo di alto profilo non solo dalle istituzioni europee, ma dal mondo intero. In questo trend del tutto positivo, per la prima volta con un outlook neutrale, l’evitamento di un credit crunch, e la prima, timida, luce che si intravvede al di là del tunnel, i quattro energumeni di Fitch, dall’alto della loro millantata competenza, ci fanno scendere di due gradini. Sono patetici. I mercati se ne infischieranno dei giudizi di Fitch, come delle altre due agenzie, completamente discreditate e dilaniate da un paradossale, smisurato conflitto di interessi. I loro giudizi sono carta straccia, hanno finito di condizionare i mercati e le politiche economiche e finanziarie del mondo occidentale. Dirò di più. Le recenti ispezioni della Guardia di Finanza disposte dalla procura di Trani a Standard & Poor’s e Moody’s hanno messo in rilievo la possibilità del reato, assai verosimile in questo caso, di “insider trading” e quello, ancor più grave, di “aggiotaggio”. E’ precisamente quello che stanno facendo le tre sorelle del rating. Sfruttano i loro stessi giudizi per alimentare attività speculative nelle quali sono loro stesse coinvolte (insider trading) e manipolano ad arte indicatori e strumenti finanziari allo scopo di condizionare i mercati a loro favore (aggiotaggio). E’ difficile comprendere il motivo per il quale questi sabotatori finanziari continuino ad operare e non siano fermati da una corte di giustizia internazionale.

martedì 24 gennaio 2012

BREVE ANALISI DEL DECRETO CRESCI ITALIA

Ospito volentieri l’articolo di Carlo Scalzotto, pur non essendo, nella sostanza, d’accordo con quanto afferma. Il fatto che il decreto sulle liberalizzazioni abbia conosciuto troppe retromarce, troppe esitazioni, qualche eccesso di zelo nei confronti di alcune corporazioni corrisponde purtroppo al vero. L’Italia è il paese ingessato dalle corporazioni che, grazie alle loro situazioni monopolistiche o oligopolistiche, hanno tratto vantaggi e prebende dalle loro rendite di posizione. Uno sviluppo economico in assenza di un mercato del lavoro e delle professioni veramente libero non è pensabile. Il solo fatto di impedire ad altri, ulteriori soggetti di fare ingresso nella competizione del mercato, costituisce un privilegio economicamente inaccettabile. Parliamo di notai, avvocati, farmacisti, taxisti, psichiatri e psicoananalisti ecc. Il problema delle banche è però diverso. Vero è che il decreto sfiora le banche con il guanto di velluto, ma occorre tenere presente che la sorte dei nostri istituti di credito è anche, alla fine, la nostra sorte. Il 2012 è l’anno delle grandi sofferenze bancarie. Se non capiamo questo non possiamo comprendere appieno l’attuale congiuntura. Dobbiamo fare in modo che le nostre banche siano assolutamente salvaguardate da qualsivoglia rischio di fallimento. Guai se ciò dovesse accadere! In quanto soggetti privati, le banche, i risparmiatori, gli investitori, insomma noi tutti, saremmo coinvolti nella ristrutturazione del debito, che significa un haircut dei nostri stessi risparmi di almeno un 25% di quanto da noi detenuto. La salvezza delle banche corrisponde, volenti o nolenti, alla nostra stessa salvezza. Pubblico l’articolo seguente semplicemente perché descrive molto bene e con professionalità un punto di vista, anche se non sempre condivisibile.
Il decreto di liberalizzazioni approvato dal Governo Monti è riuscito ad aprire settori della nostra economia finora difficili da toccare.
Tra i motivi del ritardo con cui l’Italia vara queste norme c’è stata senza dubbio la consistente presenza di rappresentanti delle professioni tra le sedie del Parlamento: in Camera e Senato abbiamo 341 tra avvocati, giornalisti, medici, ingegneri, commercialisti, architetti, notai e farmacisti. Si tratta del 36% dei nostri parlamentari, che saranno presto chiamati a sostenere un decreto che li riguarda personalmente, ma che soprattutto interviene su
attività che contribuiscono al PIL fino al 22%.
Le liberalizzazioni favoriranno la crescita, come dimostrato da numerosi studi. Proponiamo alcune letture riguardo la struttura di mercato e le performance del commercio al dettaglio. È stato dimostrato, sia nel caso della Francia che in quello dell’Italia, che restrizioni all’entrata per i grandi negozi non sembrano aiutare i piccoli commercianti, dal momento che le grandi catene di vendita al dettaglio rispondono alle restrizioni aprendo negozi di minori dimensioni, creando condizioni concorrenziali difficili da sostenere; inoltre, un’eccessiva regolamentazione fa diminuire la crescita occupazionale. Altri studi dimostrano come, nel caso inglese, le regolamentazioni restrittive all’ingresso riducano il numero di grandi supermercati e causino un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, con conseguente perdita di benessere per i consumatori.
Un ultimo studio sulle farmacie in Belgio mostra come le restrizioni all’ingresso abbiano avuto un impatto negativo sul benessere dei consumatori e che l’intensa regolamentazione non sia riuscita a garantire la disponibilità dell’offerta su tutto il territorio: con regole meno restrittive si potrebbero avere il doppio delle farmacie, più posti di lavoro ed una migliore copertura territoriale.
Tutte le liberalizzazioni decise dl governo Monti sono note e promettono di aumentare la concorrenza in molti settori: ma i cittadini si chiedono semplicemente quanto potranno ricavare in termini economici dal Decreto Cresci Italia. L’Osservatorio Nazionale della Federconsumatori ha provato a calcolare i possibili risparmi destinati ai consumatori, cercando di capire quali sono i potenziali benefici per ogni singola famiglia. I dati sono senza dubbio incoraggianti. In effetti, le agevolazioni destinate a ogni singolo nucleo familiare ammonta a 946 euro: ovviamente, si tratta della somma che si ottiene dai vari risparmi per le varie categorie professionali che sono coinvolti da questo pacchetto di misure. Anzitutto, bisogna ricordare che le famiglie italiane hanno ornai raggiunto i ventiquattro milioni complessivi, con 2,5 componenti in media e una spesa annua di oltre 29mila euro. I 946 euro appena menzionati non sono altro che il totale di tanti minori costi: si tratta, nello specifico, dei 116 euro dei carburanti, dei 184 relativi alle professioni (il riferimento non può che andare a notai e avvocati), dei 247 per quel che concerne il commercio, senza dimenticare le assicurazioni (114 euro), le farmacie (42 euro), i trasporti (48 euro), i taxi (86 euro) e la bolletta energetica (altri 109 euro). In aggiunta, non va dimenticato un altro risparmio fondamentale per il nostro paese, vale a dire quello del prodotto interno lordo (1,5 punti percentuali). La stessa Federconsumatori e l’Adusbef non potevano che giudicare in maniera positiva queste stime, riconoscendo, nonostante tutto, la possibilità di intervenire con maggiore coraggio per venire incontro alle necessità più urgenti delle famiglie importanti. Ora guardiamo nello specifico il comparto bancario e gli effetti sulle banche colpite di striscio, anzi, lambite a malapena, con una certa fatica le banche si accorgeranno del varo del pacchetto liberalizzazioni. Il governo aveva promesso la metamorfosi del Paese, a partire dall’erosione di tutte le rendite di posizione acquisite nel corso degli anni all’interno di ogni settore della vita pubblica ed economica del Paese (e può darsi che, in parte, abbia tenuto fede all’impegno); eppure, sul fronte dei privilegi di cui godono gli istituti di credito manifesta un atteggiamento schizofrenico. “Non mi sorprende che il governo dei banchieri non abbia toccato le banche”, commenta, raggiunto da ilSussidiario.net Gianni Dragoni, inviato de Il Sole 24 Ore, autore del recente “Capitani coraggiosi – I venti cavalieri che hanno salvato Alitalia e affondato il Paese” (ed. Chiarelettere). “Del resto, tra i ministri di spicco dell’esecutivo – continua  – vi è Corrado Passera, che difficilmente potrebbe scardinare il sistema di potere e reddito degli istituti di credito”. A parole, Monti si era impegnato, in parte, a farlo: “Quando il presidente del Consiglio annunciò 30 miliardi di nuove tasse, disse anche che avrebbe cercato di indurre le banche e le società di carte di credito a ridurre le commissioni; anche perché da lì a poco sarebbero aumentati i pagamenti per via elettronica, in virtù della misura che vieta quelle in contanti sopra i mille euro. Non mi pare che ci siano state iniziative in questa direzione”.
Secondo Dragoni, l’esecutivo avrebbe potuto agire anche su altri versanti. “Avrebbe potuto, ad esempio, chiedere maggiore trasparenza relativamente ai costi dei conti correnti, o stabilire dei tetti per quelli delle operazioni bancarie”. Il perché di una tale remissività è semplice: “Il governo nei confronti dei cittadini e degli elettori ha un atteggiamento paternalistico, ma sta dalla parte dei più forti”. Alla banche è stata data copertura per l’emissione di obbligazioni. Alcuni sostengono che avrebbe potuto fare altrettanto peri prestiti alle imprese. “Personalmente – dice Dragoni – credo che se tutta l’attività bancaria dovesse ottenere garanzie di copertura, si determinerebbero per l’amministrazione pubblica rischi enormi legati alla possibilità di insolvenza delle aziende”.  Secondo Dragoni, tuttavia, si è ancora in tempo per introdurre dei provvedimenti tali da facilitare lo sblocco del credito alla produzione. “Ad esempio, si potrebbe vincolare la copertura delle obbligazioni a una quota minima di credito erogato alle imprese”.
Del resto, il governo ha modo di intervenire, non necessariamente attraverso delle leggi. “Da più di un anno le banche italiane si riempiono le tasche di titoli di Stato, nonostante questo diminuisca il loro valore azionario. E’ evidente che qualcuno le ha spinte a farlo. Quel qualcuno – prevalentemente l’autorità politica – potrebbe anche invitarle ad aver maggior attenzione per il credito alle imprese.
Carlo Scalzotto – tradingnostop.finanza.com

ANCORA E SEMPRE BUGIE DALLA MERKEL

In questi mesi e settimane ci siamo divertiti a smascherare il presunto virtuosismo di una Germania che nella sua elite politica da il peggio di se, un Paese per molti versi ammirevole, un Paese stimabile per l’attenzione all’ Ambiente e alla Famiglia, spesso assente in Italia, capace di una disciplina che talvolta servirebbe anche nel nostro Paese.
Si parla di bugie spesso ricorrenti nelle statistiche che riguardano il mercato del lavoro che TAZ, autorevole quotidiano tedesco indipendente di orientamento politico di sinistra fondato da una cooperativa di lavoratori oltre 30 anni fa, sempre molto attento alle questioni sociali e ambientali, mette in risalto in un suo recente articolo.
L’anno comincia, in teoria, bene per il paese che vuole dettare al resto dell’Europa la disciplina della stabilità: i dati ufficiali sull’occupazione in Germania sembrano a prima vista incoraggianti, con 41,7 milioni di persone con un lavoro, mai un numero così alto, e “neanche” tre milioni di disoccupate/i (circa 2,9).
Ma il dato è ingannevole, perché nel conteggio della disoccupazione non compaiono svariate “categorie” di persone come i disoccupati di età maggiore a 58 anni (ca. 360.000), quanti e quante lavorano meno di 15 ore a settimana, i lavoratori sociali saltuari, chi frequenta corsi di formazione (in attesa di rioccupazione), chi si avvale di agenzie del lavoro private (ca. 143.000) e non viene riportato nella statistica dell’agenzia del lavoro pubblica (Bundesagentur für Arbeit) e altri e altre, il che porterebbe il totale dei disoccupati a 3,8 milioni di unità, come si evince dal resoconto di dicembre 2011 dell’agenzia del lavoro.
Anche a esaminare la cifra degli occupati si scopre che l’aumento è dovuto all’incremento senza precedenti del lavoro a tempo parziale e in affitto: come rivela un interessante articolo della Taz, quotidiano autorevole di Berlino (Le bugie dei tedeschi, 3 gennaio), in realtà a lavorare sono sì più persone, ma in media per meno ore (57,7 miliardi nel 2000 contro i 57,43 del 2010). Si scopre così secondo l’Ufficio statistico (Statistische Bundesamt) che 8,4 milioni di persone sono “sottooccupate”, cioè vorrebbero lavorare di più (probabilmente per guadagnare di più), una tendenza che si registra in modo preoccupante anche tra quanti lavorano a tempo pieno (2,1 milioni). Circa 1,2 milioni di persone è la cifra stimata della cosiddetta “riserva silenziosa”, cioè di disoccupati non registrati presso l’agenzia del lavoro.
A inficiare l’ottimismo della situazione del mercato del lavoro contribuiscono i circa 1,7 milioni di lavoratori che devono farsi integrare la misera busta paga con un sussidio statale. Secondo la Taz, non è vero che è stata creata nuova occupazione: “è stata una decisione ingannevole pensare di poterlo fare con la riforma del mercato del lavoro” introdotta dal governo di Spd e verdi guidato dal socialdemocratico Schröder. Quella riforma “ha espropriato i lavoratori e ridotto il loro potere di contrattazione”, aggiunge la Taz. In effetti, la famigerata riforma che porta il nome del suo creatore Hartz, Spd, già membro del consiglio di amministrazione di Volkswagen e coinvolto nello scandalo della corruzione del consiglio d’azienda, e appositamente convocato da Schröder a rivoluzionare il lavoro in Germania all’inizio degli anni 2000, ha introdotto, di fatto, la flessibilità.
Andrea Mazzalai – Icebergfinanza

domenica 22 gennaio 2012

SEGNALI INCORAGGIANTI PER IL GOVERNO MONTI: BRUNETTA INVOCA ELEZIONI SUBITO

E’ giocoforza attivare uno spostamento  di visuale rispetto a Mario Monti e al suo operato. Le ultime vicende, internazionali e non, ci hanno persuaso che l’esecutivo Monti sia il migliore possibile. Il che non significa che Monti le abbia azzeccate tutte. Tutt’altro. Ma con una classe politica come la nostra, se si fosse andati alle urne con il porcellum ci saremmo ritrovati in una situazione non lontana da quella greca. Va riconosciuto al governo Monti, con tutti i limiti che il decreto “cresci Italia” contiene, di essere stato in assoluto il primo esecutivo a mettere mano alle liberalizzazioni oggi, alla riforma del mercato del lavoro domani, alle privatizzazioni dopodomani. Simili manovre, ancorchè timide ed implementabili, sarebbero state impensabili da parte di una qualsiasi altra compagine governativa, la quale ci avrebbe condannato ad un immobilismo, la politica degli annunci, che ci avrebbe fatto precipitare al livello della tripla “C”. Occorre riconoscere a Mario Monti la statura di personalità di spicco a livello internazionale, il riconoscimento delle sue capacità da parte di tutte le istituzioni mondiali, ed una instancabile opera di persuasione circa la tenuta dei nostri conti. Monti sta trascorrendo questo scorcio della sua esistenza perennemente in viaggio, da una parte all’altra del mondo, con una resistenza fisica, tra l’altro, non trascurabile. Chiunque al suo posto sarebbe schiacciato da un invincibile stress. Altro che le lacrime della Fornero. Il gradimento stesso del suo governo, con tutte le recriminazioni del caso, si mantiene piuttosto alto, in considerazione del fatto, compreso dalla quasi totalità degli italiani, che una alternativa, allo stato attuale, è impensabile. L’unico partito di opposizione, (l’Italia dei Valori mantiene una posizione fortemente ambigua), la Lega, appare un movimento senza bussola, che sta girando a vuoto, brancolando nel buio, con un ubriaco al timone. Votano contro l’arresto di Cosentino, invocando il garantismo, quando tutti si rammentano il cappio brandito in Parlamento da un loro esponente, dall’espressione del volto, tra l’altro, non particolarmente vivace. Sono dilaniati da una lotta interna, con un Bossi da una parte che intende candidare il suo impresentabile figliolo, come nella migliore tradizione del partito farsesco al potere in Corea del Nord, e dall’altra un Maroni che sta cercando di rifondare un partito che sta seguendo l’involuzione fisica e mentale del suo attuale leader. Quanto al PDL, un Berlusconi allo sbando, sbiadito, incolore, stanco e demotivato, non sembra in grado di esprimere alcunché di nuovo. La distanza tra un governo che aveva al suo interno un personaggio come Brunetta ed uno come la Brambilla, entrambi totalmente spaesati, fuori luogo e fuori misura, totalmente inetti alla funzione svolta, ed un governo di tecnici e professori è talmente siderale da non essere misurabile. E proprio da una figura come quella di Renato Brunetta, un buono a nulla capace di tutto, arriva il migliore dei complimenti, il più grande degli apprezzamenti, la più formidabile spinta ad andare avanti e proseguire sul cammino tracciato. Il solo fatto che un perfetto antipolitico come Brunetta, una persona del tutto incapace di comunicare, che ha iniziato cento provvedimenti per portarne a termine uno solo, malato di velleitarismo e cecità politica, invochi a gran voce di staccare la spina al governo dei tecnici e di andare subito al voto anticipato, costituisce il miglior lasciapassare, il necessario viatico a Mario Monti e ai suoi colleghi. Se un giudizio simile arriva da un perfetto antipolitico, vuol dire che ci troviamo, senza fallo, sulla strada giusta. E’ finito, grazie a Dio, il governo dei nani e delle ballerine, è più verosimile lo scenario, accreditato dai maggiori analisti intorno al 70% delle probabilità, di una conservazione dell’euro e dell’ esclusione di un default da parte dell’Italia. Certo, i ristoranti non saranno pieni per un pezzo, e sugli aerei, almeno quelli di linea, non sarà impossibile trovare un posto. Ma abbiamo compreso bene tutti che non ci aspetta un periodo facile. E’ altresì curioso notare come le trasmissioni televisive che fino a qualche mese fa non prendevano neppure in considerazione una ipotesi di implosione dell’euro e di fallimento dell’Italia, ora diano entrambi per certi. Sbagliavano allora come sbagliano adesso. Programmi come”Piazza pulita”, condotta da un signor nessuno che spara a casaccio conto tutti e tutto e si dice certo della deriva greca, “L’infedele” di Gad Lerner, che predice scenari di rivolte sociali dovute alla caduta nell’indigenza di larghi strati della popolazione italiana; lo stesso dicasi per “Ballarò” ed il suo stracotto conduttore: lui e i suoi dannati cartelli, ossessionanti e incombenti, recanti dati manipolati ad uso e consumo della tesi catastrofista. Ha qualcosa di comico questa corsa al disfattismo da parte di coloro che fino a poco tempo fa non osavano neppure pronunciare, nei confronti dell’Italia, la parola “bancarotta”, “fallimento”. Ora sono i termini  più utilizzati. E’ desolante il panorama dei commentatori televisivi: non capiscono nulla di economia, ancor meno di finanza, parlano per frasi fatte e luoghi comuni, fanno discorsi senza capo nè coda. Come nel caso del naufragio della Concordia, i famosi “opinionisti” televisivi, forti di una sola infarinatura di massima, discettano di protocolli della navigazione come dei capitani di fregata. Gilletti sembrava un guardiamarina, Vespa un contrammiraglio. Che desolante spettacolo! Il canone televisivo è il balzello più odioso e disgustoso che ci sia dato pagare. Non confidiamo più di tanto nelle parole di questi pseudo economisti: affidiamoci  al web, ad internet, selezionando accuratamente le fonti, anche la rete è piena di cialtroni che scrivono asinerie.
A Mario Monti, per quello che può servire, le mie scuse, il posto alla Goldman Sachs può aspettare, al momento è meglio per tutti che prosegua, per il periodo che ci divide dalla fine della legislatura, nella sua non facile opera.

mercoledì 18 gennaio 2012

SGUARDO CORSARO (capitani coraggiosi)

Il “comandante” Schettino ci ha bruscamente, brutalmente ricordato, se ce lo fossimo dimenticati, di quale pasta siamo fatti noi italiani. Non ci addentreremo nella cronaca degli avvenimenti che hanno condotto al naufragio della Concordia. Ne hanno parlato, con tutti i dettagli, giornali e telegiornali. Ma non è questo che ci interessa. Il comandante Schettino rappresenta qualcosa che neppure lui immagina, qualcosa che scorre lento nelle nostre vene stanche, qualcosa che sa di decadenza e di inesorabile declino, qualcosa che ha a che fare con la corruzione del pensiero e dei costumi, qualcosa che non vorremmo mai vedere, che nascondiamo, anzi, al nostro sguardo, ma che, puntualmente, la storia e gli eventi che la rappresentano, gettano davanti ai nostri occhi, e non possiamo voltarci indietro o far finta di niente, siamo noi, siamo proprio noi, per quel poco di Schettino che alberga in ognuno di noi. Dopo il bunga bunga berlusconiano, che ci ha fatto diventare lo zimbello del mondo politico, con un premier più dedito ai suoi svaghi personali che alle condizioni del proprio paese, ecco l’incarnazione della codardia, la personificazione della vigliaccheria, della meschinità, dell’ignavia, la miseria della confusione mentale.

Il comandante Schettino sembra uscito da una delle più riuscite commedie all’italiana, di Dino Risi, di Monicelli, di Scola. Il suo personaggio potrebbe essere egregiamente interpretato da Alberto Sordi, o da Gassman, o Manfredi, o Tognazzi. La commedia all’italiana degli anni settanta era sì divertente, ma, pur con qualche forzatura, rappresentava degnamente e amaramente un archetipo italiano medio ben preciso, con delle connotazioni ben individuabili. L’arte di arrangiarsi, la vigliaccheria, la fantasia nel raggirare il prossimo, vissuto sempre come qualcuno da far fesso, la mediocrità accompagnata dalla pigra indolenza di quelli che vogliono cambiare tutto affinchè nulla cambi. Siamo il paese del Gattopardo. Finito il bunga bunga, arriva il comandante Schettino a dare una tragica rappresentazione delle italiche virtù. Un comandante che abbandona per primo la nave, dopo aver compiuto una manovra folle, urtando uno scoglio segnato da tutte le carte nautiche, a 150 metri dalla riva, una distanza che si può coprire a nuoto, che risponde alla Capitaneria di Porto in evidente stato confusionale, bofonchiando frasi incomprensibili, paralizzato dall’alcool o dalla paura. Il Comandante De Falco non è, ovviamente, stato un eroe. Altri sono stati eroi. Come lui stesso ammette, non ha fatto altro che il suo dovere, che dire a quella specie di comandante cosa doveva fare in una situazione di emergenza. Esiste un preciso protocollo da seguire in caso di incidente nautico, collisione o urto contro uno scoglio, questo protocollo era evidentemente del tutto sconosciuto al comandante Schettino, che non ne aveva letto neppure le prime righe. Ma chi c’è dietro a Schettino? In base a quale bislacca disavventura un simile personaggio è diventato comandante di un complesso residenziale galleggiante? Al comandante Schettino donava indubbiamente la divisa, gli stava bene, era belloccio, galante con le signore, come lo sanno essere i napoletani. Gigioneggiava, a bordo, sempre cortese con le belle donne, sempre disponibile con il gentil sesso. Si comportava come un Marajà che disponesse del personale femminile di bordo, una babele di filippini, indiani, romeni e cingalesi. Quali sono stati i criteri di selezione di Costa Crociere nella individuazione di un simile figuro? L’aspetto fisico? L’avvenenza? Il savoir faire con le belle dame? Le responsabilità di Costa sono enormi, non si affida una nave passeggeri, grande come una cittadina ad uno Schettino qualsiasi. Il danno all’immagine di Costa e di Carnival sua proprietaria è più che meritata. Ma anche questo ci insegna qualcosa del nostro essere italiani. Come sono selezionati i nostri politici? Con il famoso porcellum, i capibastone dei partiti scelgono i deputati sulla base non già di criteri oggettivi, ma di valutazioni personali, nella migliore delle ipotesi, sulla base delle doti fisiche nella peggiore. E’ di oggi la notizia che è stato rinnovato il contratto dei bancari. Si tratta di un aumento di stipendio medio di 170 euro diviso in tre tranche. Siamo felici per loro. Certo, suona un po’ strano che proprio il comparto che versa nella peggiore delle condizioni, non esente da responsabilità nella contrazione economica che stiamo vivendo, continuamente ad un passo dal fallimento, in perenne crisi di liquidità, così avaro nel concedere credito alle famiglie e alle imprese, si permetta il lusso, di questi tempi, di rinnovare un contratto economico. Quali altri comparti si sono visti rinnovare il contratto? Pochini. Con quale criterio le banche selezionano il loro personale? Sono banditi dei concorsi? No, il criterio del reclutamento adottato da molti anni dai nostri istituti di credito è la pura e semplice cooptazione, la chiamata individuale. Cioè, in parole molto più semplici, la raccomandazione. Con mezza Italia a spasso o con gli stipendi inchiodati, francamente, questo aumento di 170 euro è un po’ difficile da digerire.

Non è vero che tutti i popoli siano uguali o abbiano necessariamente qualcosa in comune. L’Italia non è l’Olanda, ma neppure la Spagna. Gli olandesi, qualche milione di anime, hanno strappato lembi di terra al mare, hanno colonizzato vaste aree dell’Asia e dell’Africa, sono divenuti una potenza mondiale, a tutt’oggi sono il paese con le migliori prerogative economico finanziarie, (altro che Germania, in condizioni ben peggiori rispetto al Paesi Bassi!) C’è qualcosa nel nostro popolo che ci rende diversi, atipici per l’Europa, tanto da farci rassomigliare al paese più settentrionale dell’Africa (con tutto il rispetto per l’Africa). Non è un discorso razziale, ma di storia e di cultura. L’Italia è stata forzosamente unita, lo sappiamo bene, il mezzogiorno ha una storia a parte, di derivazione borbonica, il nord ha una diversa estrazione culturale. Lo Stato Pontificio ha per troppo tempo impedito l’unità del paese, ritardandola di qualche secolo. E adesso, che ci siamo in qualche modo amalgamati, siamo riusciti a costituire uno stato, per quanto debole e pieno di problemi, mai una nazione. Non saremo mai una “nazione”, proprio perché nessuno di noi ha realmente il “senso dello stato”, il senso di appartenenza ad una sola collettività, ad un consorzio civile. Siamo il paese del “cà nisciuno è fesso”, cerchiamo di fare fessi gli altri, partendo dal presupposto che chi ci sta di fronte è un babbeo da raggirare. Qui ognuno pensa solo a se stesso, al proprio orticello, non si va la di là dei confini familiari. Lo dimostrano egregiamente le liberalizzazioni che sta tentando di attuare il governo Monti, l’unico governo, non politico, che abbia fatto un tentativo in tal senso. Stiamo vedendo quotidianamente la reazione agli attentati alle corporazioni. Le stesse liberalizzazioni, negli altri paesi europei, sono vigenti da molti anni, sono una cosa normale.

Il “subcomandante”  Schettino, in altre epoche e sotto altri cieli, sarebbe stato passato per le armi. In tempo di guerra una corte marziale (che non prevede tre gradi di giudizio) lo avrebbe messo davanti ad un plotone di esecuzione. Fare il comandante di una nave non significa solo percepire un lauto stipendio e bamboleggiarsi come ci si trovasse su “love boat”, in mezzo a belle donne, ottimi cibi e champagne. Fare il comandante è una cosa seria, chi accetta questa responsabilità deve accettare anche i rischi che si corrono e trovarsi nella condizione di affrontare tali rischi nel migliore dei modi. Diversamente si devono accogliere tutte le responsabilità e le conseguenze del caso, sino in fondo. Ma abbiamo veramente fiducia nella magistratura italiana? Come si dice in questi casi, la giustizia farà il suo corso, che sarà un corso benevolo, statene certi. Si considererà il pentimento, la contrizione profonda di quella povera anima, gli si darà qualche mese di reclusione e tanti saluti. Siamo italiani, non lo dimentichiamo, anche nella giustizia. Non possiamo criticare più di tanto gli altri paesi quando  ci giudicano secondo quelli che a nostro parere sono stereotipi ripetitivi. Non suoneremo il mandolino, non saremo dei santi, non mangeremo sempre pizza, non saremo grandi poeti (lasciamo perdere i navigatori), ma il confronto con lo straniero non lo reggiamo proprio. Chiunque,come me, abbia vissuto da muto e impotente spettatore la tragedia del naufragio davanti al porto di Genova, a pochi metri dalla salvezza, della London Valour, ricorda perfettamente l’eroico, commovente comportamento del capitano del mercantile inglese. Il comandante, nel disperato tentativo di salvare la moglie che stava scomparendo tra i  flutti, si gettò in quelle acque, ben conoscendo la sorte che gli sarebbe toccata. Perse la vita, con la moglie e diversi componenti dell’equipaggio. A ben guardare, ad essere onesti con noi stessi, noi, in quegli stereotipi, ci rientriamo perfettamente.

giovedì 12 gennaio 2012

SCIACALLI SUI MERCATI


Nessuno le controlla, sono una manciata a livello mondiale, ma tre fanno il bello e cattivo tempo.
Declassano intere economie e debiti di paesi sovrani.
Le agenzie di rating, sono piene di conflitti d’interessi e corresponsabili di una crisi sistemica mondiale.
Nonostante le dichiarate doti chiaroveggenti, sono state “incapaci” di vedere l’avvicinarsi della crisi americana dei sub-prime nel 2007, prodotti da loro dotati di tripla A, fino al giorno del loro crollo; non sono riuscite a prevedere la crisi del debito sovrano della zona euro, come sottolinea il Fondo Monetario Internazionale, e neppure il fallimento della Lehman Brothers nel 2008.
Fino all’ultimo non si accorsero di nulla, come mai? Sviste? Incapacità professionale? O strategie mirate?
Per dare una risposta, è necessario osservare chi le controlla.
Verranno analizzate in proporzione alla quota di mercato del settore rating.

Moody’s Corporation
Fondata nel 1909 è  presente in 26 paesi e ha circa 4500 impiegati.
Rappresenta il 40% della quota di mercato del settore rating
La sede principale si trova a New York, nella Sixt Avenue.
I proprietari di Moody’s sono:

-          Berckshire Hathaway Inc. (Warren E. Buffet): 12,80%
-          Capital World Investors: 12,60%
-          The Vanguard Group Inc. (5,02%)
-          Price (T. Rowe) Associates Inc. : 5,95%
-          BlackRock Fund Advisors (3,68%)
-          State Street Global Advisors (3,24%)
-          Decine di altri investitori
Il 24 settembre 2002 un elicottero è atterrato sul prato di Waddedson Manor nella proprietà nel Buckinghamshire, in Inghilterra.
Dall'elicottero sono scesi Warren Buffet, ufficialmente il secondo uomo più ricco del mondo, in realtà un giocatore di basso rango e Arnold Schwarzenegger, a quel tempo candidato Governatore della California.
Il patron di casa era nientepopodimenoche Nataniel Charles Jacob Rothschild, erede della dinastia europea di fantamiliardari e uno degli uomini più influenti e potenti del mondo.
Warren Buffet è infatti uno dei tanti agenti Rothschild.

Standard & Poor’s
Fondata nel 1860 è presente in 23 paesi e impiega circa 10.000 persone.
Rappresenta il 39% della quota di mercato del settore rating.
La sua sede principale si trova a New York.
La proprietà è di McGraw-Hill Companies Inc., il colosso delle comunicazioni, dell’editoria e costruzioni, presente in quasi tutti i settori economici.
Il presidente di McGraw-Hill è Harold McGraw III, membro del Board of Directors della United Technologies (multinazionale statunitense dell’aviazione e armamenti) e membro del Committee on Directors Affairs della Conoco Phillips (colosso del petrolio ed energia).
Gli azionisti della McGraw-Hill sono
-          Capital World Investors (10,26%),
-          The Vanguard Group Inc. (4,58%),  
-          BlackRock Fund Advisors (4,47%),
-          State Street Global Advisors (4,25%),
-          Oppenheimer Funds Inc. (4,04%),
-          JANA Partners LLC (3,48%),
-          e decine di altri investitori.
Al primo posto tra gli azionisti di McGraw-Hill, figura il Capital World Investors: una delle più grandi società di gestione del risparmio U.S.A.Oggi Capital è il primo azionista di McGraw Hill (il gruppo che controlla Standard & Poor's) e nello stesso tempo è anche il primo socio della concorrente Moody's.
Un altro affezionato alle agenzie di rating è il fondo americano: State Street Corp.
State Street infatti è il secondo azionista di McGraw Hill/Standard & Poor’s e il settimo di Moody's.
Gli azionisti di State Street Corporation sono:
-          Barlays Plc,
-          Citigroup Inc.,
-          General Electric Co.,
-          Invesco International Ltd.,
-          Northern Trust Corp.,
-          Putnam LLC,
-          Vanguard Group,
Lo stesso dicasi per l’altro fondo USA, BlackRock: è l'undicesimo socio di Moody's e il sesto della concorrente.
Gli azionisti attuali di BlackRock Financial Management Inc. sono: Merrill Lynch & Co. (49,8%) e P.N.C. Financial Services Group Inc.
La banca d’investimento Merrill Lynch nel settembre 2008, dopo la crisi finanziaria e un periodo di forti perdite è stata acquistata dalla Bank of America, i cui azionisti sono: Barclays Plc., FMR Corporation, State Street Corporation, Axa, Putnam LLC, Vanguard Group, Capital Research & Management Inc., e pochi altri.
Continuando a spulciare, si ritrovano sempre e solo gli stessi nomi, gli stessi azionisti che da una parte e dall’altra controllano i gruppi bancari o i fondi d’investimento che a loro volta controllano le agenzie di rating.
Non è strano quindi che a Lisbona la Procura ha aperto un'inchiesta dopo aver ricevuto una denuncia da alcuni professori che puntano il dito proprio sul fatto che i principali azionisti di Moody's e Standard & Poor's siano gli stessi grandi fondi americani.
In pratica i grandi fondi USA sono da un lato gli investitori che utilizzano i rating per decidere quali obbligazioni comprare, e dall'altro sono anche i "padroni" delle agenzie che stilano le pagelle.  Non male come conflitto d’interesse.
Ma tale conflitto è ancora più occulto e gravoso se pensiamo che oggi pochissime famiglie, come per esempio i Rothschild, sono in grado di controllare tutto quanto attraverso agenzie, società e agenti.
Banchieri/filantropi/agenti come Warren Buffet e George Soros, tanto per citare i più famosi, che servono la causa speculando a destra e a manca con i loro fondi miliardari.
La strategia è sempre la stessa: Problema-Reazione-Soluzione.
Accendono la miccia e scatenano le guerre nei vari paesi, per distruggere tutto quello che si può distruggere, per poi ricostruire, guadagnandoci sopra.
Declassano i debiti nazionali, per poi specularci sopra e alla fine comprare le aziende e società importanti con gli spiccioli.
Ecco quello che è successo in Italia.
Nel mese di agosto 1992, Standard & Poor’s declassa il debito italiano e casualmente a settembre, l’ebreo di origine ungheRere George Soros, specula sterlina contro lira.
Risultato? Svalutazione del 30% della lira, uscita dallo S.M.E. (mercato europeo).
In questa maniera i capitali anglo-statunitensi che sono arrivati nel nostro paese per comprare a prezzi stracciati, aziende e società importanti per l’intera Italia: Iri, Enel, Ina,  Eni, Cirio, ecc.
Il declassamento del debito italiano da parte di Standard & Poor’s, è stata la testa di ariete che ha permesso la speculazione spietata e criminale.
Questo è il modo in cui vengono usate le Agenzie di Rating, tutte controllate dai soliti noti.

Fitch Ratings
Fondata nel 1913 è presente in 51 paesi e occupa circa 2000 persone.
Rappresenta il 16% della quota di mercato del settore rating
Le sedi principali si trovano a New York e Londra.
E’ di proprietà di Fitch Group, i cui azionisti sono: la francese Fimalac (60%), Hearst Corporation (40%). A proposito, non è stata Fitch a confermare, per tutto il 2012 la tripla “A” per la Francia? Che combinazione! E’ plausibile chela francese Fimalac possa avere influenzato questa decisione?
Marcello Pamio - disinformazione.it

CONCLUSIONI
Ampiamente annunciato, è arrivato il declassamento di due “notch” da parte di “standard & Poor’s”, l’Italia passa da una “A+” a “BBB+” con il consueto outlook negativo. Ora, che cosa sono le agenzie di rating lo abbiamo esaurientemente già esposto, come pure chi siano i pupari che animano le marionette delle tre gemelle. Una agenzia di rating, per sua definizione, deve non trovarsi in conflitto di interessi, non deve cioè essere una società per azioni, i cui azionisti, guarda caso, sono operatori, investitori e speculatori sui mercati internazionali. Se un milionario americano declassa il debito di un paese sovrano, e poi specula sull’impennata dello spread e dei CDS, e sui titoli bancari in caduta libera di quello stesso paese, si colloca al di fuori della legalità, comunque la si intenda, entra, in un certo qual modo, in una zona grigia di criminalità finanziaria. Le ricadute sul paese declassato per i soli fini speculativi di pochi individui, persone in carne ed ossa come noi, provoca, a cascata, perdita di posti di lavoro, chiusura di aziende e fabbriche, diminuzione dei consumi, debolezza della moneta, calo del PIL in valore assoluto. E’ ovvio che le agenzie di rating , considerati soprattutto gli errori madornali, volontari o meno, del passato, non posseggono gli strumenti e le capacità per valutare un sistema paese intero: possono emettere un rating su di una società, su un istituto bancario, mai sul sistema complessivo di una stato sovrano. Quindi, la cosa più ovvia sarebbe quello di impedire l’espressione di giudizi su paesi sovrani, per la mancanza ovvia di obiettività e per l’enorme margine di incertezza che tale valore può assumere. L’ultima settimana è stata particolarmente positiva per i mercati europei, segnatamente quelli italiani. L’immagine di leader di statura europea di Mario Monti che prima vara una manovra fiscale, poi si appresta a licenziarne un’altra fatta d liberalizzazioni e privatizzazioni, le dichiarazioni della Merkel, incoraggianti sul fronte del consolidamento del fondo di stabilità, una apertura ad una futura possibile emissione di eurobond, tutto lasciava supporre di avere imboccato una strada in salita, certo, ma pur sempre un varco verso l’uscita dall’emergenza più immediata. E proprio quando le borse europee conoscevano un periodo di segni positivi, Piazza Affari cominciava a navigare sopra i 15.000 punti, ecco arrivata, puntuale, precisa, la bocciatura dell’agenzia governata dai milionari americani “Standard & Poor”. Le borse sono crollate, e tutto, euro compreso, viene rimesso in discussione. E’ il momento delle domande irrinunciabili, ineludibili. Perché i mercati continuano a dare ascolto a questi gaglioffi prezzolati, a questi killer dell’economia, che si permettono il lusso di giudicare stati sovrani, provocando reazioni a catena sulle economie reali, soprattutto, dal 2007 in poi, emettono giudizi solo negativi, queste cassandre da due soldi? Altra domanda: perché non è mai stata creata una agenzia europea? Se ne parla da anni, ma non se ne è mai fatto nulla. E allora il sospetto più legittimo, collegandoci al post precedente sull ‘ambivalenza della Germania, è quello che dietro a questa strategia della tensione, dietro a questo terrorismo finanziario, ci sia ancora una volta,oltre, ovviamente agli Stati Uniti, la Germania. La stessa Germania che stampa clandestinamente marchi  in due tipografie svizzere, la stessa Germania che si prepara al piano “B”, quello di una eventuale uscita unilaterale dall’euro. Il 50% dei tedeschi sarebbe favorevole ad una uscita dalla moneta unica, senza capire che il debito reale delle Germania, che ha truccato i conti, è spaventoso, che il sistema bancario tedesco non è in grado di affrontare il terremoto che seguirebbe all’estinzione dell’euro, che le esportazioni tedesche subirebbero una brusca battuta di arresto. La conclusione non può che essere che la decisione di Standard & Poor è stata pilotata dagli speculatori che detengono la maggioranza delle azioni dell’agenzia medesima, e l’altra conclusione, più amara, è che ad impedire la nascita di una agenzia europea e a lasciare intatto lo strapotere di questi delinquenti finanziari sia propria la Germania, un paese inaffidabile e cinico, geloso dei propri poteri e privilegi, un paese talmente tronfio, borioso e bugiardo che quando verrà il momento di andare ognuno per la propria strada, non rimpiangeremo di sicuro.
Il ridicolo strapotere delle agenzie di rating è uno dei prodotti più deteriori del capitalismo nella sua parabola finale. Il capitalismo neoliberista si fondava sulla crescita illimitata dei consumi: ora sappiamo, qualora non lo avessimo ancora capito, che i consumi non possono crescere indefinitamente. Si arriva, ad un certo punto, ad una rottura, ad una flessione della curva dei consumi, fino alla depressione dei medesimi. La crisi irreversibile del capitalismo è cominciata con la sovraesposizione della finanza, e con il ruolo predominante che ha assunto sull’economia reale. Armi da guerra come le vendite allo scoperto, i derivati, le cartolarizzazioni, i fondi hedge, i futures, il mercato finanziario applicato alle “commodities”, alle materie prime che non dovrebbero essere soggette ai giochi della finanza, tutto questo è il frutto degradato del capitalismo nella sua fase finale. Il capitalismo è un sistema economico sbagliato dalle fondamenta perché si basa sul profitto quale unica finalità dell’operare umano: il trionfo dell’egoismo sell’etica. Non poteva che produrre i presupposti per la sua implosione, ma non avendo saputo sviluppare gli anticorpi necessari per una transizione “pilotata” ad un altro sistema, il capitalismo finisce nella tragedia, nell’indigenza, nel buio della miseria, nello spettro della povertà. E allo stesso tempo nella smisurata ricchezza di un pugno di milionari ebrei americani. Il capitalismo non è un sistema che si riforma, si può solo spazzare via.

IL TEMPO DELLE PERE

Pubblico con grande piacere l’articolo che segue del noto analista finanziario Eugenio Benetazzo, uno dei pochissimi esperti di finanza che riesca a coniugare felicemente chiarezza di esposizione, acutezza di analisi ed una sottile vene ironica che non guasta mai. Leggiamo attentamente il giudizio di Benetazzo sulla bolla bancaria: il 2012 sarà l’annus horribilis delle banche: sono costrette a ripulire i propri bilanci, a patrimonializzarsi con sanguinosi aumenti di capitale (si veda il caso Unicredit), quelle che si troveranno nella possibilità, si libereranno il più possibile dei titoli a maggior rischio, permarranno comunque per tutti i problemi endemici di deleveraging e difficoltà di mantenimento di funding adeguati. Ma il problema che coinvolge anche risparmiatori e investitori è costituito dagli esagerati depositi di capitali ottenuti al tasso agevolato dell’1% presso i forzieri della BCE, e la conseguente serrata delle banche, che consiste nella difficoltà estrema da parte di aziende e privati di accesso al credito. Sono elementi, questi, che non aiutano certo la crescita del PIL, ma è doveroso tenere presente che se gli istituti di credito nostri e d’oltralpe non perseguissero una politica di risanamento dei bilanci, uscirebbero dai parametri stabiliti dall’EBA e soprattutto dai Core stabiliti da Basilea 3, correndo così il pericolosissimo rischio di un fallimento che aprirebbe uno scenario spaventoso: le prime banche potrebbero essere salvate, ma l’effetto contagio travolgerebbe l’intero sistema.

Chi non ricorda lo strepitoso successo cinematografico di inizio anni ottanta, Il tempo delle mele, che ha lanciato nell'olimpo del grande schermo la allora attrice francese sconosciuta, Sophie Marceau. Da allora con il termine il tempo delle mele si suole indicare l'età dell'adolescenza ovvero un periodo temporale durante la crescita di un ragazzino in cui inizia a maturare per diventare, si spera, un uomo a seguito di esperienze che lo devono preparare alla vita, come le prime attrazioni sessuali, i primi sentimenti d'affetto e i primi turbamenti e disagi sociali. Al tempo delle mele, se me lo consentite, si deve contrapporre il tempo delle pere ovvero un periodo della vita di un uomo in cui grazie al ricorso a sostanze allucinogene si ha la possibilità di evadere dalla vita reale e proiettarsi in un mondo proprio fatto di sensazioni, astrazioni e pensieri, che purtroppo esistono solo nella propria mente.

Visto quello che sta accadendo al panorama bancario italiano, e non solo, direi proprio che milioni di persone stanno vivendo il loro tempo delle pere. Sono inondato di richieste in posta elettronica di lettori e sostenitori che mi chiedono cosa devono fare con l'aumento di capitale di Unicredit, o se la loro banca in cui sono appoggiati rischia il default, o perchè la loro azienda si è vista ridimensionare in poco tempo il fido precedentemente accordato e così via discorrendo. Cerchiamo di fare assieme alcune riflessioni: Unicredit, la più grande banca italiana per capitalizzazione di borsa (almeno fino ad agosto 2011) è passata dai 70 euro di metà 2007 ai 2,5 euro di inizio 2012, significa una perdita di capitalizzazione di oltre il 95% (significa che se aveste investito 10.000 euro in azioni Unicredit oggi vi trovereste con meno di 500 Euro: ognuno faccia le relative considerazioni). Ma non è un caso unico, la stessa sorte, ma con proporzioni diverse, ma sempre sostenute, è accaduta anche a Banca MPS (da 3,5 a 0,25 Euro), Banca Intesa (da 6 a 1,15 Euro), Banco Popolare (da 16 a 0,90 Euro) e Ubibanca (da 21 a 2,8 Euro).

La borsa per quanto possa essere denigradata come il tempio della speculazione, in realtà rappresenta un efficiente termometro del sentiment economico, non solo riferito agli umori degli operatori che trattano i relativi titoli quotati, ma soprattutto per le aspettative che questi ultimi hanno su determinate aziende, settori o comparti economici. Pertanto il mercato al momento sta “prezzando” il valore che si considera debbano avere le banche che operano sul mercato del prestito, le quali di contrasto negli anni precedenti hanno realizzato utili mirabolanti pompando al rialzo le relative quotazioni. Le imprese bancarie, non solo in Italia, oggi stanno vivendo il loro peggior periodo in termini assoluti in quanto stanno subendo un generale e progressivo processo di deterioramento della qualità del credito precedentemente erogato. In altri termini prestiti concessi in passato a clienti considerati solvibili oggi si stanno trasformando in un incubo a causa dello scenario economico di metamorfosi di tutta l'economia occidentale.

A questo aggiungiamo anche i fenomeni di downgrade che stanno caratterizzando i governativi (titoli di stato) i quali si riflettono attraverso le fluttuazioni delle quotazioni sulla consistenza delle attività bancarie. Vi è di più, stavamo dimenticando l'EBA e Basilea 2 che impongono saggiamente il raggiungimento ed il mantenimento di un determinato coefficente di solvibilità per garantire la solidità del sistema nella sua generalità. Questo rapporto oggi è definito al 8% ovvero per ogni 100.000 euro di impieghi ogni banca deve avere un capitale proprio di almeno 8.000 euro. Oggi è la matematica la causa della serrata bancaria che sta caratterizzando il mercato del credito. Infatti avendo difficoltà a raccogliere nuovo capitale di rischio sul mercato, visto quanto abbiamo esposto prima, con il fine di aumentare il numeratore di questo quoziente, la strada più rapida diventa allora la diminuzione del denominatore e quindi il ridimensionamento degli attivi ponderati per gradi di rischio.

A riguardo è proprio su questo fronte che sta spopolando oggi il tempo delle pere, infatti in Italia vi sono centinaia di banche che non sono quotate in borsa (come banche popolari, crediti cooperativi e casse rurali) che si attribuiscono autonomamente un valore di “mercato”. Attenzione quindi, perchè quanto sopra esposto potrebbe trasformarsi in una bolla destinata a farsi sentire molto presto, a fronte di discutibili metodi di autovalutazione e autovalorizzazione: come è possibile ad esempio che banche quotate sui mercati in quattro anni perdano oltre il 90% di capitalizzazione mentre banche non quotate abbiano visto le loro “valorizzazioni personali” costantemente salire nonostante i vari momenti di turbolenza finanziaria che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Per quanto possa essere odiato o venerato, ricordate che il mercato ha sempre ragione: è solo una questione di tempo.
Eugenio Benetazzo (eugeniobenetazzo.com)

mercoledì 11 gennaio 2012

I DUE VOLTI DELLA GERMANIA

A completamento del post precedente, e a dimostrazione che l’ipotesi di un ritorno alla lira non è solo una possibilità, riporto il seguente articolo, che esprime discretamente l’imbarazzante ambiguità della Germania nei confronti dell’Euro e dell’UE in generale. Abbiamo compreso tutti, Monti per primo, costretto a recitare una parte in commedia, che la Germania prosegue la sua politica attendista per valutare se le convenga di più restare nella moneta unica o uscire definitivamente dall’euro, magari con Olanda e Finlandia (non certo con la Francia che, a dispetto delle valutazioni pilotate politicamente di Fitch, non è certo un paese da tripla “A”). Abbiamo più volte accennato alla scorrettezza di fondo dei tedeschi, che da una parte si proclamano paladini dell’Euro, e dall’altra si preparano per un eventuale piano “B”, stampando marchi in Svizzera alla chetichella. E’ come avere come compagno di viaggio un assassino che ti vuole bene: prova un sentimento magari sincero, ma alla prima occasione avrà la tentazione di pugnalarti alla schiena se ha la convenienza di farlo. Monti, dobbiamo dirlo, non ha demeritato negli ultimi passaggi interni ed internazionali: ci ha riabilitato nei confronti dell’UE e del mondo, deve confrontarsi con l’annoso problema delle liberalizzazioni. In un paese costituito per lo più da lobbies e corporazioni, il compito appare assai arduo. Vedremo che cosa sarà in grado di fare, e perlomeno potremo dire che ci ha provato. L’Italia ha fatto quanto richiesto dalle istituzioni europee: sapevamo che non sarebbe servito a molto, i problemi veri non risiedono in Italia ma altrove, negli USA, come ha sottolineato lo stesso Monti. La crisi è nata là, e negli USA deve finire. Può darsi che l’Euro sopravviva per tutto il 2012, ma sarebbe una sopravvivenza, una persistenza non dissimile dalla catalessi. Tale previsione viene accreditata dai migliori analisti intorno ad un 70%, mentre l’altra ipotesi, quella di una uscita della Germania con conseguente dissoluzione dell’Euro è accreditata al 30%. In ogni caso, il sentiment più diffuso è quello che, prima o poi, torneremo alle valute nazionali. In piena bolla bancaria, con gli istituti di credito di tutta Europa in turbolenza, pieni di titoli tossici, in perenne crisi di liquidità, inseriti in un sistema corrotto da strumenti finanziari impropri come i derivati, i futures, le cartolarizzazioni, la compravendita spregiudicata di commodities, i fondi hedge, le short selling e via discorrendo, il collante costituito da una moneta unica è troppo poco per sopravvivere. In assenza, non dico di una unione politica, ma di una convergenza economica, finanziaria e fiscale, l’Europa non può pretendere di sopravvivere. La cosa più importante, prima della fine, è azzeccare il momento giusto per uscire di scena: farlo nella condizione migliore. Un conto è sfilarsi dall’Euro prima del crack, un altro è farsi buttare brutalmente fuori. Con molti auguri per tutti.

MENTRE LA GERMANIA si prepara a dare al via alla nuova fase fiscale dell'Unione Europea, dalla Svizzera rimbalzano voci sempre più insistenti, che la Merkel si starebbe predisponendo una via di fuga nel caso la crisi dell'euro debito dovesse esplodere nel breve e allargare il contagio alla Germania.
IL PIANO B SAREBBE quello dell'immediato ritorno al marco tanto che Berlino si sarebbe in gran segreto organizzata, tornando a stampare la vecchia moneta, in due tipografie elvetiche. La scelta della Svizzera è dettata dal fatto che, stando ai trattati istitutivi dell'Unione Monetaria (Uem), i Paesi che aderiscono all’euro non possono tornare a battere il vecchio conio.
IL GRANDE ESODO dall'euro comunque è già iniziato. L’euro, nato con l’intento di tener testa al dollaro anch’esso in declino ma supportato da un sistema di tutele e cuscinetti più efficace, è diventato ormai una trappola. I problemi sono nati tutti dalle difficoltà dell'Eurozona e della sua politica, immobilizzata dal menefreghismo interessato di Berlino ogni volta che c’è da prendere decisioni importanti.
LE TURBOLENZE sui mercato finanziari in area euro stanno generando situazioni sempre più complesse ed imprevedibili: tra governi commissariati e Paesi super-affidabili come la Francia che improvvisamente iniziano a vacillare, l’ipotesi secondo cui l’esperienza della moneta unica sia vicina al termine, serpeggia come una possibilità molto più concreta di quanto ci si potesse aspettare anche solo pochi mesi fa. E oggi, anche gli stati che, da sempre hanno sognato di entrare nel mondo della moneta unica, si sono resi conto che la politica europea è una trappola.
IN PRIMIS LA POLONIA, dove secondo recenti sondaggi, quasi i tre quarti della popolazione è fortemente contraria all’ abbandono dello zloty, la moneta di Stato.
LA REPUBBLICA CECA, dove la maggior parte dei cittadini non vuole abbandonare la corona. La Bulgaria, che avrebbe tutte le carte in regola per entrare nell'euro già dal prossimo anno, ma il cui governo ha dichiarato di non voler entrare a far parte della zona euro.
PERFINO GLI STATI DELL'EST, che dopo più di 20 anni dalla caduta dell'Urss iniziano ad avere economie floride e dinamiche, oggi snobbano i cosiddetti 'grandi', da cui preferiscono prendere le distanze. Bisogna tener conto che lo scetticismo dei paesi dell'est che l'euro lo hanno già adottato, senza trarne alcun beneficio, come Estonia, Slovacchia e Slovenia guardano con rammarico, alla forte crescita della Polonia, che senza euro stanno più che bene.
MA LE INCERTEZZE sulla tenuta dell’euro non sono soltanto dei paesi che si defilano ancor prima di entrarvi, ma anche, e soprattutto,le preoccupazioni attanagliano il mondo delle banche che si stanno preparando al collasso del sistema e al ritorno alle vecchie divise.
IN QUESTO CONTESTO pare che la Germania abbia commissionato ad una tipografia ticinese la stampa di una grossa quantità di Marchi Tedeschi, evidentemente in vista di un ipotetico switch-off dalla moneta unica che sarebbe, eventualmente, da effettuare in tempi brevissimi.
SECONDO INDISCREZIONI, di non poco conto, la Merkel sta cercando una via di fuga per la Germania. Sono sempre più insistenti le voci di richiesta alla Svizzera di stampare la vecchia moneta tedesca, il marco, appunto. La Banca centrale tedesca e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble avrebbero affidato la stampa a due società svizzere, la ditta Sicpa a Losanna e l’altra, il cui nome non è noto a Zurigo.
LA NOTIZIA AVEVA iniziato a circolare a ottobre e sarebbe stata riferita anche all’ex premier italiano Silvio Berlusconi. Ed è quindi lecito pensare che ne sia stato informato anche l’attuale presidente del Consiglio Mario Monti.
SE IL PEGGIO dovesse capitare è sempre bene sottolineare che dall’euro si esce meglio se si esce prima, data la possibilità di ritrattare le condizioni di rimborso dei titoli di stato in modo più ordinato e probabilmente meno pesante. Subire il fallimento dell’euro facendosi travolgere dagli eventi potrebbe essere invece un passaggio catastrofico nella storia dell’Italia che conoscerebbe senza dubbio un periodo di agitazione sociale come non se ne vedono da parecchi decenni.
INOLTRE COME SEGNALA il Wall Street Journal, parla di almeno due istituti che stanno riattivando il sistema di cambio basato sulla dracma, l'escudo e la nostra vecchia lira, le tre vecchie monete dei tre Paesi più a rischio, rispettivamente Grecia, Portogallo e Italia.
LE BANCHE hanno contattato Swift, il consorzio con sede in Belgio che gestisce transazioni finanziarie internazionali, per sapere se i codici delle vecchie divise siano ancora attivi o almeno utilizzabili in caso di emergenza.
SE LA RISPOSTA DOVESSE essere positiva, potrebbero iniziare fin da subito a lavorare ad un sistema di cambio alternativo a quello dell'euro in grado di entrare a regime con intraprendenza nel caso in cui i Paesi in questione ne dovessero uscire.
Fonte: trend-online.com

sabato 7 gennaio 2012

IL RITORNO ALLA LIRA? UNA POSSIBILITA'

I rimedi ai problemi finanziari proposti dalle parti sociali e dai partiti sono meri palliativi, inutili, perché servono solo a tirare avanti di qualche settimana. La manovra governativa, è iniqua e recessiva, sbilanciata sul lato delle entrate, e ha mobilitato resistenze insuperabili nel paese. Ora il governo, dopo che l’UE l’ha approvata, grazie alla perfetta immobilità delle istituzioni europee, ridotte alla paralisi dal Moloch tedesco, ne farà un’altra, non migliore, ma semplicemente congegnata in modo da evitare che si coalizzi un’efficace resistenza, sia civile, che interna alla partitocrazia, la quale vuole conservare i suoi canali di spesa. La manovra alternativa del PD, per quello che ci è dato sapere, è velleitaria e inconsistente, e dimostra che l’opposizione non vale nulla, non ha capacità, non ha idee, non ha uomini. Il sistema partitico è oramai solo una zavorra senza capacità di soluzioni e senza valore di rappresentanza. Quindi senza legittimazione.
Sono decenni che in Italia si fanno sacrifici e manovre di risanamento e di adeguamento ai parametri europei, e siamo messi sempre peggio. Nessuno vuole ammetterlo, ma è palese che non funzionano. Il debito pubblico ha sempre continuato a crescere. Il motore del disastroso processo di indebitamento, su scala mondiale è il monopolio privato e irresponsabile della creazione e distruzione di moneta e credito, in mano a un pugno di banchieri, (Monti compreso) che controlla le banche centrali, anche la BCE, e ricatta i governi con minacce di declassamento e di non acquisto dei loro titoli del debito pubblico. Essenzialmente, li ricatta a trasferire al settore finanziario crescenti quote di reddito e risparmio dei cittadini e delle imprese.
Recenti dati mostrano che i paesi che hanno dichiarato di non potere o volere pagare il debito pubblico, dopo il default si sono ripresi bene.
Piuttosto che continuare con manovre depressive e socialmente laceranti, che non risolvono niente da decenni, sarebbe preferibile, per l’Italia, il seguente programma:
1-Uscire dall’Euro ritornando alla Lira;
2-Ripudiare il debito pubblico;
3-Nazionalizzare la Banca d’Italia e sottoporla a una commissione parlamentare;
4-Ripristinare i vincoli di portafoglio e di acquisto dei titoli di stato, come prima del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro;
5-Porre un vincolo costituzionale di pareggio di bilancio (provvedimento, questo, già formalmente adottato) ;
6-Nazionalizzare le banche commerciali che, avendo nel portafoglio molti titoli del debito pubblico, entreranno in crisi .

In tal modo, si eviterebbe tagli depressivi e socialmente laceranti, si risparmierebbe il 22% della spesa pubblica, si azzererebbe il debito pubblico, si potrebbe svalutare e così rilanciare le esportazioni, gli investimenti, l’occupazione; non si avrebbe più bisogno di emettere titoli del debito pubblico, salvo il caso di emergenze; anche in tal caso, li comprerebbe la Banca d’Italia.
Ma continuare con gli inasprimenti fiscali, con la tassazione di redditi presunti, con i tagli allo stato sociale, ai diritti dei lavoratori – continuare con l’indebolimento del paese e l’incremento dell’insicurezza e della paura – tutto questo è utile a portare il paese e la gente in condizioni ottimali  per il capitale internazionale che aspira a rilevare dall’esterno l’economia e le risorse, compresi i lavoratori, di un paese in ginocchio, pronto a lavorare per bassi salari, senza garanzie e tutele, livellato al basso. Un paese dove la gente e le imprese devono svendere i propri beni per debiti, anche fiscali. A questo pare che mirino le politiche e i ricatti della c.d. Europa – BCE, UE –, del FMI, delle società di rating. Ma non è l’Europa, bensì la maschera della comunità finanziaria sovrannazionale. In questa ottica si inserisce ottimamente l’”anschluss” tedesco, l’obiettivo da parte di Berlino di creare una Europa egemonizzata dalla Germania.
Il processo integrativo europeo dell’Europa allargata a 27 membri è finito. La Commissione conta sempre meno. Le decisioni si prendono tra cancellerie di paesi forti, esclusi gli altri. Soprattutto quelle per decidere le mosse della BCE, in modo che salvaguardi innanzitutto la Germania. Questa, assieme ai suoi satelliti e alla sua imitatrice, la Francia, l’ha oramai detto e ripetuto: non accetterà mai di emettere gli eurobond, cioè di mettere in comune il debito pubblico proprio con quello italiano e degli altri paesi eurodeboli. I paesi euroforti (ma esistono ancora?) non accetteranno mai l’integrazione politica con l’Italia non solo per il suo debito pubblico, ma anche perché la classe politica e dirigente italiana è troppo corrotta e incompetente: all’estero hanno visto tutti abbastanza, oramai, dalla mafia, alle storie dei rifiuti di Napoli, al bunga bunga, alla giustizia a livelli di Africa Nera. Forse negli anni ’90 pensavano che l’Italia avrebbe eliminato questa classe dirigente e corretto i propri difetti grazie alla pressione dell’Euro, ma ciò non è avvenuto. All’estero sanno che l’Italia non riesce a riformarsi, a intervenire sui propri vizi strutturali, e che sta declinando da 20 anni incessantemente. Sanno che inevitabilmente uscirà dall’Euro. Sanno che integrarsi politicamente con un paese come l’Italia sarebbe come essere contagiati da una grave malattia.  Nessun paese o azienda efficiente ha interesse a integrarsi con un paese o un’azienda inefficiente. Ha per contro interesse a sfruttarlo/a assumendone il controllo dall’esterno.
La politica tedesca è quindi quella di tenere l’Italia sotto la BCE e gli organismi comunitari, che la Germania può dirigere, al fine di neutralizzarla come paese concorrente sui mercati internazionali, e di costringerla, prima che finisca per lasciare l’Euro, a pagare i propri debiti in Euro verso le banche tedesche anche al costo di dissanguarsi.
E questa linea politica si sta confermando e irrigidendo nel progredire della crisi. I tedeschi sembrano ottusamente non comprendere che una politica che comprime l’Italia, appiattendola sul suo debito e costringendola a provvedimenti depressivi causerà, prima o poi, l’uscita del nostro paese dall’Euro, con il conseguente terremoto globale, la fine della moneta unica e dell’Unione Europea, con una pesantissima ricaduta anche sull’economia teutonica. Ma ostinarsi nelle politiche solipsistiche è ciò che la Germania sta facendo da quando è nata, dal 1871. Non ha mai cambiato linea, nonostante due guerre rovinosamente perse. Il sistema-paese Germania capisce i fatti, non ragioni, moniti e minacce.
Il governo italiano impone al paese sacrifici durissimi e recessivi in nome dell’integrazione europea. Ma l’integrazione europea è finita, per noi. L’Italia non sarà mai integrata. Quindi sarebbe tempo di rovesciare il tavolo, prima che un governo di centro-destra adesso, e un governo di centro-sinistra domani, facciano qualche altra manovra di salasso, per poi annunciare che, inopinatamente, le manovre non sono sufficienti, e che bisogna alzare l’IVA, mettere l’imposta patrimoniale, tagliare le pensioni, marchionnizzare tutto il paese immediatamente e senza discutere per pagare gli interessi sui debiti – in ossequio alla curiosa inversione dei ruoli, oramai dilagata in tutto il mondo libero, in virtù della quale lavoratori, imprenditori e consumatori  producono la ricchezza che dà valore alla carta prodotta dal settore finanziario, però si ritrovano di esso eternamente debitori, anzi devono sottomettersi alle sue regole e alla sua morale.
Ripudiare il debito pubblico, dunque, e uscire dall’Euro. Immediatamente, finché non siamo ancora dissanguati.
Alle lamentale di chi ha comperato titoli del debito pubblico italiani e farà l’indignato quando l’Italia non li pagherà, si replicherebbe che li ha comperati sapendo che erano a rischio, che per il rischio ha avuto un premio di maggior rendimento, e che in ogni caso poteva venderli nei mesi scorsi, vista l’aria che tirava; quindi se la prenda con se stesso;
A chi (banche, perlopiù) li ha ricevuti in garanzia in epoca non sospetta, per l’apertura di una linea di credito non speculativa, si offrirebbe una garanzia sostitutiva;
A Germania e soci, si replicherebbe che i benefici dall’Euro, e ancor prima dallo SME, e prima ancora dalla politica agricola comune, li hanno avuti proprio loro, e a spese e danno dell’Italia, soprattutto in fatto di competitività, di quote di mercato, di occupazione;
Alla BCE si replicherebbe che il suo comportamento è inaccettabile, in quanto non rende nota la quantità di denaro prodotta e la quantità di crediti erogati;
A Bruxelles si replicherebbe che il SEBC viola l’art. 1 e 11 Cost.  L’art. 11, perché questo autorizza limitazioni e non trasferimenti della sovranità; li autorizza per fini di tutela della pace e della giustizia, non finanziari, come fatto per la BCE; li autorizza in favore di altri paesi, non in favore di un organismo sovrannazionale, esente da controllo democratico, come è  la BCE; li autorizza a condizioni di parità, mentre la presenza nella BCE delle banche centrali di Regno Unito, Danimarca e Svezia, che non sono soggette a Euro e BCE ma partecipano ai suoi utili e alla sua sovranità monetaria anche sull’Italia, viola tale condizione. Inoltre viola la norma fondamentale, l’art. 1, sia in quanto toglie al popolo la sovranità monetaria ed economica, che è la principale componente della sovranità e del governo; sia  in quanto il fine della BCE non è la tutela del lavoro, ma del potere d’acquisto della moneta. L’art. 1 afferma per contro i due principi fondamentali: la sovranità appartiene al popolo, e l’Italia è fondata sul lavoro. Questi principi fondamentali sono limiti assoluti, o controlimiti, a quanto possono disporre trattati internazionali come quello di Maastricht che costituisce il sistema della BCE. Un trattato, quindi, illegittimo ed eversivo dell’ordine costituzionale, come tutte le controparti dell’Italia dovevano sapere.
Ma che cosa si potrebbe spiegare a Washington e Londra? Potremmo dire loro che l’Italia ha oramai fatto quanto poteva fare, dall’interno dell’UE e dell’Euro, per ostacolare il costituirsi di una potenza europea concorrente degli USA, con una valuta concorrente al Dollaro. E che ora, per contrastare un’unificazione centro-europea sotto i Tedeschi, è indispensabile che riprenda una certa libertà di manovra.

Abbiamo sempre sottolineato quali svantaggi potrebbero derivare da una uscita dalla moneta unica. Una svalutazione inflattiva che vedrebbe andare in fumo una bella fetta dei nostri risparmi, la perdita di potere di acquisto dei salari, il probabile, seguente, spettro della deflazione che preluderebbe ad una lunga stagnazione economica, sul modello giapponese. Nonostante queste ed altre riserve, pensiamo sia chiaro per tutti che non possiamo continuare questo gioco al massacro quotidiano. Non passa giorno che la Borsa di piazza Affari non bruci miliardi di Euro, costantemente sotto i 15.000 punti, la soglia della sopravvivenza di una borsa valori, l’egocentrica paralisi tedesca costringe le nostre banche, pur essendo assai più virtuose di quelle germaniche, ad aumenti sanguinosi di capitale. Gli incagli e le sofferenze dei nostri gruppi bancari hanno ed avranno sempre di più la conseguenza della cessazione del mercato interbancario, una stretta creditizia sempre maggiore, il rischio di una bancarotta che è sempre dietro l’angolo. Non si può continuare a scivolare in eterno. Prima o poi si tocca il fondo. Non dotare la BCE di poteri maggiori, tra cui la possibilità di stampare moneta, il blocco di qualsiasi politica di bailout e di quantitative easing finiranno con inasprire la crisi dei debiti sovrani al punto da costringere al fallimento oggi Grecia e Ungheria, domani Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. E’ giusto mettere sul piatto della bilancia i pro e i contro di una uscita dall’euro. Ma, al punto in cui siamo arrivati, se alla fine del mese di gennaio, al vertice di Bruxelles, la Merkel dovesse continuare a fare melina e annunciare provvedimenti vaghi e fumosi, non avremo altra scelta che uscire dall’euro. Monti e Sarkozy sono sostanzialmente d’accordo, sia sulla Tobin Tax che sull’allargamento del fondo di stabilità (ESM), ma certamente anche sull’emissione di eurobond e sulla concessione di un roll over del debito in pancia agli istituti bancari, i primi a crollare in caso di default. Se la Merkel vuole proseguire sulla strada del rigore degli altri, faccia pure, noi una seconda manovra di marzo o di aprile non la mandiamo giù, sia chiaro per tutti. Se a Monti dovesse balenare per il capo di fare una manovra cresci-Italia con alcuni provvedimenti di facciata, accompagnati da ulteriori tagli e imposizioni fiscali, il parlamento, come è giusto, gli farebbe probabilmente mancare la fiducia. Spiacerà, a quel punto, constatare che saranno proprio gli uomini di Berlusconi ad impedirgli di fare una sciocchezza madornale, che ci costringerebbe ad una depressione sicura e ci inchioderebbe al ruolo di paese satellite della Germania. Se si dovesse delineare un simile quadro, che la parola torni pure alla politica, anche se si tratta della politica di casa nostra. In definitiva, i propositi di Monti sono buoni, vedremo se sarà in grado o se vorrà far seguire alle dichiarazioni i fatti concreti. Dovrà fronteggiare le paralisi delle città messe in scena dai taxisti, le serrate delle farmacie, le rivolte di notai, avvocati e commercialisti. Se supererà questa dura prova, raggiungerà la statura di uno statista. A questo punto, se dall’Europa, cioè dalla Germania, non perverranno le risposte che ci attendiamo sarà sempre compito suo non farci percorrere il cammino infernale della Grecia. Abbiamo sotto gli occhi quello che accade a compiere manovre depressive in presenza di un PIL negativo. Se per disgrazia la Germania dovesse rispondere con i soliti vaghi differimenti sapremo come muoverci. L’uscita dall’Euro non sarebbe più evitabile.
Liberamente tratto da un articolo di Marco della Luna – disinformazione.it

 PRECISAZIONE
Il presente post , come dichiarato, è liberamente tratto da un articolo dell’avv. Marco della Luna, collaboratore del sito www.disinformazione.it. Condividiamo appieno il contenuto, convenendo tuttavia che la soluzione indicata dall’autore è del tutto inapplicabile nella realtà. L’Italia è vincolata all’UE dalle clausole dei trattati che ha firmato insieme agli altri paesi membri. A posteriori, come già sottolineato, l’entrata nella moneta unica è stata un errore, soprattutto in considerazione delle condizioni capestro cui i paesi del nord Europa ci hanno obbligati. Non si doveva considerare una entrata nell’Euro purchessia, ma a ben altre condizioni. Ora che il danno è fatto, è una mera utopia “ripudiare il debito” come più volte evocato dall’autore dell’articolo. Sarebbe bello, ma, realisticamente non è possibile. Può farlo un paese come l’Islanda, uno stato nel circolo polare artico, praticamente fuori dall’Europa, con una cittadinanza di 350.000 anime. L’uscita dall’euro, tuttavia, è da considerarsi possibile, anzi, obbligata nel caso in cui le politiche economico finanziarie della Germania ci costringessero ad una “ellenizzazione” del paese. A queste condizioni, l’alternativa all’uscita dalla moneta unica sarebbe il massacro economico della popolazione italiana. Monti stesso non lo accetterebbe mai. E’ vero che un paese non potrebbe unilateralmente uscire dalla moneta unica, ma tra la trasgressione di una clausola di un trattato e la macellazione del nostro paese, saremmo obbligati alla prima opzione.

giovedì 5 gennaio 2012

UN FASCISTA A BUDAPEST

Non ci mancava che l’Ungheria. Per cominciare bene l’anno, non bastavano i problemi che affliggono l’area dell’euro, con la crisi dei debiti sovrani, le banche sull’orlo del fallimento, lo spread sempre intorno ai 500 punti base, la manovra depressiva del governo Monti. Ci voleva anche la nascita del primo governo fascista in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il governo in carica, guidato dall’estremista di destra Viktor Orban, sta apportando modifiche alla Costituzione del paese in senso illiberale e restrittivo. Limitazioni alla libertà di stampa e di pensiero, la chiusura di una emittente da sempre considerata “scomoda”,  i continui appelli al nazionalismo, il bavaglio alle opposizioni, il controllo politico della banca centrale (contravvenendo ad una clausola fondamentale dei trattati europei), la tentazione di trasformare l’assetto istituzionale dello stato. Le intenzioni di Orban, neppure troppo velate, consistono nella istituzione di un governo fascista, con un partito unico. E’ ovvio che se l’opposizione e la piazza non prevarranno, l’Ungheria sarebbe di fatto fuori dall’Unione, essendo impossibile accettare  uno stato fascista in seno all’Europa. Ma ci sono anche due aspetti da valutare. Il primo: Intesa Sanpaolo e Unicredit sono rispettivamente la quinta e la settima banca del paese; secondo, l’abbandonare l’Ungheria al proprio destino significa condannarla automaticamente al default: il paese è già, in pratica, in bancarotta, con tutte le conseguenze e i riflessi che si scatenerebbero sull’Euro. Vediamo la situazione più in dettaglio.

Che cosa succede in Ungheria in questi giorni? Innanzitutto dal 1° gennaio non si chiama più Repubblica dell'Ungheria, ma semplicemente Ungheria. Cosa vorrebbe dire? Che forse la nuova destra che la governa - una destra non proprio democratica - è intenzionata a stravolgerne le fondamenta trasformandola lentamente in una dittatura (i provvedimenti che si stanno prendendo sulle libertà civili, in primis di stampa, fanno pensare a questa direzione). Il punto è che l'Ungheria è nell'Unione Europea da 8 anni (non ha ancora però adottato l'euro) e una dittatura ovviamente non è ammessa nell'Unione. C'era un tempo in cui la pecora nera dell'Unione europea era la Polonia dei fratelli Kaczynski. Oggi il ruolo spetta all'Ungheria del primo ministro nazionalista Viktor Orban. Non passa giorno ormai senza un botta-e-risposta tra Bruxelles e Budapest. Lo scontro politico giunge in un contesto economico delicato, e a pochi giorni dall'entrata in vigore di una discussa riforma costituzionale.
Ieri la Commissione europea ha nuovamente richiamato all'ordine il governo ungherese che ha presentato di recente un progetto di legge di modifica dello statuto della banca centrale ritenuto non in linea con i Trattati. Il presidente dell'esecutivo comunitario José Manuel Barroso «ha chiesto che il testo venga ritirato. Stiamo ancora aspettando una risposta dalle autorità ungheresi», ha detto il portavoce Olivier Bailly.
Il progetto di legge - che dovrebbe essere messo al voto del Parlamento la settimana prossima - è particolarmente controverso. Prevede tra le altre cose che i vice governatori vengano nominati dal primo ministro e non in seno all'istituto monetario e che il numero di membri degli organi direttivi vengano aumentati. Ieri a criticare il progetto di legge è stata anche la Banca centrale europea.
Un altro testo legislativo prevede la fusione tra banca centrale e autorità di vigilanza dei mercati, che potrebbe diluire i poteri del governatore. Il 1° gennaio poi entreranno in vigore modifiche alla Costituzione che secondo molti osservatori comportano una riduzione delle libertà fondamentali. Vi sono stati cambiamenti alle leggi che regolano la stampa e le attività religiose, così come riduzioni ai poteri della magistratura.
Il braccio di ferro che il primo ministro Orban ha deciso di avere con le autorità comunitarie sorprende. C'è evidentemente il desiderio da parte di Orban, a capo del partito populista Fidesz, di cavalcare i sentimenti nazionalisti dell'opinione pubblica in piena crisi finanziaria. Ma fino a che punto può durare il braccio di ferro? Il paese ha disperatamente bisogno dell'aiuto della comunità internazionale.
Dopo aver rifiutato per mesi il sostegno del Fondo monetario internazionale, l'Ungheria ha accettato di discutere con l'Fmi un pacchetto di aiuti. Le trattative a tre, con il Fondo e la Commissione, sono state però interrotte la settimana scorsa per decisione di Bruxelles proprio per protestare contro le scelte politiche di Orban. Non è chiaro quando riprenderanno formalmente.
Standard & Poor's ha annunciato mercoledì una nuova revisione al ribasso del voto sovrano ungherese, a BB+ (nella categoria junk, spazzatura, come già Moody's) citando una crescente sfiducia sulla politica economica del governo. Il fiorino ungherese si trova ai minimi sull'euro e un flop della domanda sull'asta di bond collocati oggi dal governo di Budapest non lascia prevedere nulla di positivo. In questo quadro cresce il rischio di default con il rialzo dello spread tra i titoli ungheresi e quelli britannici a 750 punti. In salita anche i cds, i contratti di riassicurazione in caso di fallimento, a quota 745. l franco è un punto di riferimento importante per l'Ungheria, dal momento che un'importante quota dei mutui in valuta estera contratti dai privati è denominato in tale valuta. Budapest vede poi nero anche sul fronte dei titoli di stato, il cui rendimento stamani è segnalato in ulteriore salita. Oggi i bond a 10 anni hanno un rendimento del 10,9 per cento. Solo ieri il rendimento di riferimento è stato fissato al 10,58 per cento. Si tratta del rendimento più alto degli ultimi 10 anni.
Fonte: “Il sole 24 ore”