sabato 31 maggio 2014

IN CARIGE IL DRAMMA DI UNA CITTA' CHE MUORE



La triste, disgustosa vicenda di Carige e del suo ex gruppo dirigente è ormai cosa ben nota a tutti, italiani e non. La qualità e il numero dei reati presumibilmente commessi dai vertici della banca genovese è tale da fare il giro del mondo. Carige non è il Monte dei Paschi, ma nonostante le ridotte dimensioni del gruppo, le notizie delle malversazioni commesse dalla cricca di Berneschi sono state oggetto di interesse da parte di tutta la stampa e i media finanziari del mondo intero. La banda di Berneschi non ha tralasciato nulla: se prendiamo in mano il codice penale alla sezione “reati finanziari” scopriamo con sorpresa che sarebbero stati commessi tutti, nessuno escluso. Ovviamente la magistratura deve concludere un lungo e tortuoso percorso prima di giungere alle conclusioni della vicenda, ma ce n’è abbastanza per affermare che l’associazione a delinquere ai danni della banca dei genovesi è assolutamente acclarata, almeno a partire dal 2009, andando a coincidere grosso modo con l’inizio della contrazione economica globale, la profonda crisi che a tutt’oggi è di là da concludersi. Non entreremo dunque nel merito della mera vicenda giudiziaria, oggetto del dibattimento dei giudici, ma il solo fatto che la notizia, per la sua inaudita gravità, ha fatto il giro del mondo, deve muoverci a qualche riflessione. Carige è sempre stata la “cassaforte” dei genovesi, un popolo laborioso di mercanti, trafficanti di merci e derrate di ogni tipo, artigiani e mediatori dediti allo scambio commerciale dai tempi della Repubblica di Genova, anzi, potremmo dire dai tempi delle Crociate. Un popolo di poche parole, parsimonioso anche nel linguaggio, geloso del proprio privilegio sui mari e sui mercati, poco aperto alle innovazioni, conservatore per eccellenza. Carige, nata dalle ceneri del Monte di Pietà del beato Angelo da Chiavasso, è stata fondata nel lontano 1483, pochi anni dopo il Monte dei Paschi, la banca italiana più antica in assoluto. Da sempre considerata un istituto solido, sicuro, ancorato al territorio, dedito all’erogazione di credito per la miriade di piccole imprese, spesso artigianali, che operavano nella Liguria. Attraverso la propria Fondazione, Carige ha sempre dedicato una notevole quota del proprio patrimonio alla crescita culturale della città di Genova: la fondazione ha spesso promosso iniziative didattiche, educative, artistiche, formative, collaborando con la scuola, e con gli enti o associazioni a finalità culturale. Adesso tutto è cambiato. Da cinque o sei anni la banca, partendo dai due euro per azione del 2009, ha cominciato un lento, inesorabile declino. La costante lenta, erosione della redditività, la perdita progressiva di valore del titolo, la difficoltà a concedere mutui, prestiti o fidi in situazioni altrimenti considerate del tutto normali ed agibili, hanno insospettito più di un genovese. Non si riusciva a comprendere, neppure leggendo i bilanci (alterati) dell’epoca come fosse possibile un così inesorabile ed ineluttabile declino. Poi, dallo scorso ottobre, le prime rivelazioni: qualcuno erodeva la banca dall’interno, depauperandola costantemente. Il sospetto cadde allora sulla dirigenza non più in carica, ma, tant’è, un certo scetticismo continuava a serpeggiare. Non si riteneva possibile che una banca così ben strutturata, l’istituto che custodisce i risparmi dei genovesi fosse caduta nelle mani di qualche malfattore. Poi, recentemente, la tragica verità: una vera e propria cricca dominava incontrastata il proscenio della banca, negava un misero prestito ad un padre che cercava di creare una attività al figlio nei tempi della crisi, ma elargiva milioni di euro a faccendieri e bancarottieri. Il lento, inesorabile declino della banca era dovuto ad un pugno di gaglioffi che sottraevano risorse all’istituto e ai genovesi per farle ricadere nelle proprie tasche. La banca stessa diveniva oggetto di truffa, si trasformava, insomma, in parte lesa. E’ la fine di un sogno, il brusco risveglio da un incubo, dalle ambizioni nazionali di “Carige Italia”.  Se tutto va bene, l’istituto precipiterà dalle dimensioni di un gruppo bancario, alla misera condizione di una piccola banca locale, priva di Fondazione (che non ha più un solo euro in cassa),  una vulnerabilissima realtà locale sostanzialmente svuotata di tutte le sue aspirazioni espansionistiche. E questo nella migliore delle ipotesi, perché se è fuori di dubbio che il nuovo amministratore delegato, Piero Montani, sia una persona dalle rare capacità e dalla coscienza cristallina, è altrettanto vero che la banca è arrivata ad un punto di non ritorno, che la situazione non è più reversibile, e che scongiurare una messa in liquidazione dell’istituto (il fallimento), si deve considerare un grande risultato, dovuto unicamente agli sforzi e alle capacità dell’amministratore delegato. Fin qui la triste vicenda di Carige. Ma la città che ospita questo verminaio che era diventata la sua banca per eccellenza, non è da meno. La decadenza di Genova è sotto gli occhi di tutti, la qualità della vita in questa città è mediocre, se non scadente, la sua manutenzione (basti pensare all’assurda, paradossale asfaltatura della sopraelevata) diviene di giorno in giorno sempre più difficile, costosa, di pessima qualità. Molte aree della città sono completamente abbandonate, le sterpaglie e gli arbusti crescono e si allargano sempre più, guadagnando posizioni sempre maggiori, soprattutto in val Bisagno e in Val Polcevera. I fabbricati e i capannoni dismessi, archeologia industriale, non hanno, se non in poche eccezioni, fatto spazio a nuove costruzioni da adibire alle finalità più disparate. Il degrado di interi quartieri, abbandonati alla mercè di extracomunitari che spadroneggiano incuranti dei costumi occidentali e delle leggi ivi vigenti, da Sampierdarena si è esteso ad altri quartieri una volta felici e vissuti liberamente e vivacemente dalla popolazione. Il centro storico è continuamente un cantiere a cielo aperto, le zone  fatiscenti e abbandonate al loro destino sono sempre più ampie: è il regno della prostituzione, dello spaccio della droga, dei “bassi” e dei cubicoli abitati da una umanità variegata a accomunata da un unico denominatore comune: la povertà, l’alcool, la desertificazione, la fuga dei commercianti, i muri sbrecciati, ormai privi di intonaco, i tetti con larghe falle che lasciano filtrare in strada liquami di ogni origine, i cumuli di spazzatura, i portoni delle case trasformati in vespasiani, il tutto sotto gli occhi perfettamente indifferenti di una giunta comunale capace solo di applicare l’aliquota massima consentita della Tasi. I rari turisti arrivano a Genova per lo più per visitare l’Acquario, unica nota lieta in questa amara vicenda, trovando però, la domenica, le serrande regolarmente chiuse di tutti gli esercizi commerciali del centro storico, si guardano intorno perplessi, e se ne vanno portando con sé un ricordo di Genova quale emblema della decadenza. Ma non è solo una questione di infrastrutture: anche nei genovesi stessi è insito il germe del degrado, della miopia, della grettezza e della meschinità. A Genova si assume solo per raccomandazione, in Carige, per esempio, dal secondo dopoguerra, si poteva entrare unicamente attraverso una “segnalazione”, per questo nell’istituto abbondano i soggetti che farebbero meglio a cambiar mestiere. A Genova, se un soggetto giovane, ambizioso, di talento, cerca di mettersi in luce per emergere ed occupare uno spazio cui avrebbe diritto in qualsiasi altra città del mondo, incontra viceversa ostacoli e difficoltà enormi. Si può fare ombra a qualcuno che intende ottusamente conservare i propri piccoli privilegi, la propria misera rendita di posizione. La paura del nuovo, del “diverso” che possiede qualità e voglia di fare, in una città sonnolenta e macilenta produce solo fastidio e noia. Non si vuole lasciare il testimone a nessuno, ci si ritiene indispensabile, come se non ci si rendesse conto che i camposanti pullulano di “persone indispensabili”. E allora questo ipotetico giovane è costretto ad emigrare, a lasciare questa città della più remota provincia del nord Italia, alla volta di Milano, Bologna, Torino, città dove il nuovo vivace e talentuoso non fa paura, viene anzi valorizzato ed incentivato. La proverbiale mentalità genovese chiusa, diffidente, ostile al “foresto” non è solo uno stereotipo, contiene molte verità: mi sono scavato la mia piccola nicchia, non è granchè, è vero, ma è solo mia, e non me la deve portare via nessuno, ho faticato tanto per ottenerla, ho trovato chi mi raccomandava, mi sono prostrato ed annientato dinanzi al potente di turno, ora questa posizione è mia e non me la toglie più nessuno. In questo modo una città non può che morire.  In assenza di un ricambio, anche generazionale, in assenza di politiche di sviluppo che passano anche e soprattutto attraverso la selezione del personale, l’applicazione di una autentica meritocrazia, un “restyling” completo di una città che crolla pezzo dopo pezzo, la creazione di una classe politica dirigente non solo giovane , ma anche intraprendente, abile, alla continua ricerca dell’innovazione e non della conservazione, che sappia mandare in pensione o in soffitta i vecchi tromboni che dominano autorità portuale, Camera di Commercio, banche, aeroporto, ebbene senza queste politiche indispensabili per la sopravvivenza di una città e la garanzia di una sua continuità, Genova è destinata ad una lunga, penosa agonia. Una città può morire in tanti modi: per la vecchiaia della sua popolazione, per la mancanza di provvedimenti adeguati da parte degli organismi locali, per l’invasione di nugoli di stranieri che la colonizzano, ma anche per ignavia, mediocrità della sua classe dirigente, insipienza ed inettitudine dei propri cittadini. Genova è la più grande città di provincia del nord, non è più da molto tempo un polo di attrazione per qualsivoglia investimento e tanto meno per il turismo, nel giro di due generazioni sarà una città fantasma. Perché un imprenditore dovrebbe investire, aprire una attività in una città sonnolenta e paralizzata? L’immagine stessa della “superba” è talmente appannata da apparire quasi ridicola. E qui torniamo dove siamo partiti: Carige deve procedere ad un aumento di capitale di almeno 800 milioni a partire dalla metà di giugno: la Fondazione lamenta che nessun imprenditore ligure, quindi locale, si sia fatto vivo e che la banca rischia di cadere nelle mani di speculatori internazionali (i pirati finanziari degli “hedge fund” americani che potrebbero avviare una scalata). Quanta ingenuità: è ovvio che in una realtà come quella genovese, un imprenditore che avesse la liquidità sufficiente non si sognerebbe neppure di mettere uno spillo in Carige: preferisce custodire gelosamente i suoi averi in segreto, magari all’interno di un materasso.

martedì 27 maggio 2014

ALCUNE RIFLESSIONI SUL VOTO EUROPEO



Sul voto europeo, segnato da profonde implicazioni interne, si impone qualche riflessione. Intanto la percentuale degli astenuti (di cui non parla nessuno): quasi il 43% di non votanti significherà per forza qualcosa. Non c’è la solita disaffezione alla politica, la banale distanza tra paese reale e casta politica, no: questa volta nell’astensione c’è un valore aggiunto. C’è lo scoramento, l’amarezza, a volte la disperazione di chi non ce la fa più, di chi ha perduto lavoro, famiglia, risorse per campare (l’ultimo suicidio data pochi giorni fa), di coloro che si rendono conto che se la classe di politicanti che ci ritroviamo non batterà i pugni sul tavolo di Bruxelles e Francoforte, questa volta dal tunnel non usciamo più. Per chi ha votato, Renzi, il bullo di Firenze, ha stravinto, Grillo se ne ritorna a Sant’Ilario con le pive nel sacco. Ma a Renzi è stata firmata una cambiale in bianco: le promesse sono molte, mantenerle tutte è un’altra cosa. Il voto a Renzi (non al PD!) ha qualche connotazione fondamentale: la paura del nazifascismo evocato dall’urlante triviale populista Grillo, una persona colma di livore, di aggressività non repressa, di odio profondo e viscerale (si pensi al progetto bislacco di processi sommari popolari condotti sul web a politici, magistrati e giornalisti), il culto della personalità, il settarismo del movimento che rasenta il fanatismo religioso, la vaghezza dei propositi, l’inconcludenza di fondo, hanno fatto il resto. In questo, dobbiamo dirlo, il popolo italiano ha manifestato una certa maturità: arginare fino all’evitamento una deriva autoritaria tirannica da parte di un folle esagitato come Grillo è stata una bella dimostrazione di buon senso. Non parleremo neppure di Forza Italia, il cui leader, ormai completamente bollito, ha concluso la sua parabola politica, dopo venti anni che ci hanno ricordato, non solo temporalmente, il ventennio mussoliniano. Il vero nemico da abbattere era il partito di Grillo, un pericoloso Robespierre dei poveri, un rozzo e volgare populista che coltiva aspirazioni tiranniche. Ma adesso Renzi deve dimostrare che il voto attribuitogli sulla fiducia non è solo fondato su promesse e dichiarazioni di intenti: adesso bisogna andare in Europa e sventolare la minaccia di un referendum in Italia sull’euro: è l’unico modo per smuovere il pericoloso immobilismo tedesco ancora fermo sulle politiche del rigore e dell’austerità. Non basta la mancia elettorale dei famosi ottanta euro, che non risolvono un bel nulla: la barzelletta della ripartenza dei consumi con una simile somma è semplicemente demenziale. Dunque, le riforme: ci vuole una riforma epocale del mondo del lavoro, una sorta di New Deal che segue alla Grande Depressione, serve l’innesco di meccanismi economici che facciano ripartire la crescita e lo sviluppo, ma non utilizzando strumenti convenzionali. La crisi italiana è troppo profonda e radicata nel tessuto del paese: siamo l’unica nazione dell’eurozona tuttora in recessione, serve un colpo di reni formidabile. E questo Renzi non lo può fare, per il semplice motivo che gli mancano completamente le competenze. Non capisce nulla di economia e finanza, tanto è vero che è riuscito, con una mossa autolesionista a tassare il risparmio, perfino i conti correnti, una mossa palesemente anticostituzionale che ha inferto il colpo mortale alle magre, residue finanze degli italiani. E allora, se non ci sarà un cambiamento radicale delle politiche di investimento in questo paese, arriverà presto la ben nota “troika”, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea. In sostanza o Renzi smette di fare il buffone e comincia a governare davvero la crisi con provvedimenti shock all’economia, o l’Italia, volenti o meno, sarà commissariata. La perdita di sovranità non sarebbe di per sé un male: non siamo capaci di autodeterminarci, arriva qualcuno che è in grado di farlo dall’esterno. Ma il prezzo che saremmo costretti a pagare in questo caso sarebbe altissimo: gli aiuti europei non sono mai gratis, si ripagano con salatissimi interessi (vedi il caso della Grecia).  Non abbiamo davanti a noi molto tempo: l’ubriacatura che ha seguito la vittoria deve lasciare al più presto il posto ad un programma serio, anche radicale, oltre al proposito di farla finita una buona volta con il rigore e l’austerità, anche a costo di dividere l’euro in due monete: una per il nord e l’altra per il sud Europa. Ma tutte queste cose si possono realizzare con una solida preparazione, con una esperienza ed una cultura economica e politica che il bullo di Firenze non possiede: non basta essere giovani e propositivi, quando si arriva al dunque, in assenza di un patrimonio di conoscenze indispensabile, si finisce col balbettare vaghe idee di innovazione che sono vecchie ancor prima di vedere la luce. Forza Italia è un partito finito, il Nuovo Centro Destra ha superato lo sbarramento solo in virtù dell’alleanza con l’UDC, la Lega ha qualcosa da dire. Gli italiani, al di là della stucchevole retorica del migrante  buono ad ogni costo perché sfuggito alla miseria o alle torture di governi autoritari, costituisce un problema sempre più serio: siamo le porte dell’Europa ma all’Europa non importa un accidente, ce la dobbiamo cavare da soli: con una legislazione appropriata è giocoforza cercare di arginare una immigrazione altrimenti inarrestabile. Può darsi che la Lega parli alla pancia, prima ancora che alla mente degli italiani. Ma non le si può negare l’interpretazione autentica del pensiero della stragrande maggioranza della popolazione, stanca della trita demagogia della sinistra sulla società multietnica: che non è un arricchimento, al contrario è un impoverimento della nostra identità culturale e storica. Le questioni da affrontare sono dunque molteplici, le soluzioni mai facili: una revisione globale della sciagurata legge Fornero, una riforma vera, strutturale , del mercato del lavoro, la ridiscussione dei trattati europei con la conseguente cessazione dei sacrifici che ci hanno strangolato, una politica restrittiva sull’immigrazione, insomma la materia sulla quale dibattere non manca. Vedremo se il bullo di Firenze sa fare qualcosa di più che parlare a raffica. Noi, personalmente, lo dubitiamo fortemente. Lo dubita fortemente anche il 43% degli italiani che non si è recato a votare.

sabato 24 maggio 2014

ABBIAMO TOCCATO IL FONDO. NONOSTANTE L'EUROPA

Mentre si chiude la campagna elettorale ed i media non fanno altro che fare da cassa di risonanza alle promesse dei politici, chi vuol dare 80 euro al mese ai dipendenti, chi promette un reddito di cittadinanza e chi di alzare le pensioni, gli italiani continuano ad avere sempre più problemi ad arrivare a fine mese.
L’espressione “tirare la cinghia”, che era sempre stata usata in senso metaforico, oggi va presa nel suo significato letterale, se infatti gli italiani hanno hanno ridotto i propri consumi totali a marzo del 3,5%, quelli alimentari sono letteralmente crollati: -6,8% rispetto allo scorso anno, il dato peggiore dal 1995.
Ormai siamo abituati ad essere sommersi da una marea di dati economici, praticamente tutti negativi, per cui c’è quasi una assuefazione, se non proprio una rassegnazione a “star peggio di prima”, ma questo dato deve assolutamente far riflettere.
Abbiamo sempre studiato sui libri di scuola che i consumi alimentari sono gli ultimi a scendere essendo considerati “primari”, ed allora quando vediamo ridurre le vendite in maniera così significativa non c’è che una spiegazione: una larga fetta della popolazione italiana “non ce la fa più”.
All’inizio della crisi, come normale che sia, si è cercato di metter mano ai risparmi, ora si stanno esaurendo anche quelli, ed in ogni caso non è in quella maniera che si risolvono i problemi, è con il reddito che si costruisce il benessere, il patrimonio, al massimo, serve a preservarlo.
Ed in Italia le retribuzioni ad aprile hanno registrato un incremento tendenziale dell’1,2% il dato peggiore da quando l’Istat calcola questo indicatore (1982). Ma c’è di peggio, perché ciò significa soltanto che chi ha una retribuzione se l’è vista aumentare in media dell’1,2% ma coloro che non ce l’hanno, ossia i disoccupati, sono aumentati, quindi il risultato complessivo è addirittura negativo.
E’ evidente a tutti che questa situazione drammatica è dipesa essenzialmente da errori del passato e dalla decisione scellerata di aderire alla moneta unica. Sugli errori del passato, finché non inventiamo la macchina del tempo, non possiamo farci nulla, ma sull’adesione all’euro, invece … invece sentiamo dire che l’Italia non ha bisogno di meno Europa, ma addirittura di più Europa. (source) E' evidente per chiunque abbia un minimo di buon senso comune (anche non politico!) che i famosi 80 euro sono una "mancia elettorale" del populismo della peggior risma, sono attribuiti a coloro che non ne hanno realmente bisogno, non cambiano la vita di nessuno se non cambia l'intero sistema del mercato del lavoro e delle politiche comunitarie in ambito economico e finanziario. Andiamoci pure in Europa, teniamoci pure questa moneta unica che è diventata una camicia di forza, ma, almeno, annunciamo a Bruxelles l'intenzione di indire un referendum nel nostro paese sull'eventuale uscita unilaterale dall'euro. Potete scommetere che la Germania in primis scenderebbe a patti e a più miti consigli. L'uscita dell'Italia dall'euro determinerebbe automaticamente la fine della moneta unica, con conseguenze incalcolabili a livello globale. Soprattutto per quelle teste di ghisa dei tedeschi.

martedì 20 maggio 2014

CARO BEPPE, RIMANI SUL WEB



Dopo ventuno anni Beppe Grillo torna alla Rai e sceglie “Porta a Porta” per il suo grande rientro, pubblicizzato in pompa magna, il programma di Bruno Vespa doveva essere, secondo le anticipazioni del conduttore, “un’ora in cui si parlerà di tutto”.
Ed invece non si è parlato quasi di niente, Grillo ha profondamente deluso, quando si va a “vedere”, come a poker, dietro al Movimento Cinque Stelle c’è il nulla, o quasi, insomma veramente poco.
Vespa lo sapeva ed allora non ha fatto un’intervista a Beppe Grillo, ma lo ha lasciato parlare a ruota libera, sapendo benissimo che più parlava e più si sputtanava, non c’è una sola idea politica dietro al M5S, nemmeno il populismo, nulla!
E Vespa, da quel vecchio marpione che è, ha surclassato Grillo che ha fatto la figura del principiante continuando a parlare a vanvera senza mai essere convincente.
Ogni tanto Vespa gli rifilava qualche stoccatina (ad esempio quella sulla questione immigrati) che metteva in evidente imbarazzo l’ex comico, il meglio, però, l’anchor man lo raggiungeva quando ha finto di prendersela perché il programma da intervista si stava trasformando in un monologo, era ovviamente un bluff perché il conduttore aveva volutamente lasciato che la trasmissione prendesse quella piega che si stava rivelando un boomerang per Grillo.
Il reddito di cittadinanza, mandare a casa un’intera classe politica, la democrazia del web, insomma i temi cari al M5S sono depotenziati dalla ripetitività e non sono queste cose a portare nuovi consensi al partito, il M5S vince perché la politica “tradizionale” è invotabile, insomma per demeriti altrui e non per meriti propri.
Se vogliamo la sola cosa positiva che si può riconoscere al Movimento è l’onestà dei suoi componenti, ma questo “valore”, che indubbiamente per il popolo ha una grande valenza, è chiaramente connaturato in una forza politica “agli albori” e che non ha alcun incarico amministrativo e di Governo.
Ma altri cavalli di battaglia del Movimento, anche ieri sera sbandierati da Grillo, sono obiettivamente delle assurdità, o meglio delle sciocchezze, come ad esempio quella di limitare a due mandati la presenza in Parlamento, che senso ha? Qual è la logica?
Riteniamo che dopo due mandati un Parlamentare diventi disonesto? Non è più probabile che al secondo mandato, sapendo di non potersi più ricandidare, possa essere maggiormente demotivato?
Ed ancora, se una persona è particolarmente valida e capace, perché deve lasciare il suo posto ad un “novellino” che ci impiegherà del tempo solo per capire come funziona la “macchina Parlamentare”?
Grillo ha citato come esempio positivo, e personalmente sono assolutamente d’accordo, l’On. Roberto Fico, Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai, ebbene, perché dopo il prossimo mandato (in cui sarà certamente rieletto) non potrà più ricandidarsi? Non sarebbe meglio (ed anche più democratico) lasciar decidere ai cittadini che si esprimono col loro voto?
Ma questa è solo una delle mille incongruenze del Movimento, non sarà Beppe Grillo a salvare od ad affondare il nostro Paese, di sicuro, però, l’Italia ha bisogno di ben altro. (source)

lunedì 19 maggio 2014

E SE SE IL MINISTERO DELL'ECONOMIA AVESSE SBAGLIATO TUTTO?



Quando si forma un esecutivo, soprattutto in questi ultimi anni (ma io direi da sempre), c’è un Ministero che riveste un’importanza straordinaria, in pratica vale come tutte gli altri messi assieme, e forse di più, sto naturalmente parlando del Ministero dell’Economia.
Fino ad un po’ di anni fa, però, affinché una sola persona non racchiudesse in sé un potere eccessivo, l’economia del Paese era gestita da due Ministeri, quello delle Finanze e quello del Tesoro, in pratica, ad uno le entrate, all’altro le uscite.
Il rischio che tra i due titolari dei Dicasteri potessero sorgere “conflitti di interesse”, però, era naturalmente altissimo, i due Ministri potevano attribuirsi a vicenda le colpe delle defaillance economiche del Paese, uno poteva accusare l’altro di essere troppo spendaccione e sentirsi contemporaneamente ribattere di non essere capace di incrementare le entrate.
Molti hanno visto in questa “anomalia” l’origine del nostro eccessivo debito pubblico, si evitava la “conflittualità” fra i due Ministeri aumentando continuamente il debito, e non si può negare che questa argomentazione, abbia in sé una parte di verità.
Fu Silvio Berlusconi che riunificò i due Dicasteri, dando così origine al Ministero dell’Economia che affidò a Giulio Tremonti.
Poteva sembrare una maniera più efficiente, a prima vista, per gestire l’economia di un Paese, pare infatti più logico che sia una sola persona a far quadrare introiti e le spese, ma se ci pensiamo bene “l’Istituzione” che ha sorretto l’Italia da sempre, ossia la famiglia, è stata per secoli fondata sulla suddivisione dei ruoli: al marito il compito di guadagnare i soldi, alla moglie quello di spenderli con oculatezza, cercando sempre di far uscire una lira meno di quelle che erano entrate.
Questa suddivisione di ruoli è stata fondamentale per far crescere l’Italia e soprattutto ha fatto sì che le famiglie italiane siano fra le meno indebitate al mondo e abbiamo fatto del risparmio la loro virtù principale.
Forse abbiamo solo scoperto l’acqua calda, in cuor nostro abbiamo sempre saputo che se avessimo affidato il Ministero del Tesoro alla Casalinga di Voghera, oggi, certamente, non ci troveremmo in questa condizione. (source)