venerdì 30 marzo 2012

SOLO L'1% DEGLI ITALIANI DICHIARA 100.000 EURO


Siamo alle comiche: gli imprenditori guadagnano meno dei loro dipendenti.

Nel 2010 il reddito medio degli italiani e' stato 19.250 euro e segna un aumento dell'1,2% rispetto all'anno precedente caratterizzato dalla profonda recessione. Ma il numero a saltare subito all'occhio e' quello relativo ai 14 milioni di contribuenti che non dichiara piu' di 10 mila euro (uno su tre), la meta' meno di 15mila e quasi 11 milioni non pagano l’Irpef.

Solo l'1% dei contribuenti (circa 400 mila) supera i 100 mila euro. Il reddito medio degli imprenditori (18 mila) e' risultato inferiore a quello dei dipendenti (19.500).

E' quanto emerge dai dati elaborati dall'Agenzia delle entrate sulle dichiarazioni dei redditi. Sono stati circa 41,5 milioni i contribuenti che hanno assolto direttamente l'obbligo dichiarativo attraverso la presentazione dei modelli di dichiarazione Unico e 730, ovvero indirettamente attraverso la dichiarazione dei sostituti d'imposta (Modello 770).

Nel 2010 il numero dei contribuenti torna a crescere, seppur in maniera molto lieve (+24 mila), recuperando in minima parte il calo registrato nell'anno precedente (-280 mila), soprattutto grazie all'aumento dei contribuenti che dichiarano un reddito da lavoro dipendente (+56 mila).

Si assiste anche ad una contrazione dei soggetti che dichiarano reddito d'impresa e di lavoro autonomo, influenzata dalla fuoriuscita dalla tassazione ordinaria IRPEF di coloro che hanno optato per il regime dei minimi (+90 mila adesioni nel 2010).

A livello nazionale il reddito complessivo totale dichiarato e' pari 792 miliardi di euro mentre il reddito medio e' pari a 19.250 euro. Entrambi i valori sono in aumento rispetto all'anno precedente (+1,2 per cento). L'analisi territoriale mostra che la regione con reddito medio complessivo piu' elevato e' la Lombardia (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio piu' basso con 13.970 euro.

Nel 2010 si evidenzia, in controtendenza rispetto al 2009, una crescita superiore del reddito complessivo medio nelle regioni settentrionali rispetto al resto del Paese: gli incrementi variano da un massimo dell'1,3 per cento al nord-ovest ad un minimo dello 0,6 per cento nelle isole.

La distribuzione per classi di reddito mostra che un terzo dei contribuenti (circa 14 milioni) non supera un reddito complessivo lordo di 10.000 euro e circa la meta' (49 per cento, pari a 20,2 milioni) non supera i 15.000 euro. Il 30 per cento dei contribuenti dichiara redditi compresi tra i 15.000 ed i 26.000 euro, il 20 per cento dichiara redditi compresi tra i 26.000 ed i 100.000 euro. Solo l'un per cento dei contribuenti dichiara redditi superiori ai 100.000 euro.
Fonte: wallstreetitalia

mercoledì 28 marzo 2012

PECHINO, ITALIA


Tutta l'opinione pubblica con la complicità dei mass media è incentrata ormai da quasi tre mesi solo ed esclusivamente sull'articolo 18. Come sempre l'italiano della strada è pervaso di classismo sociale per cui se sei a favore della sua abolizione allora sei un sporco capitalista, mentre se sei contrario sei un povero comunista. Da oltre otto anni ho delocalizzato la mia vita e la mia attività professionale in un altro paese europeo, questo con l'intento di ricrearmi una sorta di scialuppa di salvataggio nell'eventualità che l'Italia faccia la fine della Costa Concordia (possibilità giorno dopo giorno sempre più elevata). Attenzione ho menzionato il Costa Concordia e non il Titanic, il primo esempio infatti porta a immaginare all'arenamento del paese e non al suo affondamento. Sulla carta infatti abbiamo almeno evitato il baratro finanziario, non che questo debba spegnere la sirena d'allarme che sta suonando da qualche anno.

Sino ad oggi la possibilità di rivedere o eliminare questo articolo di legge è contemplata solo come casistica di danno per i lavoratori, nessuno affronta il tutto dalla parte di chi invece fa impresa. Il paese è diviso in due: chi sta con i sindacati e chi si schiera contro. Sul piano economico l'Italia non è una democrazia de facto, infatti è succube di una dittatura sindacale ortodossa. Dopo questa affermazione immagino gli insulti ed offese che mi arriveranno, a cui ormai faccio spallucce, pur tuttavia lasciatemi raccontare un episodio. Alcuni mesi fa sono stato invitato a tenere una lectio magistralis presso un istituto superiore di una regione meridionale, al termine del mio intervento molti studenti mi hanno avvicinato raccontandomi come oggi grazie ai sindacati non sia possibile implementare nel loro territorio le 35 ore. Queste ultime niente hanno a che fare con Bertinotti, quanto piuttosto alla possibilità per nuove aziende di insediarsi nel territorio in questione creando occupazione a tempo indeterminato, incentivate dal fatto che i giovani disoccupati del posto (pur di lavorare) sono disposti a fare 40 ore settimanali e farsene retribuire solo 35. 

In Italia tutto questo rappresenta un'eresia, è tabù proprio come l'articolo 18.  Infatti non è previsto derogare ad un contratto nazionale e né alla concertazione sindacale: così facendo si genera disoccupazione ortodossa a causa di un establishment sindacale con una mentalità ormai obsoleta e fallimentare. Negli altri paesi questa possibilità (non imposta, ma proposta dalle stesse maestranze)  sarebbe vista come lungimiranza e buon senso. Negli altri paesi, ma non in Italia. Al momento attuale la moria di aziende unita al tasso di abbandono (anche per fenomeni di  delocalizzazione) provocherà un costante peggioramento delle opportunità di occupazione, in quanto ormai è pura follia continuare a produrre in Italia avendo le opportunità di insediamento produttivo in paesi a noi vicini come Serbia, Turchia e Slovacchia (senza contare gli sgravi fiscali). Ormai è un'ultima chiamata per il paese, osservato speciale dall'esterno, obbligato a dare dimostrazione di un cambio di mentalità abbandonando le logiche medioevali a cui si è ispirato sino ad oggi: e vai con gli insulti.

Come più volte ho ricordato e scritto i lavoratori dipendenti italiani (solo quelli assunti a tempo indeterminato) sono sempre stati protetti da tutti a da tutto oltre ogni ragionevole buon senso, ed anche loro presi nella generalità rappresentano l'ennesima casta di privilegiati ed intoccabili del paese. Tuttavia adesso con la metamorfosi di tutta l'economia occidentale e lo spostamento verso l'Asia del baricentro del mondo produttivo, ci troviamo volenti o nolenti a dover rivedere questo protezionismo sociale sfrenato del posto di lavoro. Sono veramente pochi quelli (sia lavoratori che imprenditori, non parliamo dei sindacalisti) che oggi riescono a proiettarsi con la mente a quello che sarà il destino che attende il nostro paese ed il suo potenziale occupazionale. L'Articolo 18 se non sarà accettato dai partiti e dalle forze sindacali, assieme a una maggior deregulation del mercato del lavoro sarà in ogni caso imposto nei prossimi anni dal mercato con tutte le sue spiacevoli conseguenze.

Ma non sarà imposto dal mercato delle imprese italiane, ma da quello delle imprese italiane controllate da quelle cinesi. Stiamo subendo una lenta, e progressiva opera di penetrazione da parte di imprese, lavoratori ed artigiani cinesi proprio all'interno di casa nostra: all'inizio si limitavano a comprare la tabaccheria e la pizzeria del nostro quartiere, adesso con il sostegno di Pechino stanno acquistando partecipazioni in aziende strategiche italiane, marchi, know how e brevetti italiani, oltre a detenere una parte consistente del nostro debito pubblico (superiore al 4%). Di fatto in Italia si stanno già creando le condizioni esogene per una devolution del mercato del lavoro non più soggetto alla contrattazione sindacale come un tempo. Stando alla mentalità classista italiana che ingessa il paese e non lo porta a difendersi o a studiare manovre di contenimento (al di là della ormai occulta compiacenza politica italiana) è quasi certo che i vostri figli e nipoti saranno condannati nella maggior parte dei casi a fare gli sguatteri e i manovali a chiamata dei cinesi.
Eugenio Benetazzo – eugeniobenetazzo.com


lunedì 26 marzo 2012

GIU' NEL PALEOZOICO


Può dispiacere il governo Monti: taluni suoi esponenti fanno a gara a collezionare svarioni e castronerie. Il Ministro Profumo che vuole indire concorsi (non sapendo che per organizzare un concorso occorre almeno un anno di tempo, giusto quello che ci divide dalle urne)o mettere ordine nel’edilizia scolastica (non basterebbe una finanziaria), il Ministro degli esteri Terzi che dichiara che per liberare uno dei due ostaggi catturati dai maoisti indiani non è stato versato un centesimo di riscatto (rivelando una insospettabile faccia tosta), o il ministro Fornero, che con la sua perenne aria saccente e sprezzante ha seccato un po’ tutti. Può dispiacere, non lo neghiamo: i sacrifici sono chiamati a farli sempre gli stessi, lo rivelano le buste paga di questo disgraziato mese, lo rivela la mancata applicazione di una sacrosanta patrimoniale, la mancata abolizione di assurdi diritti acquisiti, come quelli delle baby pensioni o delle pensioni sopra i 200.000 euro. Lo rivelano le troppe debolezze dimostrate dinanzi alle cricche dei tassinari e dei farmacisti, soprattutto una manovra fiscale fatta solo di inasprimenti delle imposizioni, dirette e indirette (le accise della benzina!), insomma i calci provengono da direzioni sempre diverse, ma i fondoschiena che li accolgono sono sempre gli stessi. Le operazioni di facciata di Cortina, Portofino, Sanremo, ecc. non persuadono nessuno: l’evasione fiscale è un delitto di là da essere colpito. Bene, considerato tutto questo, la riforma del lavoro va fatta, sono tutti d’accordo, ma la CGIL dice no, l’articolo 18 non si tocca. Quella del governo Monti è una riforma migliorabile, non c’è dubbio, ma alla quale non si possono opporre veti: la si fa o non la si fa del tutto. Non è più il tempo dei compromessi. Bisogna agire, e agire presto. Se non portiamo a casa in tempi ristretti una riforma che si adegui al mercato globalizzato, non solo rischiamo di perdere l’ultima occasione utile di ammodernare il mondo del lavoro, ma ci ritroveremo presto a fare i conti con uno  spread a 550 punti , ad essere nuovamente il bersaglio della speculazione internazionale (pensate solo ai fondi hedge!), insomma, andremo presto a fare compagnia al Portogallo. Monti non ha riportato solo credibilità ad un paese uscito a pezzi dalla macelleria berlusconiana, ha introdotto le misure di austerity (per quanto in gran parte non corrette) che chiedevano i mercati per riacquisire fiducia nella nostra solvibilità, ed ora, con la riforma del lavoro, deve completare l’opera liberando l’ossatura industriale italiana dalla gabbia del conservatorismo della CGIL. L’articolo 18, nella sostanza, è poca cosa: nella realtà sarebbe limitatamente applicato, senza contare che è la flessibilità in entrata quella che conta. E’ immensamente più importante far entrare un giovane disoccupato nel mondo del lavoro, piuttosto che perdere qualche cinquantenne che, se uscito, deve essere adeguatamente aiutato, non con una tantum, ma con un vero ammortizzatore sociale, una cassa integrazione che lo possa accompagnare alla pensione. Si tratta di una riforma dolorosa, lo sappiamo tutti, ma se non ci adeguiamo ai mercati internazionali, il nostro destino è quello di soccombere: non è poi una grande soddisfazione l’aver mantenuto intatto l’articolo 18 ed aver perso il 50% dell’industria, delocalizzata altrove. Se non si comprende una realtà così tragicamente semplice si è destinati al default, all’uscita dalla scena internazionale. La riforma deve essere approvata, nelle sue grandi linee, si potrà, poi, nel tempo, apportare quei correttivi che si dovessero rendere necessari. Siamo in una fase delicatissima. Abbiamo un piede in sicuro ed uno in fallo. Non siamo fuori dal cono d’ombra. Lo spread deve scendere al livelli francesi (100 punti base), dobbiamo riacquistare in competitività, pur mantenendo una moneta troppo forte rispetto al dollaro. Le esportazioni, con l’euro, non sono agevolate, ma proprio per questo dobbiamo moltiplicare gli sforzi per promuovere il made in Italy, e se la struttura della nostra industria non mostra  la flessibilità necessaria per entrare nell’agone dell’export, non riusciremo più a piazzare all’estero neppure una forma di parmigiano. Riformare il lavoro non significa ridurre i salari, già piegati ai minimi termini, ma rendere entrata e uscita più duttili, meno rigide ed ideologiche. Davvero la CGIL rischia di essere il Leviatano che divora il PD e ci riporta indietro di quarant’anni. I reazionari, ironia della sorte, sono proprio loro. Non che quelli della Confindustria siano dei cherubini, ma tutti debbono fare uno sforzo e cedere qualcosa, gli scioperi generali non servono. Se il paese riesce a compiere questo ulteriore, indispensabile passo, potremo considerarci quasi al sicuro dalle turbolenze prossime venture dei mercati e delle borse, e saremo in grado di galleggiare sulla crisi senza affogarvi. Se il compito di Monti si dovesse fermare a questo punto, lasciando incompiuta l’opera, possiamo chiudere bottega. Da Seul Monti lo ha detto chiaramente, non intende tirare a campare , il suo governo è stato chiamato a fare cose sgradevoli che i politici non potevano o non volevano fare: se in quest’anno che ci divide dalle elezioni, il prof. Monti riuscirà a portare a termine il suo programma, con tutte le distorsioni e le iniquità possibili, ci potremmo considerare al sicuro. Se interrompiamo (e rischiamo di farlo grazie ai reazionari della CGIL) il suo lavoro a questo punto, i mercati ci somministreranno una tale solenne bastonatura dalla quale non ci riprenderemo più, imboccando lo stesso percorso di Grecia e Portogallo. Può sembrare un discorso semplicistico, ma non lo è. Non è semplicistico, è semplice: prendere o lasciare. Monti non può licenziare una riforma fatta a metà, c’è solo spazio per qualche ritocco. Ci pensino bene i politici, è l’unica occasione che abbiamo per uscire dalle sabbie mobili del tiro al bersaglio da parte di mercati e speculatori. Non ci saranno altri Monti e altri governi tecnici, la parola tornerà a quella sciagurata classe politica che ci ritroviamo. Cerchiamo di sfruttare questa occasione, dunque, i dinosauri si sono estinti una volta, facciamo in modo che scompaiano di nuovo. La storia ci offre un’occasione su di un piatto d’argento: non ce ne sarà una seconda.

giovedì 22 marzo 2012

ALIQUOTE IMU DEI PRINCIPALI COMUNI


Aspettando il 18 giugno, giorno di scadenza della prima rata dell’Imu, i Comuni hanno iniziato a stabilire le aliquote che applicheranno sul proprio territorio.

 SECONDO LE norme vigenti, è previsto che ai Comuni andrà soltanto la metà del gettito, e quindi, questa nuova fonte di incassi farà sicuramente gola alle amministrazioni comunali, stremate finanziariamente dai continui tagli degli ultimi anni.

INOLTRE SPETTERÀ ai Comuni decidere quali variazioni applicare, in aumento o in diminuzione, fino ad un massimo dello 0,2 %, portando perciò allo 0,2 o allo 0,6 % l’aliquota sulla prima casa.

LO STESSO CRITERIO vale per le seconde case, dove però l’aliquota base sarà dello 0,76 % e quindi quella applicabile potrà subire variazioni da un minimo di 0,46 ad un massimo di 1,06 %. I principali Comuni intanto si stanno orientando in questo senso:

-Roma: prima casa 0,5 %, seconda casa 1,06 %.
-Milano: prima casa 0,4 %, seconda casa affittata a canone concordato 0,46 per mille, affittata a prezzi di mercato 0,96 %, sfitta 1,06 %.
-Torino: prima casa 0,5 %, seconda casa 0,96 %.
-Firenze: prima casa meno dello 0,4 %, seconda casa affittata 0,96%, sfitta 1,06 %.
-Genova: prima casa 0,5 %, seconda casa 1,06 %.
-Venezia: prima casa 0,4 %, seconda casa 0,1-0,15 %.
-Palermo: prima casa 0,48 %, seconda casa 0,98 %.
-Trieste: prima casa 0,425 %, seconda casa 0,95 %.
-Aosta: prima casa 0,4 %, seconda casa affittata 0,76 %, sfitta 0,90%.

Angerlo Marelli – professionefinanza.com

mercoledì 21 marzo 2012

FINE DELLA SPOCCHIA OLANDESE


Un tempo esistevano i paesi virtuosi, che presentavano deficit e debiti pubblici esemplari, da "cattedra" per i disgraziati Piigs e altre economie europee che male avevano fatto i loro conti. Per evitare il peggio, questi paesi virtuosi si misero d'accordo e crearono il cosiddetto "Fiscal Compact": un insieme di sanzioni e di regole che molti analisti - leggi articoli sotto - hanno presentato come una vera e propria minaccia all' esistenza stessa di sovranità nazionale.

Tutto, alla fine, per far piacere a loro, i paesi virtuosi: Germania (prima di tutto lei, vera artefice del trattato sull'Unione fiscale), Francia e Olanda.
Ma ora arriva l'imbarazzo, che non è poco, proprio per l'Olanda, : già, la stessa che lo scorso anno aveva fatto tremare i paesi europei non virtuosi, per bocca del premier Mark Rutte e del ministro delle finanze Jan Kees de Jager: entrambi avevano affermato che i paesi che non avessero rispettato le regole fiscali avrebbero dovuto essere esplusi dall'Eurozona .

Lo scorso settembre, la coppia disse: "Un accordo è un accordo. Da ora in poi dobbiamo impedire ai paesi di violare le regole beneficiando dell'impunità", aggiungendo : "in futuro, ci potrebbero essere sanzioni definitive che potrebbero costringere alcuni paesi a lasciare l'euro".

Ma cosa risponderà ora la "virtuosa" Olanda ai paesi che non ha fatto altro che bacchettare negli ultimi mesi? E cosa dirà la Germania, certamente imbarazzata nel vedere che lo stato tra i suoi alleati più stretti nel perseguire la strada del rigore fiscale, è il primo tra i virtuosi ad aver dato il cattivo esempio?

I numeri parlano da soli. Stando a un articolo pubblicato sul Telegraph, il "National Bureau for Economic Policy Analysis (CPB) ha reso noto che il deficit di bilancio olandese potrebbe crescere fino al 4,6% del Pil sia quest'anno che l'anno prossimo; e il livello è decisamente superiore a quella soglia del 3% che 25 paesi dell'Ue si sono ripromessi di centrare entro il 2013. Ma c'è anche di peggio. In un rapporto, il CPB afferma che "l'Olanda deve far fronte agli stessi problemi di Italia e Spagna".

Le ultime parole famose, dunque. Secondo il think tank, il governo olandese sarà costretto a questo punto a introdurre misure di austerity, se vuole centrare i target stabiliti con il Patto fiscale. E proprio il rafforzarsi delle misure di austerity, per andare incontro a quanto ha voluto prima di tutto la Germania, a cui l'Olanda si è placidamente accodata, continua a spaventare diversi economisti, e non solo.

Francois Hollande, candidato socialista alla corsa presidenziale in Francia e in testa nei sondaggi, sta conquistando per esempio un nutrito gruppo di alleati nella campagna anti patto fiscale. E Tim Geithner, segretario al Tesoro Usa, ha avvertito contro l'introduzione di misure e sanzioni che potrebbero far inceppare il cammino verso la ripresa della già debole Europa, parlando di una "spirale di austerity che uccide la crescita e che si rafforza da sola".
Fonte: wallstreetitalia


Sembra incredibile, dopo quattro anni di contrazione economica mondiale, sembra incredibile dicevamo che esistano ancora paesi così tronfi e pieni di boria da non capire che l’Europa è condannata a restare unita, nel bene e soprattutto nel male. Non esistono paesi virtuosi, così come non esistono paesi particolarmente dissennati. Con al sola eccezione della Grecia, un paese governato da una cricca di malfattori truccatori di bilanci, un paese già fallito ancora prima di entrare nell’euro, tutti gli altri, Portogallo e Irlanda compresi, pur presentando debolezze strutturali, saranno condannati al fallimento solo se seguiranno la strada che una Unione Europea criminale ha tracciato per la Grecia. L’errore che non possiamo perdonare a Monti è quello di aver dato corso, nella prima manovra (quella dei tagli e delle imposizioni fiscali)alla famosa letterina pervenuta dalla UE. Sembrava il decalogo del perfetto fallimento, i comandamenti del paese destinato al default. Il “Fiscal compact” non va bene neppure per i paesi più ricchi e con un asset più equilibrato, figuriamoci per quelli che presentavano già da prima deficit pubblici molto alti, pubbliche amministrazioni pletoriche e mal funzionanti, carenza di materie prime, dipendenza dagli altri paesi per l’energia, classi politiche non all’altezza. Apprezziamo in Monti la seconda parte, quella attuale, della sua manovra: la riforma previdenziale, quella del mercato del lavoro, le liberalizzazioni. E’ un vero peccato che i provvedimenti tributari e fiscali abbiano sortito il solo risultato di fare aumentare il debito pubblico (non lontano dai 2.000 miliardi) ed un rapporto debito/PIL sempre peggiore, dal momento che il PIL è in recessione. Lo spread comincia a risollevarsi, sarà necessaria un’altra bella manovrina. Tornando all’Europa, come diceva Draghi: “l’Euro è una moneta piena di difetti, ma è una moneta irreversibile.” L’aspetto grottesco della vicenda è che l’Europa, nonostante non sia riuscita (anzi, non ci abbia neppure provato) a darsi una costituzione ed una unione politica, è obbligata a restare unita, fino in fondo. Il destino di un paese è il destino di tutti gli altri. Siamo legati indissolubilmente gli uni agli altri, con la sola eccezione della Grecia, che è già, di fatto , fuori dall’euro. Gli spocchiosi olandesi, che credevano di essere i primi della classe, meglio dei tedeschi, devono fronteggiare a loro volta le conseguenze della fallimentare politica tedesca: i sacrifici, la pressione fiscale, i tagli da soli non bastano. Deprimono l’economia generando un circolo vizioso dal quale non si esce più, avvitandosi sul debito pubblico. Le ultime vittime di questa politica, fortemente voluta da un dilettante dell’economia come Schaeuble, sono proprio gli olandesi. Scendano pure dal piedistallo, i signori dei Paesi Bassi, e comincino anche loro a prendere in considerazione l’unica cosa da fare nei periodi di forte contrazione economica: le politiche Keynesiane, l’intervento dello stato direttamente nell’economia e soprattutto nella finanza, che continua imperterrita ad essere deregolata, in preda a derivati, cartolarizzazioni e fondi hedge. Benvenuti nel club dei PIIGS cari olandesi, è suonata l’ora anche per voi.


lunedì 19 marzo 2012

INVECCHIEREMO, INESORABILMENTE


Ogni singola cellula del nostro corpo è inesorabilmente condannata a invecchiare e, prima o poi, a spegnersi. Una dura legge che la natura ha marchiato a fuoco sul Dna e in particolare nei telomeri, le estremità terminali che proteggono i cromosomi.

Queste sequenze funzionano come 'clessidre' cellulari, una specie di 'timer' della vita: a ogni ciclo di proliferazione della cellula i telomeri perdono un pezzettino, mano a mano che si accorciano la cellula invecchia, e quando il tempo li ha consumati significa che è arrivata al capolinea.

Frenare questa progressiva erosione è una delle strade battute dalla scienza a caccia dell'elisir di eterna giovinezza, ma ora uno studio guidato dall'Ifom di Milano spiega che invecchiare è un destino ineluttabile. Gli autori hanno dimostrato che accorciarsi non è l'unica cosa che può accadere ai telomeri. Il problema vero è che, a differenza di tutto il resto del Dna, quello dei telomeri non si può riparare.

Se si rompe o si danneggia, non è prevista soluzione. La scoperta, pubblicata su 'Nature Cell Biology', sancisce in sintesi "l'inevitabilità delle lesioni del tempo", riassumono i ricercatori. Lo studio è condotto da Marzia Fumagalli e Francesca Rossiello sotto la guida di Fabrizio d'Adda di Fagagna, che all'Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare) è responsabile del programma di ricerca 'Telomeri e senescenza'. Al lavoro hanno collaborato colleghi dell'università di Milano-Bicocca e della New Jersey Medical School americana.

Le conclusioni del team hanno implicazioni anche nella lotta al cancro. Infatti, se da un lato la senescenza segna il deterioramento di tutta una serie di funzioni vitali, a livello cellulare è anche un meccanismo che, attivato precocemente, può prevenire l'insorgenza dei tumori. Quando, il 5 ottobre del 2009, gli studi sui telomeri fruttarono il Nobel per la Medicina agli statunitensi Elizabeth H. Blackburn, Carol W. Greider e Jack W. Szostak, i media celebrarono l'evento come un premio alla scienza che insegue l'immortalità.

Si parlò di corsa all'elisir di eterna giovinezza perché l'idea era che, agendo sull'enzima che regola la lunghezza dei telomeri (la telomerasi), sarebbe possibile rallentare o addirittura invertire la marcia dell'invecchiamento. Il nuovo studio descrive invece un quadro più complesso, in cui l'accorciamento non è il solo nemico dei telomeri: "Con l'età - precisa infatti d'Adda di Fagagna - abbiamo riscontrato un accumulo progressivo di danni in queste porzioni cromosomiche in cellule e tessuti, indipendentemente dal loro accorciamento".

La scoperta milanese si può riassumere così: le nostre cellule non leggono il passare del tempo solo dalla ridotta lunghezza dei telomeri, ma anche dalla compromessa integrità di questi 'cappucci' sui cromosomi. E l'integrità dei telomeri, più della loro lunghezza, è il parametro chiave in particolare per le cellule che hanno smesso di dividersi, ad esempio i neuroni. Anche se le cellule non proliferanti non perdono i telomeri, infatti, invecchiano comunque.

Allo stesso modo, frenare l'accorciamento dei telomeri non significherebbe automaticamente riuscire a restare giovani. E questo perché bisognerebbe fare i conti anche con l'irreparabilità di eventuali danni al Dna di queste seguenze. "Che il Dna si rompa è un evento tutt'altro che raro nella vita della cellula - sottolinea d'Adda di Fagagna - Al contrario, si potrebbe dire che il materiale genetico è sotto attacco praticamente di continuo. Senza considerare eventi straordinari come l'esposizione a radiazioni o a diversi agenti chimici e fisici, le minacce vengono dalle stesse attività vitali della cellula".

Anche il solo fatto di "respirare significa produrre specie reattive dell'ossigeno, i cosiddetti radicali liberi, che possono rompere la doppia elica di Dna". Ma così come la struttura che custodisce il 'codice della vita' viene costantemente danneggiata, viene anche costantemente riparata.

"Le cellule - ricorda lo scienziato - reagiscono alla presenza di lesioni accendendo una serie di allarmi molecolari, proteine che scoprono il Dna danneggiato e innescano una cascata di reazioni che porta alla risoluzione del problema. Osservando attentamente le cellule dopo eventi di danneggiamento, però, ci siamo accorti che in alcuni punti del genoma rimanevano accesi i caratteristici allarmi, senza che le lesioni venissero riparate".

Utilizzando tecnologie genomiche all'avanguardia, l'équipe dell'Ifom è riuscita a mappare all'interno del patrimonio genetico le aree da cui partivano questi allarmi 'inceppati'. "Abbiamo localizzato le zone incriminate, scoprendo che nelle punte dei cromosomi i danni al Dna rimangono irrisolti", spiegano Fumagalli e Rossiello, autrici degli esperimenti presso il campus milanese. Ma se riparare il Dna rotto è vitale per la cellula, perché esistono sequenze impossibili da aggiustare? Perché l'evoluzione non le ha eliminate?

"Riparare consiste nel mettere assieme o fondere estremità separate di Dna - risponde d'Adda di Fagagna - Se queste estremità sono parti interne di un cromosoma, allora l'evento di riparo è un bene fondamentale per la sopravvivenza della cellula. Se invece a essere scambiate per estremità da riunire fossero le parti terminali dei cromosomi, si avrebbe una fusione anomala tra cromosomi, che metterebbe a rischio la stabilità e l'organizzazione dell'intero genoma". Proprio perché hanno il compito di proteggere i cromosomi, i telomeri sono stati selezionati dall'evoluzione in modo da non poter essere riparati.

Si può dire che "l'irreparabilità in caso di danno è il prezzo che pagano per non correre il rischio di fondersi". Lo studio dell'Ifom è finanziato tra gli altri, oltre che da Embo (Organizzazione europea di biologia molecolare) e Telethon, da Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro), Firc (Fondazione italiana per la ricerca sul cancro) e Aicr (Associazione per la ricerca internazionale sul cancro). Infatti, invecchiamento cellulare e tumori sono collegati a doppio filo e a dimostrarlo è stato proprio il team di d'Adda di Fagagna nel 2006: evocare precocemente la senescenza, quando un oncogene si attiva e minaccia di innescare la cascata di eventi che porta al tumore, è un'arma che la cellula ha a disposizione per bloccare l'invasione incontrollata della neoplasia.

Mentre quando questo sistema fallisce, l'avanzata del cancro diventa inevitabile. "Considerando queste connessioni tra senescenza e cancro - conclude lo scienziato - stiamo proseguendo le ricerche per comprendere se, e in che modo, i danni irreparabili che si accumulano nei telomeri siano in relazione con l'azione degli oncogeni durante la trasformazione tumorale e durante i tentativi della cellula di contrastarla".
Fonte: wallstreetitalia
Il cancro è connaturato con la vita, si può dire che nasca con essa: esistono reperti fossili che rivelano l’esistenza di sarcomi anche al tempo dei dinosauri, prima della comparsa dell’uomo. E’innato in noi, fa parte del nostro DNA e del nostro corredo cromosomico, è una eventualità, una possibilità della vita. Se dovessimo vivere in media 150 anni, ognuno di noi, nessuno escluso, contrarrebbe nella sua vita il cancro. Con l’allungamento della vita aumentano proporzionalmente le possibilità di contrarre un tumore. Non solo: molti di noi hanno già innescato il meccanismo del cancro, che, per diverse ragioni (immunitarie, psicoemotive, di condizione generale ecc.) resta latente per molti anni senza arrivare alla proliferazione incontrollata. Non sono poche le autopsie di esseri umani deceduti per altre cause che mettono in risalto la presenza di tumori anche di un certa rilevanza. Uno su due, in conclusione, nella propria vita, contrae il cancro. Non tutti si conclamano, dipende dalle condizioni soggettive di ognuno di noi. Il cancro è una possibilità di errore contenuta nell’RNA, è qualcosa di insopprimibile perchè parte integrante del genoma stesso. Per questo motivo non sarà mai possibile una terapia definitiva dei tumori: non si guarisce da una eventualità della vita stessa. Il cancro non è al di fuori di noi, non è un virus o un batterio: fa parte dell’imperfezione della vita umana, quella stessa imperfezione che ci costringe inesorabilmente ad invecchiare, con buona pace degli elisir di lunga vita, quella stessa imperfezione che ci porta tutti, prima o poi, alla morte. Il cancro, in definitiva è un fenomeno che ha a che fare con la fisica statistica: si possono eliminare i fattori predisponenti, ma non si può combattere il calcolo delle probabilità.

venerdì 16 marzo 2012

SABATO STELLE


Quando si parla di cantautori, o di canzone d’autore in genere, ci si riferisce a quella particolare canzone per la quale lo stesso esecutore scriveva sia il testo che la musica. Si tratta, ovviamente, di un grosso valore aggiunto: un cantante che fosse in grado di scriversi le canzoni autonomamente, componendo non solo le note sul pentagramma, ma scrivendo anche testi che, bene o male, dovevano suonare come poetici, non era cosa frequente. Il periodo dei cantautori italiani abbraccia circa un ventennio: gli anni settanta e ottanta, con qualche precursore, come Domenico Modugno, considerato a ragione il padre di tutti i cantautori, ed una penosa coda negli anni novanta e nel nuovo secolo, costituita per lo più da stanchi imitatori di maniera o dagli stessi autori dei due decenni precedenti che, invece di ritirarsi in buon ordine come ha fatto Francesco Guccini, continuano a cantare sempre la stessa canzone, avendo da tempo esaurito la vena artistica. In vent’anni si sono succeduti parecchi nomi, sarebbe difficile elencarli tutti, i più noti li conosciamo tutti: da Francesco Guccini stesso, a Francesco De Gregori, da Antonello Venditti a Fabrizio De Andrè, Eugenio Finardi, Ivan Graziani, Alberto Fortis ecc. Tutti hanno conosciuto un momento d’oro, durato in media tre album, un periodo che poteva racchiudere un quinquennio circa, nel quale hanno saputo esprimere il meglio del loro talento, la loro massima vena felice. Per tutti loro esiste un disco che ha costituito un vertice mai più toccato, un apogeo. Per Guccini l’album “Radici”, per Fortis l’album “Tra demonio e santità”, per Graziani “Agnese dolce Agnese, per DeGregori “Bufalo Bill”e via discorrendo. Ma c’è fra loro un autore da me particolarmente amato, almeno quanto lo detesto oggi, un autore che ha saputo esprime in musica sentimenti profondi e qualche volta persino nobili, che ha saputo trasfondere la propria vena letteraria adattandola perfettamente alla canzone cosiddetta “leggera”. Si tratta di Roberto Vecchioni. Ha cominciato giovanissimo, non erano ancora il 1970, cantilenando in modo stucchevole (i primi dischi non sono capolavori), migliorando però di album in album. Si arriva così al 1973, anno in cui esce il suo primo vero disco di qualità: “Il re non si diverte”. Ne seguiranno altri di grande successo, fino al suo capolavoro assoluto “Calabuig, stranamore e altri incidenti”. Ma tornando al primo disco che lo mise per la prima volta sotto i riflettori, “il re non si diverte”, mi piace ricordarlo perché contiene una canzone che resta una delle migliori in assoluto non solo del suo repertorio ma di quello dei cantautori tout court, una canzone addirittura profetica: “Sabato stelle”. A prescindere dal bellissimo titolo, la canzone, una melodia tristissima, contiene un testo che per la primissima volta affronta il problema della malattia mentale, del disagio psichico e dei manicomi. E lo fa da maestro, sposando poesia a causa civile. Ricordiamo che siamo nel 1973 e che la legge “Basaglia”, la famosa 180, quella concernente la chiusura dei manicomi è solo del 1978, cinque anni dopo. Si direbbe quasi che lo stesso Basaglia avesse ascoltato questa bellissima canzone. Altro che Simone Cristicchi che ripropone un melenso remake della canzone di Vecchioni. Uno dei pregi più evidenti di questo testo è l’assoluta mancanza di retorica: il sentimentalismo, sempre in agguato, è prosciugato dallo stile. Ho amato molto Vecchioni, come dicevo, e mi dispiace vederlo adesso, ormai anziano, cantare canzonette senza capo né coda, con musichette facili facili, e testi pieni di melassa. Dispiace, avrebbe, nonostante il successo, fatto meglio a ritirarsi come Guccini.  Riporto di seguito il testo e propongo il link al video di “youtube” reperibile qui.  Ecco il testo:
 
Il tempo di essere un equilibrista
per entrare e aprire una finestra
e mentre ho quattro piani sotto i piedi
tu dal tuo letto salti su e mi chiedi:
'Che cosa fai sul filo?'
'Io? Mi alleno,e invece a te ne danno di veleno'
'dai vieni dentro che vorrei toccarti
le senti, le ricordi le mie mani?
Domenica son libera di uscire
domenica, domenica è domani...'
'Domani faccio solo figli giusti
domani vado nelle due Sicilie'
'Ma dove vai ma dove vai senza di me?
Oh, certo, hai cose che non so e che non ti chiedo,
cosi sei tu: perdonerai, ti illuderai, ci morirai,
non ricorderai perchè, e brucerai tutte le stelle
non del sabato, soltanto dentro te
sarò felice sai,
pero tu mi hai amato
tu mi hai amato e non mi aspetterai
mancava cosi poco sai ,ero quasi guarita
eppure tu mi hai amato
tu mi hai amato e non mi aspetterai'
'Che vuoi? Qui dentro sei cosi tranquilla,
felice no ma in fondo chi è felice?
e poi ti trovo come sempre bella
io devo stare al passo con i tempi
succede a tutti, noi non siamo i primi
cosi; va il mondo e non si può cambiare
vedessi come è dura star la fuori'
tu no ma io ci devo ritornare.
'Ma dove vai?
Ma dove vai senza di me?'
'Che cosa credi sai la gioia
andare via lasciarti qui?'
'Ma cosa dici, come vivi,
cosa inventi, non ti riconosco più
'Sta zitta smettila di urlare che non serve
cosa vuoi capirne tu
io vivo a modo mio, io,io ti ho amato
io ti ho amato; non t'aspetterò
mancava poco, è; vero che eri guarita
eppure io io ti ho amato,io ti ho amato
e non t'aspetterò  
(R. Vecchioni)



giovedì 15 marzo 2012

NOVITA'! ESISTE LA CASTA "TECNICA"


Silvia Deaglio, 37 anni, risulta professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica
Il ministro del Lavoro che ha un figlia con doppio lavoro e per giunta nella stessa università torinese di mamma e papà. Silvia Deaglio, 37 anni, risulta così ricercatrice in oncologia e professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica, genomica e proteomica umana.
La figlia del ministro ha preso a insegnare medicina, a soli 30 anni, proprio nella stessa università in cui insegnano economia il padre Mario e la madre neoministro.
Ma anche l’altro posto fisso che affligge Silvia è sotto tiro. Dietro l’incarico presso la “Human Genetics Foundation” ci sarebbe ancora lo zampino di mamma. Solo perché la fondazione è stata creata dalla Compagnia di San Paolo di cui la Fornero era vicepresidente, dall’università di Torino in cui insegnano i genitori e dal Politecnico di Torino il cui rettore era nel consiglio direttivo della Fondazione, fino a che non è diventato ministro dell’Istruzione con il nome di Francesco Profumo. Sarà che Torino è piccola. E che – come scrive Dagospia – la figlia del ministro è “l’incarnazione del ceto accademico-bancario della sinistra liberale sabauda” (e lei, per non smentire l’alto lignaggio, ha sposato un alto dirigente di banca, Giovanni Ronca, già responsabile dell’area Nord–ovest di Unicredit). Ma queste son chiacchiere da bar, gossip, tutto fumo.
Per diradare nebbie e dubbi bisogna scorrere tutto il curriculum senza fermarsi all’intestazione. Si scopre allora che Silvia il suo successo lo merita tutto quanto perché è una calamita di fondi pubblici e privati, un prodigio della natura nel finanziare la ricerca. Soprattutto la propria. In un Paese che investe in questo campo meno dell’1% del Pil Silvia Deaglio è riuscita a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca quasi un milione di euro in due anni (500mila nel 2008, 373.400 e 69mila nel 2009). Le briciole arrivano dalla Regione Piemonte con finanziamenti a progetti per 12mila e 6mila euro. Altrettanto frenetica l’attività di ricerca fondi per il secondo posto fisso, dove l’intervento delle “alte sfere” è palese. La Compagnia di San Paolo, quella “vicepresieduta” dalla mamma, nello stesso biennio ha finanziato a Silvia un progetto di ricerca da 120mila euro divisi in due trance da 60mila. Nel 2010 la fondazione “Human Gentics Foundation”, creatura della Compagnia stessa, ha garantito il posto da responsabile di unità di ricerca affidandole un progetto da 190mila euro. Silvia, alla fine dei conti, è una donna da un milione e mezzo di euro. A fronte di tutto questo ha pubblicato su Blood, la bibbia mondiale della ricerca sulle malattie del sangue.
Fonte: Cobas Scuola
Non abbiamo dubbi che Silvia Deaglio sia un’ottima professionista. La domanda, quella di sempre, è ancora una volta: se fosse nata nella famiglia di Gennaro Esposito piuttosto che in quella di Elsa Fornero, avrebbe effettuato lo stesso tipo di scalata sociale?




lunedì 12 marzo 2012

ASTRAZENECA


Mi affaccio alla finestra, sono appena rientrato a casa, è quasi sera, il tramonto appare più duraturo del solito, le giornate si allungano. Ma questa sera  l’aria ancora frizzante porta profumi che non sentivo da tempo. Siamo all’imbrunire, il momento più bello della giornata, il trapasso della luce del giorno nel grigio della tenebra. L’inverno è finito, ma non lascia il passo alla nuova stagione. E’ bello vedere la prima penombra che si insinua tra i palazzi, e il volto della gente, i loro occhi che riflettono l’ultimo barlume del crepuscolo. Il cielo sereno si colora di turchino, e una falce di luna comincia a delinearsi sopra di noi. Che dolce malinconia, appena un velo di tristezza imporpora la mia fronte, ma passa subito, come gli stormi d’uccelli che si odono da lontano. C’è un momento, che può durare da  diversi istanti a pochi minuti, in cui, a quest’ora della sera, tutto si ferma per incanto, o meglio, rallenta, come per far posto al passo del viandante, al cammino della natura. E’ il momento dei ricordi vaghi, delle struggenti fantasie, delle placide memorie. Come tutto s’intona al mio stato d’animo! Rimango alla finestra, le mani poggiate sul davanzale, rimango così, in maniche corte, il freddo non è pungente. Una madre fa uscire il proprio bimbo dall’auto appena parcheggiata, lo bacia e lo prende in braccio, un’anziana incespica nel guinzaglio allungabile che a stento trattiene un cane desideroso solo di correre e di ansimare, una coppia cammina con calma verso il portone, lui sussurra qualcosa che provoca una risata argentina nella ragazza impertinente che sta al suo fianco. Si accendono i lampioni, la luce bianca dell’illuminazione urbana trafigge come una spada la sera che cade. E’ una luce innaturale, che deprime tutto quello che sfiora, lo comprime, anzi, uniformandolo al resto. Ma questo non ha più importanza, alzo lo sguardo nel cielo che si trasfigura, lasciando trapelare le prime stelle della sera. Sono uscito nel terrazzo, con una coperta che mi avvolge, mi siedo sulla sdraio davanti alla balaustra, come si fa in montagna, o in certe navi da crociera quando il tempo è indulgente, il mare calmo, e soffia una brezza che scompiglia i pensieri ma non le chiome. E’ il momento dei ricordi, quelli messi da parte, quelli inconfessati, quelli che emergono come la schiuma di un vino giovane e frizzante stappato con fretta e malagrazia. E’ il tempo della memoria. Rivedo davanti a me il cimitero di Amalfi, un giardino pensile sul mare ornato dalle tombe, i ruderi di Cuma, solenni e ripensati, la terra nera e fertile, giallastra di zolfo e cinabro degli scavi di Pozzuoli, rivedo i luoghi che ho visitato molti anni fa, sul percorso delle terre natali di mia madre. Ho ancora negli occhi una sera di Paestum, di là dalle rovine, poche vestigia in mezzo ad un mare verde azzurro, una nuotata in una piscina che pareva improvvisata, nel dehor di un albergo insospettabile quanto misterioso, sorto quasi dal nulla nel giro di una notte. Ora che è buio, alzando lo sguardo su nel cielo, vedo la stella che da tempo, tanto tempo, vado cercando nelle nottate terse, senza una nuvola. E la vedo, finalmente, poco dopo Alpha Centauri, è lei, Astrazeneca, la stella che brilla e accende mondi  meravigliosi, riscalda terre e acque, foreste e savane, ruscelli e colline come da noi, dentro di noi. Cammino a cavallo del tempo, sul crinale del presente che non diventerà futuro, rivedo i mondi che ho sognato a lungo, prima ancora di essere un bambino, quando mia madre mi cullava adagio dondolando nel suo ventre. Astrazeneca, che ne sarà di noi? Se solo potessi gettare uno sguardo anche solo per un momento nel tuo mistero! Potresti dare un senso alla mia vita, alla nausea che provo tutti i giorni guardandomi allo specchio, facendo e rifacendo gesti insensati, lontani dalla mia natura. A te vorrei tornare, libero, mondo da tutti i mali che ho radunato nella mia anima, di tutto quel livore che gli anni e le sconfitte hanno scavato nel mio spirito, una volta ardito, una volta bello. Chiudo gli occhi, mentre il vento si alza ed il freddo comincia a gelare le mie gote, chiudo gli occhi e sono di nuovo ad Ankara, dove qualcuno mi aspettava, mi cercava, ed io non sono stato capace di trovare. Credevo vanamente in  una risposta, una rivelazione  prima ad Istanbul, poi nella Cappadocia, ma sono tornato a casa a mani vuote, ed il senso del mistero resta, sempre lo stesso. Le corse da ragazzo, nel paesino di villeggiatura, dietro un pallone, un treno o una ragazza, il fiato corto, le mie fantasie, i tuffi nelle acque gelide del fiume, la voglia di scappare, via, via, per non tornare più. Ho ancora nel cuore quella voglia, sembrava sopita, nascosta in qualche remoto angolo del mio spirito, da qualche tempo l’ho ritrovata, mi assale all’improvviso, mentre sono intento a sbrigare il triste quotidiano, e allora per  un attimo sento come un vuoto intorno a me, una assenza spettrale che mi chiama, a gran voce, mi chiama per nome, e qualcosa che non conosco ancora esce da me e si incammina verso quella voce. E’ ancora lei, Astrazeneca, mi chiama per ricordarmi perché sono nato, perché mi trovo al mondo, mi rammenta che non ho più nulla da compiere qui, che il mio compito è finito ancora prima di cominciare, mi ricorda le amarezze, le sconfitte dure, dopo una guerra perduta con onore, ma sempre perduta. Mi ricorda che le appartengo, che nulla più mi trattiene, che la mia vita non conta niente, qui , in questo mondo, solo, abbandonato; che nulla vale. Astrazeneca, aspettami, arriverò presto a cavallo del tuo destriero, bianco come la neve, nella luce e con la luce che solo tu puoi emanare, nella luce che si propaga negli spazi infiniti, come infinita è la mia anima non appena sarò da te.



A QUANDO LA BENZINA A 2 EURO AL LITRO?


I carburanti continuano a salire di prezzo, abbiamo punte di 1,95 al litro per la verde nel centro Italia. E’ dal 1977 che non si vedevano prezzi così alti ( facendo riferimento ai prezzi odierni in € ), dal 2000 a oggi abbiamo avuto un buon 70% di incremento della benzina e quasi un raddoppio del diesel. Non solo si pagherà di più il carburante per percorrere i nostri tragitti abituali ( la Codacons stima in 397 euro annui in più per ogni automobilista ), ma di conseguenza si ripercuoterà il caro-benzina su tutti i beni di consumo. Il nuovo record del gasolio per l’autotrasporto ha un effetto a valanga sulla spesa in un Paese dove l’88 per cento delle merci viaggia su strada, infatti le ricadute sui listini alimentari gia’ superano i 200 euro in termini annui, considerato che il costo del trasporto incide sul prezzo finale dei prodotti agroalimentari per il 35-40 per cento. Se pensiamo agli agricoltori, chi non ha mai visto che lasciano frutteti o ortaggi nei campi a marcire? Vorrei vedere, hanno ragione si, quando dicono che non ci rientrano coi prezzi e non guadagnano niente, infatti lasciano il raccolto a se stesso. Gli agricoltori si sono visti il prezzo del gasolio agricolo impennare del 130%  in meno di due anni (da 0,49 euro al litro di gennaio 2010 agli attuali 1,13 euro al litro), con un onere aggiuntivo di circa 5 mila euro ad azienda, visto che e’ essenziale per il riscaldamento delle stalle, per le macchine agricole, per l’approvvigionamento dell’acqua, per l’irrigazione dei terreni, ecc.
”Benzina, trasporti e logistica incidono complessivamente per circa un terzo sui costi della frutta e verdura e, solo nelle campagne, il caro gasolio ha provocato un aggravio di costi stimabile in 400 milioni di euro su base annua. A subire gli effetti del record nei prezzi – conclude l’organizzazione agricola – e’ pero’ l’intero sistema agroalimentare dove si stima che un pasto percorra in media quasi 2mila chilometri prima di giungere sulle tavole
Aspettiamo l’ IVA che dovrà passare dal 21% al 23% ad ottobre, e pensiamo un pò agli ulteriori ennesimi effetti di ricaduta sui prezzi e sui consumi.
Questa è la tabella dei prezzi dei carburanti dal 2000 al 2012:
Molte delle accise italiane furono introdotte come temporanee per far fronte a vari eventi straordinari, ma nonostante il venir meno della causa a tutt’oggi non risultano ancora rimosse:
  • 0,1 centesimi di euro (1,90 lire) per la guerra di Abissinia del 1935;
  • 0,7 centesimi di euro (14 lire) per la crisi di Suez del 1956;
  • 0,5 centesimi di euro (10 lire) per il disastro del Vajont del 1963;
  • 0,5 centesimi di euro (10 lire) per l’alluvione di Firenze del 1966;
  • 0,5 centesimi di euro (10 lire) per il terremoto del Belice del 1968;
  • 5,1 centesimi di euro (99 lire) per il terremoto del Friuli del 1976;
  • 3,9 centesimi di euro (75 lire) per il terremoto dell’Irpinia del 1980;
  • 10,6 centesimi di euro (205 lire) per la missione in Libano del 1983;
  • 1,1 centesimi di euro (22 lire) per la missione in Bosnia del 1996;
  • 2,0 centesimi di euro (39 lire) per rinnovo contratto autoferrotranvieri 2004;
  • 0,5 centesimi di euro per l’acquisto di autobus ecologici nel 2005;
  • 0,71 a 0,55 centesimi di euro per il finanziamento alla cultura nel 2011;
  • 4,0 centesimi di euro per far fronte all’emergenza immigrati dovuta alla crisi libica del 2011;
  • 0,89 centesimi di euro per far fronte all’Alluvione che ha colpito la Liguria e la Toscana nel novembre 2011;
  • 8,2 centesimi di euro per il decreto “Salva Italia” nel dicembre 2011.
A ciò si somma l’imposta di fabbricazione sui carburanti, poi su queste accise viene applicata anche l’IVA al 21%.

Infine, un confronto con i prezzi applicati dagli altri paesi europei:

 Beh, siamo nelle prime posizioni, questo ci dovrebbe lusingare. Peccato che non siamo nè l'Olanda, nè la Danimarca. Questa è la piccola differenza.

Fonte: tradingnostop

venerdì 9 marzo 2012

PERCHE' FRANCIA E GERMANIA CONTINUANO A VENDERE ARMI ALLA GRECIA?


Bruxelles - C'è sicuramente soddisfazione da parte dell'Eurogruppo sull'esito dello swap sul debito della Grecia, che è riuscito ad evitare un default disordinato. Nel comunicato si legge infatti che l'Eurogruppo "considera che ci sono le condizioni necessarie" per compiere gli ulteriori passi che porteranno all'approvazione finale del secondo piano di aiuti per la Grecia.

Secondo quanto si legge nella nota dell'Eurogruppo, ci sono ora le condizioni per "lanciare le procedure nazionali pertinenti per l'approvazione finale del contributo dell'eurozona al finanziamento del secondo programma di aggiustamento economico per la Grecia".

Dunque, scongiurata per ora la minaccia di un default disordinato. In questo contesto, cè qualcosa tuttavia che non quadra affatto, come ha messo in evidenza un articolo del Telegraph. Si avverte un senso di profonda ipocrisia da parte dell'Europa, in particolar modo da parte di paesi virtuosi come Francia e Germania, proprio quelli che più di tutti hanno malcelato la loro irritazione per i problemi ellenici.

Numeri alla mano, la Germania - sempre in prima linea nel chiedere misure di austerity "draconiane" ad Atene, misure che si sono abbattute soprattutto sul welfare - ha venduto alla Grecia armi e anche un sottomarino per un valore complessivo di 336 milioni di sterline, soltanto nel 2010 (anno in cui la Grecia sprofondò nella crisi e l'Unione europea iniziò a orchestrare aiuti per 200 miliardi di sterline). Sempre nel 2010, la Grecia aveva concluso un accordo con la Francia per acquistare aerei militari per 662 milioni di sterline.

Nell'ottobre del 2011, mentre l'Unione europea era in trattative per raggiungere un accordo su un secondo piano di salvataggio per la Grecia, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy furono ben chiari nel ricordare al governo greco che avrebbe dovuto, nonostante le condizioni di bilancio, onorare i pagamenti di tutti i contratti militari esistenti: come dire, sì a tagliare la spesa a favore dei cittadini, ma assolutamente continuare ad acquistare armi tedesche e francesi.

Risultato: mentre le spese sociali venivano tagliare del 9%, quelle militari salivano contestualmente fino al 18%. Forte la critica di Hilmar Linnenkamp, dell'Istituto tedesco per gli Affari internazionali e di sicurezza. Il funzionario ha descritto le vendite "totalmente irresponsabili" in un momento in cui il paese ellenico stava sprofondando in un circolo vizioso di debito e recessione. "Gli ultimi rapporti rivelano che nel 2010 la Grecia ha importato dalla Germania esattamente 223 obici e un sottomarino", ha detto Linnenkamp al quotidiano Die Zeit. "Il valore totale ha corrisposto a 403 milioni di euro: una somma che ha contribuito enormemente alla esplosione del debito pubblico della Grecia.

La Grecia si conferma uno dei maggiori importatori di armi nella regione del Mediterraneo, a causa della minaccia percepita dalla Turchia. L'esercito del paese, che si compone di 156.000 soldati, punta a mantenere la parità militare con la Turchia, sua "vicina ostile che ha una popolazione sette volte quella del paese".

In questo contesto, diretta è l'accusa di Martin Callanan, leader dei Conservative MEPs (Member of European Parliament, ovvero membro del Parlamento europeo): a suo avviso, alla Germania e alla Francia non importa nulla del futuro della Grecia. "Stanno di fatto erogando sussidi alle loro industrie della difesa attraverso i fondi di bail-out" a favore di Atene, ha detto al "Telegraph".

E lo stesso numero uno dell'Eurogruppo, Jean Claude Juncker, pur in modo decisamente più diplomatico, si è espresso lo scorso 29 febbraio con queste parole: "E' scandaloso, davvero scandaloso, che non si riducano ulteriormente le spese militari" in Grecia e che "paesi virtuosi non riducano le loro esportazioni militari" verso questo paese. Per paesi virtuosi, si tende appunto
Germania e Francia da cui Atene è obbligata ad acquistare rispettivamente sottomarini ed elicotteri militari per svariati miliardi di euro.

Un lusso, secondo il funzionario, che il paese ellenico non può e non deve permettersi: il rimprovero a Francia e Germania è chiaro: come possono questi paesi incoraggiare da un lato misure di austerity in Grecia e dall'altro portare Atene ad acquistare le loro armi?
Fonte: wallstreetitalia.com

domenica 4 marzo 2012

CON IL CANONE PAGHIAMO ANCHE PIERLUIGI DIACO


Mi occupo di un personaggio minore, una perfetta nullità si potrebbe dire, solo per sottolineare, una volta di più, fino a che punto abbiamo buttato i soldi del canone RAI. Pierluigi Diaco incarna perfettamente l’archetipo dell’uomo medio in servizio alla RAI. Parla in continuazione, con una petulanza ed una foga degne di miglior causa, sgomita in ogni trasmissione per apparire, per fare udire la propria sgradevole voce, per illustrare, con lunghi giri di parole, il vuoto pneumatico delle sue idee. Diaco è lo stereotipo del conduttore RAI: non ha nulla da dire, ma questo nulla lo strilla con veemenza. Scrive (scrive?) per “il Foglio”, la sua non poteva che essere una estrazione berlusconiana, non ha nulla di speciale, la sua mediocrità è palese, ha un narcisismo tutto particolare: pur di apparire, di dire qualcosa, di essere inquadrato, sarebbe disposto a chissà quale tipo di compromesso. Gioca con la propria omosessualità: prima la ammette, poi, sostiene di essere bisessuale, poi smentisce anche quest’ultima versione, ribadendo la propria eterosessualità. Invero, la sua molesta petulanza, ricorda molto da vicino quella di Cristiano Malgioglio, che però, a differenza di Diaco, qualche volta dice cose anche intelligenti. Cerca sempre di apparire controcorrente, di esprimere la propria personale visione delle cose; te lo ritrovi in tutte le trasmissioni in veste di opinionista, che vuol dire tutto e niente. Ma, invece di trovare qualche idea originale, scivola regolarmente nella più trita delle banalità, nei più vieti luoghi comuni. Ma la frase fatta, il luogo comune strillato da Diaco sembra, ad una prima lettura, degna di attenzione. E invece, basta seguirlo due o tre volte, per capire che non dice niente di originale, che segue semplicemente la corrente, cercando di non pestare i piedi a nessuno, nel timore di perdere i privilegi che è riuscito ad accumulare. Se questi sono il futuro della RAI, sono i prossimi conduttori, intrattenitori e opinionisti, tanto varrebbe privatizzare finalmente una azienda che è solo un buco nero, un carrozzone che mantiene profumatamente una pletora di mezze calze nullafacenti, un apparato amministrativo costoso e iperburocratizzato. E’ evidente che Diaco ha il suo mentore, il suo pigmalione, ci domandiamo solo chi sia il boiardo di stato che sta dietro una simile nullità. In una televisione commerciale, dove la selezione è più naturale, Pierluigi Diaco sarebbe scomparso in quattro e quattr’otto, e nessuno, tra pochi mesi, si ricorderebbe più di lui. Come è possibile che la Rai riesca a rendere così odioso il balzello dei 112 euro che le versiamo ogni anno! Il confronto con “la 7” è perduto in partenza: con un terzo delle risorse che la RAI ha a sua disposizione, “la 7” ha creato un palinsesto di ottima fattura, nel pieno rispetto di ogni gusto: dall’intrattenimento puro, ad una filmografia non da fondo di magazzino come quella della RAI, con una programmazione culturale vera, costituita da programmi condotti da giornalisti di spessore e statura, altro che un Pierluigi Diaco, che dovrebbe essere un giornalista, ma per quello che esprime non dovrebbe scrivere neppure su di un giornaletto parrocchiale. Se davvero la RAI punta su questi individui non ha più nulla da dire, soprattutto non è neppure più distinguibile da Mediaset, tanto vale, come dicevamo, privatizzarla una volta per tutte. Quando accendo la TV e mi capita di assistere ad un qualsiasi dibattito cui partecipa Pierluidi Diaco, faccio la stessa cosa che farei quando vedo Vittorio Sgarbi, cambio subito canale. Ma Sgarbi è un guitto col dono della parola, Diaco non ha neppure questo dono, perche dalla sua bocca escono solo ovvietà, pronunciate però col tono di chi ha effettuato una grande scoperta, quella dell’acqua calda. Maledetta RAI, questo pozzo profondo che tutto ingurgita e trangugia, che amalgama tutto e tutti, restituendoci una marmellata indistinguibile fatta di Lorelle Cuccarini, di Bruni Vespa, di Milly Carlucci e di Pierluigi Diaco, tutti  pigiati in una specie di cartone pressato che può al massimo fare da quinta, da sfondo, da decorazione, ma non è in grado di produrre cultura, sebbene popolare, intrattenimento intelligente, format originali. Speriamo che anche nell’ambito della TV l’esperienza del governo Monti possa essere di una qualche utilità. A ciascuno dei manichini che fanno le loro comparsate sui canali RAI corrisponde un politico che li ha foraggiati, confidiamo che la piccola rivoluzione che l’esecutivo Monti  sta conducendo porti una ventata di liberazione anche in RAI, una liberazione dalla pesante cappa dei partiti e dei loro raccomandati, gente inutile, mediocre, pagata per discutere sul nulla. Quante volte abbiamo assistito a programmi incentrati sul caso Parolisi, Schettino, Sara Scazzi? Si ripetono le stesse stupidaggini cercando ogni volta di farle apparire come nuove o rinnovate, e invece ci propinano la solita minestra riscaldata, la solita sbobba con la solennità e l’autorevolezza di chi discetta sui massimi sistemi. Che triste spettacolo! Qualcuno può avvisare Pierluigi Diaco che non basta la smania di apparire, ma che bisogna anche dare sostanza alle parole che si dicono, e che, soprattutto, in talune circostanze, è preferibile un intelligente silenzio, ad uno sciocco argomentare. 



venerdì 2 marzo 2012

LA SINDROME DI NIMBY


Già, “nimby”, sta diventando una parola alla moda, per molti di noi è già familiare, se ne legge sempre più spesso. Intanto che cosa significa l’ennesimo anglicismo col quale ci dobbiamo confrontare? E’ un acronimo, n.i.m.b.y. (Not In My Back Yard), significa “non nel mio cortile”. Il significato è lampante: vanno bene le riforme, vanno bene i sacrifici, le imposizioni fiscali, l’inasprimento della lotta all’evasione, le misure per lo sviluppo come le privatizzazioni e le liberalizzazioni, ma “non nel mio cortile”. I sacrifici è giusto che siano ripartiti equamente a seconda della propria condizione economica, le riforme delle professioni sono sacrosante, forniscono ai giovani una possibilità in più di inserimento in un mondo come quello del lavoro che si sta sempre più chiudendo, insomma va tutto bene, avete ragione non una, ma  mille volte,  purchè le riforme non riguardino “il mio cortile”. Vogliamo fare qualche esempio, tento per capirci meglio? Siamo tutti d’accordo che le discariche da qualche parte devono stare, se non vogliamo che i cumuli di spazzatura arrivino ai primi piani dei condomini. Il problema sorge quando occorre decidere non tanto il “quando”, mail “dove”. Le popolazioni dei siti individuati come più idonei sono pronte ad innalzare barricate, a bloccare la ferrovia, a sdraiarsi sull’asfalto delle autostrade, perché c’è sempre qualche motivazione, per esempio di ordine paesaggistico, che rende inattuabile l’opera in quel sito. I sindaci intervistati parlano di “scempio del territorio”, di impatto insostenibile”, di avvelenamento dell’aria e delle falde sotterranee, con ricadute in termini di mortalità e di morbilità per tutta la popolazione del luogo, soprattutto quella infantile. Qualcuno tira fuori dal cassetto una statistica sulle neoplasie, facendo notare l’incremento di un certo tipo di leucemia o di tumore al colon. Peccato che quelle statistiche siano perfettamente sovrapponibili a quelle nazionali.  Insomma, bisogna cercare un altro posto, dove ricominciare da capo l’intera sequenza sin qui illustrata, si ricomincia il giro di giostra. In conclusione le discariche sono indispensabili, ma nessuno le vuole a casa propria. E’ un sentimento umano, umanissimo, ma rimane il fatto che queste benedette discariche da qualche parte le dobbiamo pur fare, se non vogliamo esportare i nostri rifiuti all’estero, dove sono meno “ecologisti” di noi, e si fanno pagare a caro prezzo la presa in carico della nostra immondizia. La vicenda della Val di Susa è un altro caso di sindrome di “nimby”. Non avranno sicuramente tutti i torti i salutisti della “no tav”, ma volenti o nolenti abbiamo firmato un accordo con la Francia, che tra l’altro si accolla i due terzi del percorso e non è lontana dalla conclusione dei lavori: non possiamo tirarci indietro adesso, dire “Scusate, ci siamo sbagliati, non se ne fa più nulla, i valligiani dicono che gli roviniamo il paesaggio”. Chi glielo spiega ai francesi, che, tra l’altro, cominciano ad esaurire la loro pazienza. E sì che di pazienza bisogna averne tanta con noi italiani. Sulla sindrome di nimby abbiamo costruito la nostra (meritatissima) fama di cacciaballe, di parolai, di demagoghi, gente che parla per annunci, per dichiarazioni di intenti, ma, alla fine, non mantiene la parola data. Pensiamo davvero che il discredito, il mito della non affidabilità del nostro paese, l’incredulità dei mercati che ci siamo pazientemente costruiti in questi anni sia da imputarsi unicamente ai comportamenti di Silvio Berlusconi? No davvero. Noi italiani l’abbiamo nel sangue il nimby. Dai tassisti, ai farmacisti, ai notai, ora ai bancari, con le dimissioni di una indignatissima ABI, inorridita e sinceramente stupefatta dall’affronto subito dal governo Monti (composto, tra l’altro, per una metà da banchieri). A chi i privilegi? A noi! A chi i sacrifici? A loro! Questa in estrema sintesi, è la filosofia delle cricche italiane. Oddio, tutto questo accade anche nel resto dell’Europa, ma in misura sensibilmente minore. In ognuno di noi, alberga una sindrome di nimby, sta al legislatore cercare l’equità e la longanimità, e a ciascuno di noi spetta lo sforzo di accettare la condivisione di sacrifici ed imposizioni. Non è facile, anzi, è la cosa più difficile di tutte, ma se vogliamo comportarci da uomini e cittadini e non da cialtroni puerili ed egoisti, dobbiamo cominciare a prendere esempio dalle democrazie più progredite. Purtroppo, nel nostro caso specifico, le cose sono complicate dalla presenza di una classe politica totalmente incapace di affrontare la crisi economica e pronta a dare il buon esempio solo quando di tratta di sfuggire alla giustizia, di difendere una rendita di posizione, di corrompere o essere corrotti. La totale assenza di un buon esempio da parte di una classe politica inadeguata, in una popolazione già di per sé naturalmente incline alla sindrome di nimby, complica non poco le cose. Il dopo Monti viene vissuto da tutti i partiti come un incubo. Davanti alle riforme, giuste o sbagliate che siano, del premier sono attoniti e disorientati, come se non si trattasse di politica, di amministrazione della cosa pubblica, come se la cosa non li riguardasse. Votano i provvedimenti meccanicamente, domandandosi cosa faranno dopo. Monti li ha messi di fronte alla loro inettitudine, e così facendo li ha presentati al paese per quello che sono. Sono talmente impauriti di perdere lo scranno che pensano a ridicole ammucchiate, a governi di “unità nazionale”, fatti di un grande centro che ricorda molto da vicino quello che fu un tempo la Democrazia Cristiana. Ci pensa Berlusconi, ma anche Casini e i il terzo polo. Per adesso Bersani, un uomo per tutte le stagioni, rifiuta sdegnato, ma state certi che prima o poi cederà anche lui alla tentazione della grande ammucchiata. Poveri noi! Come dicevamo nell’articolo precedente, ci sarebbe da augurarsi un altro settennato a Napolitano e un’altra legislatura affidata a Monti, o ad un’altra figura che non sia scaturita dal cilindro dei segretari dei partiti politici. Non vorremmo ritrovarci una Nicole Minetti al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Il complesso di nimby non prevede guarigione, si può solo, in determinate circostanze, curare. Non si tratta, ovviamente, di una patologia della mente, è un elemento insito, connaturato con la natura umana, un aspetto fondante dell'uomo stesso. L'egoismo è un tratto basilare della nostra personalità: emanciparsi dalle fondamenta della nostra natura è praticamente impossibile. Non esistono, dunque, terapie efficaci. L'unica, possibile, è quella di forzare la nostra anima, piegandola. Ma questo lo può fare solo qualche cosa che si trova al di fuori di noi, qualche cosa che ci viene imposto. Qui entra in gioco la legislazione che si dà una nazione. Chi possiede di più, vorrebbe arricchirsi ulteriormente, senza limiti, con avidità e cupidigia, ritenendosi invincibile e interpretando la propria ricchezza come un segno divino della propria potenza. Solo la legislazione, inventandosi lo "stato sociale", reinterpreta questa corsa senza fine all'accumulo: con una normativa perequativa, si cerca di fare in modo, anche attrraverso l'imposizione fiscale, di redistribuire il reddito, in modo che la forbice tra smisuratamente ricchi e smisuratamente poveri possa essere attenuata. Nasce la classe media, quella stessa classe che oggi sta per essere schiacciata, livellata verso la povertà. Dal complesso di nimby non si guarisce, perchè il contenuto fondamentale di tale complesso è costituito dalle cosiddette "rendite di posizione", il facile arricchimento conseguito  entrando a far parte di qualche consorteria, qualche loggia, qualche cricca o casta che dir si voglia, senza saper fare nulla di speciale. Da qui scaturisce il "fate pure tutte le riforme che volete, sono d'accordo, in linea di principio, basta che tali riforme non riguardino il mio "cortile". Non tutti i complessi di nimby sono uguali: esistono diverse gradazioni. I più "ammalati" sono disposti a cadere nel grottesco, pur di salvare i loro privilegi: è il caso dell'on. Melandri del PD, una delle pochissime esponenti di questo partito contraria al taglio degli stipendi dei deputati. Un caso di questo genere è disperato. Dal momento che non esistono terapie efficaci, la vittima della sindrome di nimby può solo essere costretta dalla legislazione a rinunciare ad una parte delle proprie ricchezze o dei propri rpivilegi. Non ci sono altre strade. Speriamo che lo tengano sempre presente gli esponenti del governo Monti.