La Germania è il tocco di un guanto
di pelle sulla spalla. Ti svegliano così sul sedile dell’Eurocity 86 tra Verona
e Monaco di Baviera. «Reisepass?», domanda il poliziotto della Repubblica
federale. Poi sfoglia il passaporto e si sofferma sulla foto. L’epoca delle
frontiere aperte è davvero finita, non solo per i profughi.
L’uomo in divisa nera chiede i documenti perfino a due ragazzi e alle loro
fidanzate biondissime, che stanno rumorosamente chiacchierando nel loro marcato
accento bavarese. Forse lo fa giusto per evitare discriminazioni in pubblico:
gli agenti italiani, saliti sul treno al confine del Brennero un’ora e mezzo
prima, hanno controllato soltanto i passeggeri con la faccia scura. La polizia
tedesca sembra molto più attenta al galateo multiculturale: o si controllano
tutti i cittadini, o non lo si fa con nessuno.
La Gleichheit, l’uguaglianza: è il primo filo al quale è appesa la
società che Angela Merkel, 63 anni, sta consegnando alle elezioni federali del
24 settembre. Il secondo è la fiducia reciproca. Il terzo la sicurezza
economica che, dove non c’è lavoro, è garantita da un sistema di protezione
sociale ancora diffuso. Tre fili ben visibili nella vita quotidiana: insieme
sostengono l’immagine di un popolo solido e apparentemente unito. Ma sono fili
sempre più sottili: una crisi improvvisa, un nuovo attentato jihadista, il
risveglio populista li potrebbe spezzare. Lo si nota chiaramente, girando
in lungo e in largo questa nazione in cui, secondo dati pubblicati nel 2016, il
15,7 per cento degli ottanta milioni di abitanti è considerato a rischio
povertà. E il 14,7 è già povero, con punte del 19 per cento tra i bambini. Da
Sud a Est, da Nord a Ovest. Dalle Alpi alla Polonia. Dal Mar Baltico al Reno. Rigorosamente
su treni regionali. E qualche Intercity. Oltre tremila chilometri. Questo è il
diario di un viaggio sottopelle nel corpo della Germania e dell’Unione Europea.
La Cancelliera di Berlino non è infatti soltanto la donna che governa da dodici
anni, leader dell’Unione cristiano democratica, candidata per la quarta volta
consecutiva. Angela Merkel rischia di essere l’ultimo robusto sbarramento
europeo contro l’avanzata delle destre nazionaliste e sovraniste, a cominciare
dalla Francia di Marine Le Pen. E può essere un rischio, sì: perché Frau Merkel
è perfino umanamente più concreta di papa Francesco nell’accogliere i
rifugiati, ma è più brutale di Margaret Thatcher nel difendere i dogmi
economici. La sua dottrina contiene il bello e il brutto tempo. Industria
galoppante a Ovest, Stato assistenziale a Est e nelle periferie delle grandi
città. Disoccupazione intorno al tre per cento in Baviera e Baden-Württemberg,
percentuali mediterranee sopra il dieci in quasi tutte le regioni orientali. La
ricchezza media dei tedeschi per ora nasconde bene lo stress. Ma fino a quando
reggeranno quei tre fili ai quali sono tutti appesi?
LA CITTA' SENZA PAURA
La stazione Centrale di Monaco è completamente aperta. Non ci sono controlli
per accedere ai binari. Non ci sono camionette mimetiche e soldati nelle
piazze, intorno alle chiese, davanti ai monumenti. L’attentato del 22 luglio
2016 al centro commerciale Olympia nel quartiere di Moosach sembra avvenuto in
un altro mondo: 9 morti e 35 feriti, colpiti dalla pistola di Ali David
Sonboly, 18 anni, genitori iraniani, passaporto tedesco, simpatizzante di
estrema destra. L’arma con cui poi si è ucciso, Ali David l’aveva comprata da
un amico afghano conosciuto in un reparto psichiatrico. Ma gli spari di quel
pomeriggio di guerra non hanno scalfito la Vertrauen, la fiducia reciproca a
cui partecipano tutti: tedeschi e immigrati.
Noi italiani al confronto viviamo in uno stato d’assedio permanente. Non è solo
questione di sicurezza. Non ci sono tornelli, sbarre, cancelli nemmeno per
entrare o uscire dalle stazioni sotterranee della metropolitana. Un euro e
quaranta il biglietto. E solo una persona ogni venti timbra l’ingresso. Gli
altri? Avranno l’abbonamento, o forse no. Ma la fiducia è un collante sociale
che vale molto di più di un euro e quaranta centesimi. Così nessuno ferma
nessuno. Lo stesso filo riappare agli angoli di qualche strada o nelle piazze.
I tedeschi non hanno mai smesso di leggere i giornali. E non dappertutto ci
sono edicole. Bastano una scatola di vetro trasparente sul marciapiede, un
coperchio sempre aperto, una feritoia per i soldi. Si infilano le monete e si
prende il quotidiano. “Bild” costa 90 centesimi. Ma “Frankfurter Allgemeine”
2,70 euro al giorno, 2,90 il sabato, 4 euro la domenica. Chiunque potrebbe
prendere il giornale o tutti i giornali senza pagare. Oppure forzare la
cassetta e rubare i soldi. Soltanto “Süddeutsche Zeitung”, a pochi passi da
Marienplatz, usa un distributore che rilascia una copia alla volta dopo aver
infilato gli spiccioli.
La fiducia fa funzionare lo stesso sistema ovunque. Anche in
campagna. Al posto dei quotidiani lì vendono prodotti della terra come zucche,
sacchi di patate, frutta. Nessun agricoltore si sognerebbe di perdere tempo a
fare il commerciante. Bastano un tavolo lungo la strada, un cartello con il
listino prezzi e una cassetta: il cliente prende gli ortaggi e lascia il
dovuto, senza che nessuno controlli. La sera passa il contadino e ritira
l’incasso. Se questo rodato meccanismo sopravvive è perché i furti sono ancora
una rara eccezione.
Il sabato sera la Baviera è un viavai di trentenni, quarantenni, cinquantenni
in calzoncini corti, calzettoni, bretelle e camicia a quadri. Non tutti
indossano i costosi Lederhosen originali in pelle di camoscio. Va di moda la
versione casalinga del pantalone vecchio di velluto, tagliato appena sopra il
ginocchio. Vestirsi secondo la tradizione piace soprattutto agli uomini. Le
donne agghindate con gonnellino e grembiule sono più rare. È anche un gesto
politico il loro. Un po’ come se Matteo Salvini si vestisse da Brighella e gli
industriali veneti da Pantalon. Alle undici di sera quasi tutti i ristoranti di
Monaco hanno già le sedie rovesciate sopra i tavoli per le pulizie.
L’Augustiner Klosterwirt, proprio davanti la cattedrale di Nostra Signora, è
invece un frastuono di voci, gente in piedi e boccali di birra. Lì dentro
tutti, proprio tutti, indossano Lederhosen e camicia a quadri. Camerieri e
clienti. Al punto che è difficile distinguere a chi chiedere l’ordine:
scambiare un imprenditore bavarese alticcio per il barman non provoca certo
risposte amichevoli.
Il desiderio di identità dei tedeschi del Sud ha il suo risvolto con gli
immigrati turchi e arabi. La domenica pomeriggio vengono dalla periferia a
passeggiare tra i negozi chiusi della centralissima Neuhauser Strasse. Davanti
i bambini. Per ultimi i papà. In mezzo, le loro mogli rigorosamente avvolte
nello chador nero. E di tanto in tanto qualche niqab, il velo integrale che
lascia scoperti soltanto gli occhi.
UNA LAMPEDUSA SUL DANUBIO
Passau, la città al confine austriaco dove confluiscono i
fiumi Inn e Danubio, è la porta tedesca della rotta balcanica. Gli accordi con
la Turchia e il filo spinato in Ungheria hanno ridotto il flusso di profughi.
Quanti ne passano adesso? «Sempre troppi», risponde il poliziotto di pattuglia
al marciapiede dove si fermano i treni in arrivo dall’Austria. Ousmane Gaye, 28
anni, è partito da Bamako in Mali, ha attraversato il Sahara e ha chiesto asilo
in Germania. La qualità del sistema di accoglienza è dimostrata dal suo
tedesco: in appena due mesi di corsi obbligatori, lo parla già discretamente.
Stanotte ha lasciato il dormitorio per venire in stazione a raccogliere
bottiglie: «Al supermercato c’è una macchina che ricicla la plastica. Per ogni
bottiglia ti danno venticinque centesimi», spiega e va a rovistare nei cestini.
Solo che ha la pessima idea di attraversare i binari, anziché scendere nel
sottopasso. E due agenti, l’uomo di prima e una ragazza, lo bloccano.
L’identificazione va per le lunghe. Proviamo ad avvicinarci. «Mi hanno fermato
perché ho attraversato i binari», ammette Ousmane. Bella stupidaggine,
attraversare i binari è pericoloso. «No, non è pericoloso», interviene il
poliziotto, «è proibito». Le sue parole sono lo spartiacque della vita
quotidiana di un tedesco. Non è necessario scomodare l’inflessibilità con cui
la Germania mette periodicamente sotto accusa i bilanci di Stato italiani o
greci. Basta fermarsi di notte davanti al semaforo pedonale di Karlsplatz a
Monaco, all’angolo con il senso unico di Prielmayerstrasse. Non c’è traffico,
non arrivano auto, sono solo pochi metri. Davanti al rosso si fermano gruppi di
giovani tiratardi. Passare a quest’ora non sarebbe pericoloso. Ma tutti
aspettano il verde. Il rigore teutonico costa a Ousmane 25 euro di multa: cento
bottiglie da raccogliere e infilare nella macchina mangiaplastica.
L'EREDITÅ DI CARLO MARX
Uscire dalla stazione di Chemnitz è un tuffo nel silenzio. Strade deserte, non
si vedono auto né persone, anche se sono le quattro del pomeriggio. Durante la
dittatura della Germania Est si chiamava Karl-Marx-Stadt e del periodo conserva
la grande statua del filosofo, i casermoni di cemento, i vialoni tipici della
megalomania comunista. Mancano però gli abitanti. Il trenta per cento delle
case è vuoto. E lo si sente nella mancanza di rumore di fondo. Chi ha potuto,
se ne è andato all’Ovest o si è avvicinato ad altre città della Sassonia, come
Lipsia e Dresda.
Chemnitz ha due anime. Una è luminosa e per molti irraggiungibile dentro le vetrine
dei due grandi centri commerciali, che si fronteggiano sulla piazza del
municipio. L’altra è l’anima cupa e disoccupata di Sonndenberg, il vecchio
quartiere in cui i fili dell’uguaglianza, della fiducia e della sicurezza
economica si sono spezzati da tempo. Superata la sede dei socialdemocratici
della Spd e una sala slot-machine, si cammina tra gli isolati dei negozi turchi
e arabi. Gli alunni di una classe attraversano il cortile della scuola: su otto
bambine, sei indossano il velo. Già in quarta elementare in Germania bisogna
decidere cosa fare da grandi: il Gymnasium, il liceo che apre le porte
all’università, comincia a dieci anni. E qui in Sassonia si è ammessi soltanto
se la media dei voti è almeno due, secondo una scala che attribuisce uno come
punteggio massimo e quattro come sufficienza: una selezione che divide la
società tra manager e operai fin da piccoli.
Più su in cima alla salita, i caseggiati più vecchi. Giovanissime mamme
tedesche escono dai portoni e spingono carrozzine e passeggini. Molte di loro
costituiscono famiglie monogenitoriali, mantenute dai sussidi statali. La
quantità di piercing, anelli al naso, tatuaggi sulla pelle degli abitanti
tradisce il forte bisogno di identità. Questo quartiere popolare nasconde una
diffusa rete neonazista. Come se ne incontrano ovunque a Est, alla periferia di
Dresda. Oppure nei paesi agricoli tra Schwerin e Wismar, in
Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il profondo Nord, bacino elettorale della
Cancelliera: dove i commercianti mettono in vetrina riviste dai titoli
“Califfato Germania” contro l’accoglienza dei profughi musulmani e “Merkel
vattene”. A forza di minacce, ratti morti lasciati davanti alla porta e
gavettoni di vernice contro le finestre, lo scorso inverno il partito di
sinistra “Die Linke” di Chemnitz ha chiuso l’ufficio in Zietenstrasse 53,
proprio nel cuore di Sonndenberg. Poco più avanti è apparsa una nuova vetrina
con una macabra insegna: un teschio e i numeri otto e uno che nella numerologia
estremista coincidono con le lettere H e A dell’alfabeto. Le iniziali di Hitler
Adolf.
L'ARRIVO DEL BRUTTO TEMPO
In una calda serata fuori stagione a Gera, nello stato centrale della Turingia,
la polizia anticipa di qualche metro il corteo di duecento sostenitori di”Afd -
Alternative für Deutschland”. Lungo la centralissima Leipziger Strasse gli
agenti fanno rientrare nei loro negozi di alimentari i proprietari e i clienti
dall’aspetto arabo o turco, perché i manifestanti non li vedano. Soltanto loro.
Anche se abitano tutti a Gera. Come il fruttivendolo libanese a metà della via,
residente e contribuente tedesco da oltre vent’anni.
Una scena agghiacciante. Afd, il partito xenofobo, sta riunendo sotto un
abbigliamento apparentemente borghese il consenso di “Pegida”, che tradotto
significa “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”, e
dell’Npd, il partito filo nazista: un fronte antieuropeo che raccoglie simpatie
e voti dalla costa sul mar Baltico fino ai confini con la Repubblica Ceca, nei
distretti berlinesi di Pankow, Marzahn e Treptow-Köpenick, ma anche nei piccoli
paesi agricoli ricchi degli stati federali del Sud.
«Fino agli anni Novanta, la Germania era ancora uno Stato che sosteneva
l’economia sociale di mercato e l’equità. Per questo avevamo basse disparità di
reddito, tanto da avvicinarci ai Paesi scandinavi», spiega il grande
giornalista e scrittore Günter Wallraff, 74 anni, che ha raccontato la
spregiudicatezza della società tedesca in libri come “Faccia da turco” o
“Notizie dal migliore dei mondi”: «Oggi invece, secondo ricerche dell’Unione
Europea, soltanto in due Paesi il divario tra redditi alti e bassi aumenta più
velocemente che in Germania e sono la Bulgaria e la Romania.
Le crescenti diseguaglianze, la retrocessione della classe media e la campagna
contro i profughi minacciano la coesione sociale. Il dieci per cento dei
tedeschi possiede i due terzi delle risorse nazionali. Mentre il cinquanta per
cento della popolazione si divide soltanto l’uno per cento. Se si tratta di
rispettare il semaforo verde, la Germania garantisce la certezza della
legalità. Ma far valere diritti più importanti, come scoprono i lavoratori che
si rivolgono ai Tribunali, è molto complicato. Nelle industrie tedesche vale la
legge del più forte. Se ci fosse più uguaglianza tra classi, partiti come Afd
non avrebbero questo consenso».
Il risveglio dell’estrema
destra sta provocando una reazione uguale e contraria. Tra
Neukölln e Kreuzberg, quartieri multietnici di Berlino, una coppia di
omosessuali dovrà cercare casa altrove. Da qualche tempo i vicini, soprattutto
turchi, li prendono a sassate ogni volta che li vedono uscire.
Katharina Windmeisser, giovane inviata del settimanale “Bild am Sonntag”, da
anni racconta il dramma dei piccoli profughi siriani. Ma i bambini del suo
quartiere berlinese a maggioranza musulmana la insultano per strada.
Semplicemente perché è bionda: quindi tedesca. «La più grande paura di molti
tedeschi oggi», racconta Sascha Rosemann, 39 anni, attore e produttore
cinematografico, «è l’aumento degli estremismi sui tutti e due i fronti:
antisemitismo, islamofobia, omofobia si mescolano».
Lontano dalle ciminiere fumanti della locomotiva industriale tedesca che per
settecento chilometri da Amburgo scende fino Mannheim e Stoccarda, c’è un paese
simbolo di queste opposte paure. Lohberg, ex villaggio minerario, oggi
quartiere di villini a mezz’ora da Duisburg, ha dato il nome alla brigata di
polizia che nello Stato islamico si occupava di interrogatori e torture. La
Gestapo di Daesh, l’hanno chiamata: venticinque jihadisti, la più alta
concentrazione per numero di abitanti, undici partiti per la Siria, quattro già
morti. All’uscita della notizia, per marcare la loro distanza dai musulmani,
molti tedeschi di Lohberg hanno piantato in giardino la bandiera oro rossa e
nera. E come risposta gli immigrati turchi, operai in pensione mai veramente
integrati e i loro figli ancor più nazionalisti, hanno fatto altrettanto con la
loro.
Una divisione ridicola, perché perfino la filiale del terrore qui è
multiculturale. Philip Bergner, 26 anni, il kamikaze che a Mosul ha ucciso
venti persone facendosi esplodere, era tedeschissimo foreing-fighter del paese.
Così come lo è suo cugino Nils, 28 anni, diventato collaboratore della polizia
dopo l’arresto. Ma ancora oggi camminare sotto i platani silenziosi di Lohberg
è un continuo passaggio di confini. Come a Risiko: la Turchia al centro, la
Germania tutt’intorno. E quando si cominciano a piantare le bandiere per terra,
non si sa mai dove si va a finire.
Fabrizio
Gatti – L’Espresso