lunedì 24 aprile 2017

IN ITALIA NON ABBIAMO NE’ MACRON NE’ MELENCHON



Uno dei dilemmi della sinistra che attraversò il Novecento fu quello tra “riforme e rivoluzione”, almeno fino al trionfo del comunismo in Russia e alla nascita di partiti comunisti in tutto il mondo, ma in Europa e in Italia in particolare. Questi partiti non rappresentavano né l’una né l’altra scelta. Lo stesso dichiararsi “riformista” era una bestemmia e la “rivoluzione” faceva a pugni con una procedura politica di lento inserimento nelle istituzioni che fece dire felicemente a Enrico Berlinguer che lui medesimo e il suo partito erano per metà “conservatore”. Avvicinandoci al 2020 scopriamo invece che, morto il comunismo e declinando con rapidità drammatica il socialismo democratico, il dilemma “riforme o rivoluzione” riprende una sua attualità, anche se i due termini hanno bisogno di essere rinfrescati e in parte completamente rinnovati.
RIFORME E RIVOLUZIONE, DUE IDEE MUTATE PROFONDAMENTE. “Riforme” oggi, nel significato corrente, non ha l’obiettivo di mutare l’assetto del potere e soprattutto del sistema economico dominato dal capitale finanziario e di rapina. Non vuol dire neppure un cambiamento della dinamica sociale, ponendosi invece il doppio, contrastante obiettivo di liberalizzare e rendere “irresponsabile” la richiesta di lavoro da parte di chi lo vuole “comprare” e di assistere chi resta indietro possibilmente senza far ricorso al binomio Welfare-tassazione che abbiamo conosciuto per così tanta parte del Dopoguerra. “Rivoluzione”, dal canto suo, non vuol dire insurrezione, superamento del parlamentarismo, allusione a una ascesa di una classe di subalterni che scaccia e punisce gli antichi vincitori della storia. “Rivoluzione” oggi è darsi l’obiettivo di un cambiamento radicale degli assetti economici, di darsi questo obiettivo a scala continentale, di sostituire una classe dirigente parassitaria (gli eredi dei vecchi “tagliatori di cedole”) annidata nei mondi che beneficiano della globalizzazione selvaggia siano essi banchieri, imprenditori di rapina, tecno-burocrati di strutture sovranazionali.
Una opposizione forte governa, un cattivo governo provoca una opposizione populista e cattiva
“Rivoluzione” significa anche scoprire una dimensione diversa della vita comunitaria che non coincida con alcuna nostalgia comunistica ma che chiami ciascuno, o chi vuole, ad una corresponsabilità verso il destino degli altri, immigrato e/o povero “nativo”. Le due alternative danno la possibilità di dar vita a due diverse formazioni politiche che possono o no chiamarsi partito. Non partecipo, però, alla discussione sul superamento dei partiti. Da quel che ho scritto mi pare di aver chiarito come, a parer mio, quel dibattito sia al di qua del problema. L’ipotesi di “riforma” a cui accennavo richiede un partito a forte leadership, trasversale, “costretto” entro ambiti sovranazionali, socialmente compassionevole.
LATITANZA DI LEADER CREDIBLI. L’ipotesi “rivoluzione”, invece, presuppone una organizzazione non burocratica, costruita dentro le esperienze sociali più avanzate, a suo modo fluida e con una classe dirigente selezionata per la capacità di risolvere i problemi e quindi di avere una prospettiva generale (quindi colta, quindi non Di Maio eccetera) e selezionata per la propria capacità di stare dentro la vita reale, quindi non un “partito egli eletti” o di “eletti” o di “burocrati”, ma un partito di leader popolari. In Italia abbiamo un lungo elenco di personaggi da prendere a modello, nessuno fa parte della classe dirigente che dall’89 in poi ha guidato la sinistra. Questa è la scelta da fare e da vivere senza l’ossessione del governo. Una opposizione forte governa, un cattivo governo provoca una opposizione populista e cattiva. Se guardo all’Italia di oggi non vedo né un partito di riforma né un partito di “rivoluzione”.
Peppino Caldarola – Lettera 43