mercoledì 30 aprile 2014

PERCHE' NON DOBBIAMO VOTARE I PARTITI ANTIEURO



ROMA (WSI) -Problema. Un cittadino italiano ha in banca cinquantamila euro di risparmi, di cui ventimila in titoli di Stato. Ma ecco che, abracadabra, dalla sera alla mattina l'Italia molla l'euro e se ne torna alla liretta. Che succede? Svolgimento affidato a Luigi Zingales, economista della School of Business di Chicago, che spedisce in questi giorni in libreria il saggio Europa o no.
Allora, prof, che succede allo sventurato?
«Dipende».

Come, dipende? I soldi sono soldi.
«Distinguerei tra una fase di transizione e una fase a regime».

Distingua.
«La fase di transizione è quella più delicata. Per tornare alla lira bisognerebbe prepararsi. Avere delle nuove banconote già stampate, per esempio. Modificare i registratori di cassa o i sistemi informatici delle banche, i bancomat. Difficile farlo dalla sera alla mattina».

Giusto.
«Ora, è chiaro ogni valore (liquidità o titoli) che si trova in banca potrebbe essere ridenominato in lire dal governo secondo un tasso di cambio stabilito. I contanti conserverebbero il loro valore in euro. Mi segue?».

Eccome.
«E quindi io già le vedo le file agli sportelli bancari di gente che vuol ritirare più cash possibile. Quello è il vero pericolo».

Per evitarlo basterebbe fare un'operazione fulminea, come fece Giuliano Amato che nel 1992 in una notte azzannò i conti correnti degli italiani con un prelievo forzoso del 6 per mille.
«È inverosimile, l'ho già detto. Poniamo che, come qualcuno propone, si faccia un referendum euro sì / euro no. Dato che c'è almeno il 50 per cento di probabilità che vinca il no, io intanto prelevo tutto e metto mazzette di contanti nel materasso o in cassetta di sicurezza. Poi si discute».

E nel frattempo, le banche?
«Il sistema bancario salta perché tutti ritirano i soldi. Come in Argentina. In tre giorni gli argentini hanno ritirato il 6 per cento dei depositi. E il governo ha dovuto porre limiti al prelievo di contanti».

Potremmo farlo anche noi.
«Sicuro. Basta trovare un governante disposto a suicidarsi. Chi prende simili provvedimenti può mettere per sempre una croce sulla sua carriera politica. La gente si arrabbia parecchio in questi casi».

Ammettiamo che si riesca a limitare l'emorragia.
«Si scatenerebbe comunque una confusione infernale. Chi cerca di riprendersi i soldi in ogni modo, chi vuole portarli all'estero, chi compra dollari e chi altre valute, un casino della miseria. Poi c'è il problema della svalutazione».

Quanto valore perderebbe la nuova lira rispetto all'euro?
«Di sicuro tra il 25 e il 30 per cento, forse anche il 50. In Argentina sono arrivati al 70 per cento. Insomma una bella botta».

Uno se ne fa una ragione. E la parte piena del bicchiere?
«L'economia riparte, il turismo aumenta perché tutto per gli stranieri costa poco, le esportazioni volano. Se sono un giovane disoccupato, mi va di lusso. Se invece sono un pensionato prendo una fregatura memorabile».

E dopo che succede?
«Ecco. A questo punto quanto varrebbe la nostra lira? Il valore della moneta è dato dall'affidabilità di un Paese, dalla sua economia ma anche dalla sua politica economica e fiscale. E che affidabilità può avere un Paese che prima entra nell'euro e poi se la squaglia?».

Proviamo a vedere la situazione più da vicino. Se oggi un chilo di ceci mi costa due euro, tornando alla lira quanto lo pago?
«Be', nel caso dei ceci, essendo un bene molto commerciabile, subirebbero un aumento pari alla svalutazione, diciamo tra il 30 o il 50 per cento. Ma per il pane, per esempio, sarebbe un'altra storia».

Ovvero?
«Nel prezzo al dettaglio del pane ci sarà, diciamo, un 15 per cento di materia prima, la farina, il lievito. Il resto è trasporto, salario del panettiere, distribuzione. La quota di materia prima subisce un aumento al pari dei ceci, le altre voci molto meno. Quindi, una pagnotta aumenterebbe meno dei ceci».

Questo ci consola. Che ci dice delle case?
«Dipende anche qui. Se hai una casa a Frascati, un mercato locale, il suo prezzo si tradurrà più o meno in un rapporto uno a uno lira /euro. Se hai una casa in centro a Roma, beato te, quella ha ormai un mercato internazionale, se la comprano i russi. È probabile che si rivaluti. E se hai pure un mutuo che da euro è passato in lire, ci guadagni».

Secondo lei, oltre alla svalutazione della moneta, è ragionevole parlare di una
svalutazione psicologica nazionale? In fondo, se lasciassimo l'euro, sarebbe per una sconfitta. Saremmo quelli che vengono espulsi dal club. Una figuraccia.
«Forse un po' sì. Però è anche vero che la Gran Bretagna, la Svezia, pur essendo
parte dell'Unione Europea, non sono nell'euro. E non credo che inglesi o svedesi si sentano dei reietti».

Ma loro non ci sono mai entrati. Noi sì.
«Io non auspico un'uscita dall'euro. Ma è vero che il progetto europeo ha forse peccato di un eccesso di idealismo. Non c'è nulla di sbagliato nel ragionare su questo. Gli eccessi antieuropei di oggi sono anche figli della retorica europeista dei decenni passati. Ora l'importante per noi è imparare dagli errori commessi nel passato».

Lei pensa che non abbiamo imparato nulla?
«Credo che un buon modo per capire sia studiare l'Argentina, dove peraltro sono tutti italiani. Quello è l'esempio di come la politica può portare un Paese alla rovina. Il mio incubo è che l'Italia finisca allo stesso modo».  (La Repubblica)

martedì 29 aprile 2014

LA VERA STORIA (TRA IL SERIO E IL FACETO) DEGLI 80 EURO A PIOGGIA



Cari lettori, lo so di essere monotono, scusatemi per questo, ma non è colpa mia, io continuerò, finché deciderò di lottare per una Italia migliore, ad evidenziare le assurdità ed i pericoli ai quali stiamo andando incontro.
Stiamo infatti andando verso la rovina, l’Italia è governata in questo momento da degli incapaci, ed in particolare abbiamo un Premier che fa ridere, o meglio, farebbe ridere se non ci fosse da piangere.
Questo pensa di essere in un videogioco, nel quale uno precipita dal decimo piano, si sfracella al suolo, ma poi si alza immediatamente pronto ancora all’azione perché lo scopo è sconfiggere i nemici.
Senza farla tanto lunga, vi ho sempre detto che guidare uno Stato è un po’ come essere a capo di una famiglia, occorre innanzitutto avere il senso della misura e non fare mai il passo più lungo della gamba, perché non c’è soltanto da far quadrare un bilancio (anche se naturalmente ciò è importante), ma anche far crescere i figli ben educati e prepararli alla vita, visto che saranno poi loro a dover diventare “educatori”.
Ora, solo per fare un esempio emblematico, che razza di padre è uno che promette di dare al figlio 1.000 euro se non ha in tasca un centesimo e non ha la più pallida idea di dove andarli a prendere?
Perché questo è accaduto quando Renzi si è presentato davanti alle telecamere dicendo che avrebbe dato mille euro l’anno ai lavoratori dipendenti.
NON AVEVA LA MINIMA IDEA DI DOVE ANDARE A PRENDERE I SOLDI!!!!
Ed allora ecco come è andata (un po’ romanzata da me)
Dopo l’annuncio delle “slide” passarono un po’ di giorni e Renzi andò da Padòan (che ovviamente si aspettava quella visita) e gli chiese: “Per favore, trovami questi soldi, altrimenti faccio una figura di merda”. La risposta di Padòan lo raggelò “Cara al me bel putin (non si riferiva al Presidente russo, ma viste le origini venete sovente usa il dialetto) qua de schei non ghe né” ossia “Mio caro bambino, qua, soldi, non ce ne sono”.
Ed allora Renzi che cominciava ad essere disperato andò da Cottarelli implorandolo di trovargli i soldi, sempre per fargli evitare una figura di merda.
E Cottarelli, preso da compassione gli disse “Vedo quel che posso fare, ma 10 miliardi non li trovo né ora né mai” e Renzi “Ma no, per quest’anno ne bastano poco più di sei”.
“Per quest’anno non ne trovo nemmeno la metà … forse l’anno prossimo …” rispose Cottarelli.
“Ed allora dimmi per quest’anno quanto mi trovi? Dimmi quanto?” implorava Renzi
“Un miliardo e mezzo” fu la risposta di Cottarelli.
I giorni passavano e Renzi era sempre più disperato ritornò da Padòan, stavolta piangendo e disse “Dobbiamo trovare 5 miliardi, Cottarelli ne trova al massimo uno e mezzo, ti prego, ti scongiuro, trovameli e ti prometto che mai più farò una bischerata del genere”
Ed allora Padòan colto da commozione vedendo “il bambino” in lacrime, disse “Lasciami pensare un po’ … mumble mumble … beh abbiamo appena regalato un bel po’ di miliardi alle Banche con la storia delle azioni Bankitalia, chiederò a loro di contribuire, e poi sentiamo gli altri Ministri se riesco a racimolare qualcosa”.
Padòan fece un rapido giro di telefonate soprattutto ai Ministri che gestiscono la parte più corposa della spesa pubblica, ma le risposte furono unanimi, in particolare la Lorenzin (quella della Salute) fu particolarmente dura e con il forte accento romano che la contraddistingue rispose “Non me ne fotte un cazzo di Renzi, se quello è così scemo da promettere 80 euro a tutti li tiri fuori lui i soldi, se anche fa una figura di merda a me non me ne fotte nulla, dal mio Ministero non salta fuori nemmeno un euro altrimenti faccio saltare il Governo”.
Per Renzi era la disperazione, mancavano pochissimi giorni alla data nella quale avrebbe dovuto annunciare le coperture agli 80 euro e dei soldi nemmeno l’ombra, allora la scadenza viene posticipata alla settimana successiva, ma naturalmente in quei giorni la situazione non cambia.
Non c’è più tempo, anzi, forse siamo già fuori tempo massimo per permettere ai datori di lavoro di erogare gli 80 euro nelle buste paga di maggio, Renzi è da alcuni giorni rinchiuso a Palazzo Chigi più disperato che mai.
E’ il giorno dell’annuncio, passano le ore e Renzi non esce, è angosciato cerca una soluzione dell’ultimo minuto, ma non ce ne sono, e allora Padòan gli dice “Senti non puoi più aspettare, tanto la figura di merda l’hai già fatta, vai fuori dai giornalisti dì che 1,5 miliardi te li dà Cottarelli, 1,8 miliardi li prendiamo dalle Banche e per il resto inventati una supercazzola, sei o non sei un toscano, e allora … dai … vai”.
E così Renzi si presenta davanti ai giornalisti e fa come gli aveva consigliato Padòan, i giornalisti, che ormai sono abituati alle supercazzole, non ci fanno più neppure caso e così non fanno domande in merito.
Finisce qui?
No!
Perché ovviamente il tutto deve passare alla firma di Napolitano, il quale è sì un po’ anzianotto, ma rincitrullito no!
Per cui chiama al Quirinale Padòan e gli dice “Ma che razza di porcheria mi portate da firmare?”
E Padòan “Lo so Presidente, ma che ci posso fare? Il piccolo ha fatto quella cazzata ed io cosa potevo fare? Vedi tu se vuoi firmare firma, altrimenti andiamo tutti a casa e non se ne parla più, siete stati voi, mica io, a mettere quello lì come Presidente del Consiglio!”
E come dare torto a Padòan?
Napolitano turandosi naso, bocca e orecchie firma quel decreto.
La morale di questa storia?
Semplice.
In posti di responsabilità, se dovete scegliere chi mettere tra un disonesto ed un grullo, scegliete il primo, certamente vi farà meno danni. (source)

lunedì 28 aprile 2014

I DIECI MANAGER CHE HANNO GUADAGNATO DI PIU' NEL 2013



Chi sono i 10 manager che nel 2013 hanno guadagnato di più? Si parla dei dieci manager italiani che hanno percepito stipendi da capogiro a zero rischio poiché non hanno investito i propri capitali nelle aziende per le quali lavorano, non sono degli imprenditori e non rischiano nulla. Anzi, quando lasciano queste aziende da cui percepiscono stipendi milionari, hanno diritto a liquidazioni che dipendono dai risultati che hanno conseguito nei loro anni di lavoro. Se le lasciano in stato fallimentare, non perdono nulla, per questo non rischiano nulla. Sono definiti i paperoni d’Italia, vediamo chi sono.
I 10 manager più pagati
L’ex presidente di Telecom, Franco Barnabè che nel 2013 ha percepito 8,2 milioni di euro, di cui 5,6 di liquidazione è colui che ha guadagnato di più. Il secondo nella classifica del manager più pagati d’Italia è Enrico Cucchiaini, Amministratore Delegato di Intesa San Paolo che ha percepito 6,1 milioni di euro di cui una parte, 3,6 milioni, gli sono stati dovuti per recesso unilaterale anticipato.
Il terzo paperone d’Italia è Sergio Marchionne Amministratore Delegato di Fiat e presidente di Cnh Industril che nel 2013 ha percepito 5,5 milioni di euro come Luca Cordero di Montezemolo, consigliere Fiat e presidente Ferrari.
L’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, ha dovuto accontentarsi di 4,5 milioni di euro, mentre l’amministratore delegato di Luxottica, Andrea Guerra, di 4,4 milioni di euro.
Mario Greco, amministratore delegato di Generali ha percepito nel 2013 un compenso di 3,6 milioni di euro mentre l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri, 3,2 milioni di euro.
Seguono a chiudere la classifica dei dieci manager più pagati d’Italia Alberto Nagel amministratore delegato di Mediobanca e Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca, entrambi con un compenso di 2,2 milioni di euro.
Questi stipendi da capogiro, ci è spiegato, sono determinati dal libero mercato, che questi personaggi hanno un altissimo profilo professionale e che comunque si parla di aziende private in cui è ammesso tutto poiché a pagare è l’azienda e non lo Stato, ma nelle aziende pubbliche accade la stessa identica cosa, i manager guadagnano cifre inaccettabili e vergognose. Ricordiamo che i dieci manager citati percepiscono in un anno lo stesso compenso che percepiscono in un anno 16.600 operai. (source)

giovedì 24 aprile 2014

LE MANI DI RENZI SUI CONTI CORRENTI

L'idea geniale del Fonzie di Firenze per trovare la copertura finanziaria della sua campagna elettorale consistente nei famosi 80 euro ai 10 milioni di italiani non prevede solo l'aumento della tassazione dal 20 al 26% delle rendite finanziarie. Riguarda anche la tassazione dei semplici, banali conti correnti bancari o postali. Avete capito bene: anche liquidità come i conti correnti saranno tassati. Il Sole 24 ore ha calcolato un gettito di circa 750 milioni derivanti da questa losca operazione. L'unico modo per sfuggire all'omicidio del riparmio è ritirare i propri denari e infilarli dentro il materasso. Fonzie fa la solita, vecchia partita di giro: ti dà con una mano e ti toglie con l'altra. Se questo è il nuovo che avanza, vi prego, ridateci Enrico Letta.


La relazione tecnica e l’articolato del decreto legge sul bonus fiscale da 80 euro ha evidenziato ciò che appariva chiaro fin dall’inizio dall’annuncio del taglio delle tasse fatto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Vista la difficoltà, politica e non, del taglio della spesa, l’intervento sull’Irpef  e Irap avrebbe potuto trovare le coperture necessarie solo dall’aumento della tassazione, e così è stato.  L’aumento dell’imposizione sulle rendite finanziarie, ovvero i frutti del risparmio, colpisce, oltre ad investimenti  come azioni e obbligazioni, anche i depositi bancari così come i certificati di deposito. Le tasse aumentano per i nettisti, ovvero i risparmiatori privati, mentre i lordisti, ovvero soggetto quali i grandi operatori finanziari, vengono esentati. Si colpisce di conseguenza il conto corrente della piccola azienda e del piccolo risparmiatore, mentre chi ha soldi per fare investimenti nel BTP Italia – taglio minimo da mille euro – ne viene esentato. Per recuperare denaro il governo Renzi ha così deciso di punire anche il simbolo dei piccoli accantonamenti di chi lavora, ovvero i soldi depositati sui conti correnti. Da questo tipo di aumento di tassazione il quotidiano Il Sole 24 Ore ha calcolato che arriveranno circa 750 milioni di euro nel 2015, e più di un miliardo nel 2016.
La misura del governo Renzi è una classica manovra di repressione finanziaria, visto che lo Stato scoraggia ogni forma di risparmio privato, dal deposito bancario alle azioni ad altre forme di investimento, mentre l’aliquota sui titoli di Stato rimane costante, al 12,5%. Il governo, mascherando questa manovra con parole quali equità sociale e redistribuzione della ricchezza, mira ad aumentare la quota di obbligazioni sovrane detenute da investitori domestici. Quando la crisi è scoppiata, più di metà dei nostri titoli di Stato erano in mano ad investitori stranieri, ora invece la netta maggioranza è in mano a banche o cittadini italiani. Con simili misure si rafforza l’ipotesi di un’imposizione patrimoniale per ridurre l’indebitamento pubblico, ma al momento questa è solo una suggestione, anche se non si vede altra via per riportare il nostro rapporto debito/Pil su livelli più sostenibili. Sicuramente la strada della crescita appare preclusa, alla luce di una congiuntura sempre più fiacca in eurozona, minata dalla tendenza deflazionistica in atto.
Il governo Renzi, nelle sue stime del Def, reputa che lo stimolo sulla crescita provocato dallo sgravio fiscale degli 80 euro sia contenuto, anche a causa di tagli di spesa recessivi. Per coprire il bonus ai lavoratori dipendenti da 1500 euro, si arriva a colpire i conti correnti di tutti i cittadini, senza alcun intervento in supporto delle fasce più deboli della nostra società, come gli incapienti, i disoccupati o una parte rilevante delle partite IVA. La giustizia sociale non sembra ispirare un provvedimento che al momento appare un mal riuscito spot elettorale, pasticciato e confuso. Vista l’enfasi dedicata alla comunicazione dal presidente del Consiglio, il molto tardivo risveglio dei media italiana sulla nuova tassazione dei conti correnti – non crediamo che la più precisa definizione di rendita da deposito bancario cambi qualcosa, nella sostanza – possa risvegliare qualche neurone a Palazzo Chigi. Matteo Renzi cercava nel decreto legge sull’Irpef la spinta per vincere in modo chiaro le elezioni europee, ma aver toccato i conti corrente in modo così maldestro rappresenta un significativo rischio intrapreso, chissà quanto consapevolmente, dal leader del PD. source

martedì 22 aprile 2014

JOB ACT: PROGETTO VECCHIO E PERICOLOSO



intervista a Luciano Gallino di Giacomo Russo Spena
Voce bassa, idee chiare. Come al solito. Gli 80 euro? “Uno spot, era meglio investire quei soldi in nuova occupazione”. La Cgil? “Sta appannando la bandiera di vero sindacato”. E sul Job Act, “è un progetto vecchio vent’anni che porterà all’estremo la precarietà”. Il sociologo Luciano Gallino riflette sulle misure del governo Renzi - dal Def al provvedimento del ministro Poletti - arrivando ad una netta bocciatura: “Sul lavoro non c’è quel cambiamento auspicato”.

Professore, partiamo proprio dal Def. Dopo settimane di annunci e proclami, sembra che la montagna abbia partorito un topolino. Il premier Matteo Renzi ha deciso di rispettare i vincoli imposti dall’Europa rinunciando ad utilizzare il margine fino al 3% del deficit annuo. Non doveva avere più coraggio nei confronti della trojka?

Sicuramente, ma Renzi esprime un governo e una classe politica interamente supina nei confronti dei dettati dell’Europa, i quali invece vanno messi in discussione. Per farlo ci vorrebbero due prerogative, avulse all’attuale governo: una vera forza politica nazionale e le competenze per poter intervenire su punti specifici.

Tra la varie misure ipotizzate, i mille euro all'anno per i dipendenti che ne guadagnano meno di 25mila lordi. È un reale antidoto per contrastare la crisi o le appare una mossa più che altro propagandistica? E, per Lei, ha una reale copertura economica?

Non si è ancora ben capito da dove arriveranno i fondi. Pur ipotizzando che abbiano trovate le risorse sufficienti, siamo ad una “partita di giro” per i cittadini: si toglie da un lato per spostarlo all’altro, si mette un’esigua cifra in tasca alla gente e si preleva altrove. L’operazione ha un grande impatto mediatico, 10 miliardi per 10 milioni di persone è uno spot che rimane impresso nelle menti. Ma siamo nel campo di interventi a pioggia a fronte di una recessione gravissima nel Paese e in Europa. Quei fondi si sarebbero dovuti concentrare su qualche singolo aspetto con effetti a breve e sicuri.

Per esempio?

Con 10 miliardi di euro si creano quasi un milione di posti di lavoro, a 1200 euro netti al mese più i benefici del caso. L’impatto sull’economia sarebbe stato più forte: questi 80 euro non cambiano infatti le sorti delle persone, mentre concentrati su un tot di cittadini questa cifra avrebbe inciso nelle loro vite. Renzi ha preferito lo spot ad effetto al reale cambiamento.

Passiamo al Job Act, qual è il suo giudizio?

Siamo di fronte ad un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna guardando soprattutto nello specchietto retrovisore. Una cosa pericolosa. Da non fare.

Ci spieghi meglio…

Il progetto del Job Act nasce vecchio. Di vent’anni. Nel 1994 l’OCSE – uno dei tanti organismi internazionali che entra negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, taglio dello stato sociale, concertazione etc… –produsse uno studio sull’indice di LPL (Legislazione a Protezione dei Lavoratori), un indicatore di rigidità del mercato: riteneva che tanto più alto fosse l’indicatore quanto più alta era la disoccupazione. Da allora molti giuristi, economisti, sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero dall’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice LPL possa portare ad aumento dell’occupazione. Nel 2006 la stessa OCSE, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento. L’indice LPL per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5, dopo 12 anni con le riforme delle leggi Treu 1997 e Maroni-Sacconi 2003 era sceso ad 1,5. Più che dimezzato. I precari sono diventati 4 milioni. La riforma Fornero ha seguito la stessa scia e ora il Job Act, a favorire ancora la mobilità in uscita. Nel 2014 siamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994 e l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante.

Quindi boccia il concetto di precarizzazione espansiva, ovvero l’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare una crescita dei redditi e dell’occupazione?

La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’ è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione. Invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi. Così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata.

L’associazione di giuristi democratici ritiene incompatibile il Job Act con il diritto comunitario, per questo ha denunciato l’Italia e il presidente del consiglio Renzi alla Commissione europea. Che ne pensa?

Azione meritoria che sottoscrivo, senz’altro.

Fonte: Micromega