lunedì 30 novembre 2015

TONY CAPUOZZO E IL CASO MARO'



I nostri fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono innocenti. Questa è la tesi forte e circostanziata che emerge dall’inchiesta giornalistica di Toni Capuozzo Il segreto dei marò (Ed. Mursia) il quale in questo modo spiega il perché sino a questo momento l’India non sia riuscita a rinviare a giudizio i due italiani. Prima dello stop decretato dal Tribunale internazionale di Amburgo. Il problema è che non ci sono prove sufficienti e quelle raccolte sono ambigue e traballanti, figlie di un affaire politico-economico più che di un’inchiesta condotta in modo serio ed imparziale. Così mentre tutta l’informazione, la politica e anche l’Accademia è avviluppata a chiedersi se ci fosse oppure no l’“immunità funzionale”, se l’India avesse o meno giurisdizione, nessuno è mai davvero sceso a fondo per valutare circostanze e fatti di quanto accadde davvero nel mare delle Laccadive il 15 febbraio del 2012. Una verità che probabilmente non sapremo mai affondata e abbandonata su una spiaggia del Kerala come lo scheletro crivellato del peschereccio St. Antony sul quale non è stata mai fatta una seria perizia.
La ricostruzione di Capuozzo, specialmente quando arriva a conclusioni personali, si può condividere o meno, in alcuni passaggi addirittura confutare, ma il “segreto” di cui parla appare limpido e lampante, proprio come quello di “Pulcinella”: le indagini sono state condotte male. Non si tratta qui di essere innocentisti o colpevolisti, ma di analizzare i fatti, le circostanze: per primo l’orario in cui è avvenuto il fatto. Su questo Italia e India concordano, l’evento si è determinato tra le 16 e le 16.30, ma più che una certezza da parte indiana pare più un compromesso perché l’orario contrasta con quanto affermato dal comandante del St. Antony Freddy Bosco il quale una volta arrivato a terra dichiara di fronte a testimoni e telecamere che il fatto si è svolto alle 21.30, cioè ben cinque ore dopo. Più tardi il comandante ritratterà e a riprova consegnerà alla polizia del Kerala (ma solo otto giorni dopo l’incidente!) il Gps (strumento che segna e indica la posizione) nel quale le rotte delle due unità coincidono. Ma anche sulla posizione qualcosa non torna, perché, inizialmente, sempre a caldo Bosco aveva dichiarato che la sua imbarcazione si trovava a 14 miglia dalla costa e non a 20,5 miglia, posizione accertata della Lexie. Ci sono ben sei miglia di differenza tra i due punti e per un peschereccio che va a 6 nodi vogliono dire un’ora di navigazione.
Le testimonianze del capitano indiano e quelle dei marò contrastano anche sulle modalità e la durata della sparatoria. Il primo riferisce che è durata due minuti, una vera valanga di fuoco, circostanza che non si concilia con le tre raffiche dichiarate dai marò a bordo della Lexie, del resto, confortate dalla conta delle munizioni mancanti tra quelle in dotazione al team. Nell’analisi delle dichiarazioni contrapposte sembra che nessuno delle due parti abbia davvero riconosciuto e identificato l’altra (eppure erano le 16.30 in pieno giorno) Freddy Bosco non riconosce il nome della nave, ma solo il colore rosso e nero (il nome lo ricorderà, in seguito) e dal canto loro gli stessi fucilieri di marina e il vice comandante della Lexie non riconoscono nel St. Antony l’unità sulla quale hanno fatto fuoco. E ciò vorrebbe dire che i nostri non solo mentono spudoratamente, ma che non sanno distinguere un peschereccio da una unità pirata lanciata a 20 nodi (e non a 8-10 nodi come il St. Antony) dove per di più avvistano anche degli uomini armati ad una distanza di non più di 40-50 metri.
La perizia balistica può essere l’elemento decisivo di qualunque processo, ma anche qui ci sono forti dubbi, la prima è svolta dal professore indiano Sasikala che trova un proiettile nel cranio di Valentine Jelastine e l’altro nel petto di Ajesh Binki fornendo tre misure 3,1 cm di lunghezza, due centimetri di circonferenza sulla punta, 2,4 sopra la base. Una semplice operazione di calcolo sulla base di questa circonferenza fornisce un calibro che è dato dal diametro 7,64 millimetri, dunque la misura fornita è molto vicina al calibro 7,62 che è un calibro Nato ma anche di molte armi dell’ex Patto di Varsavia. Un calibro molto distante dal 5,56 delle armi in dotazione ai Fucilieri del “San Marco”. Questa autopsia venne poi smentita da un accertamento affidato all’Ufficio del direttore del laboratorio di scienza del Kerala.
Per mettere un punto alla vicenda si sarebbe potuto analizzare il St Antony che rappresenta un reperto giudiziario a tutti gli effetti, ma poco tempo dopo l’incidente viene dissequestrato. Il capitano Bosco dopo aver recuperato quel che gli poteva tornare utile lascia il peschereccio affondare attraccato a un molo sino a che in giugno una squadra lo trascina a riva con funi e carrucole. Il natante è tuttora custodito sulla spiaggia nei pressi del posto di polizia esposto alle intemperie e probabilmente inutile.
Una buona indagine deve poi seguire tutte le possibili piste, e nessuno si è realmente interessato di una nave che transitava in quel momento nelle acque indiane e che, come la Lexie , ha subito un attacco pirata lo stesso giorno, solo qualche ora più tardi. Parliamo della Olympic Flair che batte bandiera greca e che nella sera del 15 febbraio ha riportato alle autorità indiane di aver subito un attacco pirata. Non viene neppure contattata anche se la nave assomiglia per sagoma e colorazione alla petroliera italiana. “Neanche un’ora dopo aver invitato la Lexie – scrive Capuozzo – a puntare su Kochi la Guardia Costiera indiana riceve – sono le 22.20 – un messaggio dal Piracy Reporting Centre di Kuala Lumpur la petroliera greca Olympic Flair ha denunciato di aver subito un attacco pirata mentre era all’ancora a sud ovest di Kochi. Circa 20 pirati su due imbarcazioni hanno cercato di abbordare la nave avvenuto prima delle 22,20 e c’è il dettaglio delle due imbarcazioni dei pirati che lascia pensare ad un tragico equivoco una barca pirata contro la nave greca e il St Antony preso nel mezzo”.
L’AIS della petroliera greca è spento non si può localizzare né rilevare la rotta, solo grazie al lavoro di Ennio Remondino, allora corrispondente Rai, è arrivata l’ammissione che a bordo della Olympic Flair c’era personale armato contractor dell’agenzia Diaplous.
Quante circostanze ancora da accertare! Sulle quale probabilmente non indagherà nessuno perché il tribunale di Amburgo si limiterà a questioni di diritto internazionale, si arriverà forse ad un accordo lasciando su questa vicenda un’ombra cupa e colpevolista che l’ha connotata sin dal principio. Quando questa triste vicenda sarà terminata e qualcuno leggerà a posteriori “Il segreto dei marò” potrà avere uno spaccato preciso dell’epoca che stiamo vivendo nella quale la crisi non è solo economica, ma è tale perché si sono messi in gioco o svenduti quei valori sui quali si basa la nostra identità come Paese, i pilastri sui quali si regge il tempio.

giovedì 26 novembre 2015

GLI ANTIDEPRESSIVI SONO INUTILI E DANNOSI



Uno studioso americano ha messo le mani sulle carte segrete delle aziende che producono  antidepressivi. E ha scoperto che non sono più efficaci dei placebo. Lo abbiamo intervistato. Colloquio con Irving Kirsch
L’imperatore è nudo: parola di Irving Kirsch, professore al Department of Psychology dell’Università di Hull, in Gran Bretagna, e docente emerito dell’Università del Connecticut. Che ha pubblicato diversi studi per dire che quei farmaci che dovrebbero aiutare a sconfiggere il male di vivere, al contrario, non fanno nulla. Per dimostrarlo, Kirsch si è avvalso del Freedom of Information Act, la legge statunitense che tutela il diritto di accesso alle informazioni di interesse pubblico. E ha costretto l’Fda a tirare fuori dai cassetti ciò che, altrimenti, non sarebbe mai diventato di dominio pubblico, ossia i dati in base ai quali erano stati approvati sei tra gli antidepressivi più venduti, e cioè citalopram (elopram e altri), fluoxetina (prozac e altri), nefazodone (reseril, ritirato per danni epatici), paroxetina (seroxat e altri), sertralina (zoloft e altri), venlafaxina (efexor e altri).
Kirsch ha così dimostrato che, in 47 studi clinici controllati, in gran parte sponsorizzati dalle industrie produttrici, solo il 10-20 per cento dei pazienti avverte un beneficio dovuto effettivamente all’azione farmacologica della molecola, mentre l’80-90 per cento dei depressi si sente meglio grazie al placebo. E aggiunge: tutti lo sanno, ma tutti continuano a sostenere le pillole della felicità. Per questo ha voluto intitolare un suo articolo ‘I farmaci nuovi dell’imperatore: la disintegrazione del mito degli antidepressivi’.
Un mito che oggi vacilla sotto l’autorità di un grande studio pubblicato su ‘Jama’ che sostiene chiaramente l’inutilità di questi farmaci in chiunque non sia depresso in maniera molto grave. La ricerca si basa sui dati ottenuti sulle 160 mila donne partecipanti alla Women’s Health Initiative, così come quella che dimostra come gli antidepressivi nelle donne in menopausa aumentino il rischio di ictus e morte (dati pubblicati sugli ‘Archives of Internal Medicine’). Un colpo ferale, che arriva dopo anni di polemiche su quanto l’uso intenso di questi farmaci aumenti il rischio di suicidio. Che cosa concludere? Ecco che cosa ne pensa lo studioso.
Professor Kirsch: dati nascosti, per coprire la scarsa efficacia, ambiguità degli enti regolatori per farmaci sostenuti da imponenti campagne pubblicitarie. Come è stato possibile?
“Ci si muove su un terreno scivoloso. Nelle sperimentazioni, i malati che assumono questi farmaci spesso migliorano; tuttavia, ciò che non si è detto per anni è che anche i pazienti trattati col placebo migliorano all’incirca allo stesso modo. In altre parole, i farmaci funzionano non grazie al loro meccanismo d’azione, bensì all’effetto placebo, ma questa verità è stata taciuta per anni. Nella pratica clinica, d’altro canto, se un depresso migliora, il medico non ha alcun modo per stabilire perché ciò accade. E quindi, spesso, pensa sia a causa del farmaco e continua a darlo”.
Nessuna cattiva coscienza dei medici, allora? Chi ha sbagliato?
“Le informazioni più rilevanti sono state tenute nascoste per due decenni, anche se tutti gli specialisti erano a conoscenza di quello che qualche mio collega coinvolto negli studi registrativi ha in seguito pubblicamente e senza vergogna definito ‘il nostro piccolo sporco segreto'”.
Che ruolo hanno – o dovrebbero avere – oggi gli antidepressivi?
“Iniziano a esserci timidi segnali di cambiamento, via via che vengono pubblicati nuovi risultati: per esempio, un recente sondaggio condotto in Gran Bretagna ha mostrato che il 44 per cento degli specialisti incomincia a considerare alternative a questi medicinali. Tuttavia non bisogna illudersi, i consumi sono ancora in aumento, e molti medici li prescrivono subito, come primo approccio a depressioni anche lievi, mentre nella stragrande maggioranza dei casi dovrebbero essere considerati come l’ultima spiaggia, e usati solo dopo che tutte le altre cure hanno fallito”.
Perché invece sono tanto amati, dai medici in primo luogo?
“Negli ultimi vent’anni ci hanno raccontato che tutto era dovuto alla serotonina. Ma i dati genetici e di laboratorio dimostrano che non è così. Così come lo dimostra il fatto che esistono antidepressivi che aumentano la serotonina (come la fluoxetina), altri che la diminuiscono (come la tianepina) e altri che non hanno alcun influenza su di essa, e il loro effetto è identico. Perché la serotonina non c’entra: ciò che funziona è l’effetto placebo”.
Riducendo il ruolo dei farmaci, qual è il modo più efficace per affrontare la depressione?
“I dati degli ultimi anni dimostrano che la psicoterapia, soprattutto quella di tipo cognitivo-comportamentale, è l’alternativa migliore ai farmaci. Infatti, anche se i benefici immediati possono essere analoghi a quelli ottenibili con gli antidepressivi, quelli a lungo termine sono molto più consistenti e stabili. Sappiamo che la maggior parte dei depressi trattati con i farmaci è destinato prima o poi a ricadere, ma la psicoterapia dimezza tale rischio. Inoltre, anche se i suoi costi iniziali possono essere superiori a quelli di un protocollo farmacologico, molti dati dimostrano che negli anni è costo-efficace e più economica rispetto agli antidepressivi. A essa poi si può aggiungere la lettura di alcuni libri scritti da specialisti. In commercio se ne trovano diversi, incentrati su aspetti differenti quali il perseguimento di attività gradite, il rafforzamento delle relazioni sociali, la percezione di sé e così via, che anch’io consiglio sovente ai miei pazienti; riconosco che il ricorso ai libri potrebbe sembrare una soluzione semplicistica e inadeguata, ma ci sono ormai diversi studi che dimostrano che alcuni testi, da soli o in aggiunta alla psicoterapia, hanno un’efficacia ancora misurabile dopo tre anni, soprattutto quando la depressione non è troppo grave. Come lo sport”..
L’attività fisica? Che ruolo ha?
“Ha un ruolo fondamentale e spesso sottovalutato nella cura delle depressioni. Molti studi lo hanno rilevato, mentre altri hanno messo a confronto l’efficacia di vari tipi di esercizi con quella delle diverse psicoterapie e dei farmaci, e altri ancora hanno provato a sommare l’effetto degli uni e degli altri. Il risultato, così come emerso in alcune rassegne di studi, è sempre lo stesso: lo sport aiuta a controllare le depressioni lievi, e la sua efficacia è paragonabile a quella delle terapie psicologiche o farmacologiche, soprattutto sul lungo periodo. Da queste ricerche, inoltre, sono emersi risultati sorprendenti. Per prima cosa le ricerche hanno rilevato che l’esercizio fisico ancora funziona meglio sulle depressione medio-gravi che su quelle più lievi. E hanno visto che gli effetti benefici dello sport sono duraturi e, anzi, aumentano nel tempo, se il depresso è costante nello svolgimento dell’attività scelta, che deve consistere in media in venti minuti di allenamento tre volte alla settimana”.
Qualunque attività?
“Va bene tutto, purché sia gradito e ben accetto. Sul perché lo sport faccia così bene, per ora ci sono solo teorie: probabilmente in gran parte è dovuto al rilascio di endorfine. Comunque, anche se tutto causato dall’effetto placebo, per convincersi di quanto lo sport sia positivo basta confrontare i suoi effetti collaterali con quelli dei farmaci. Con questi ultimi il depresso va incontro a disfunzioni sessuali, nausea, vomito, insonnia, convulsioni, diarrea, cefalea, rischio di pensieri suicidi e sonnolenza. Con lo sport si ha la possibilità di mettere sotto controllo il proprio colesterolo, di perdere il peso in eccesso, di dormire meglio, di avere un miglioramento della libido, del tono muscolare, della funzionalità cardiaca e vascolare e, in definitiva, di vedere la propria aspettativa di vita allungarsi. Non mi resta che dire: potendo scegliere, quale dei due effetti placebo preferireste?”.

PARERE DEL PROF. PAOLO MIGONE
I dati riportati in questo articolo del n. 6/2010 de L’Espresso sono corretti, anzi – cosa che qui non viene detta – lo studio di Kirsch et al. del 2002 di cui si parla è stato replicato da altri autori ottenendo gli stessi risultati (vedi ad esempio Whittington et al., 2004; Kirsch & Moncrieff, 2007; Turner et al., 2008¸ Hughes & Cohen, 2009; vedi anche Kirsch, 2009). Per di più, i successivi studi sono stati pubblicati su riviste molto prestigiose (ad esempio anche sul New England Journal of Medicine, una delle riviste più qualificate al mondo, su cui ad esempio scrivono i premi Nobel). Tutti i ricercatori hanno sempre saputo che i farmaci antidepressivi hanno una efficacia molto simile al placebo (c’è una piccola significatività statistica ma non una significatività clinica). Questo infatti è sempre stato considerato dai ricercatori il loro “piccolo sporco segreto” (little dirty secret), come è stato detto testualmente (Hollon et al., 2002). Nessun ricercatore ha mai contraddetto questi risultati. Esiste solo uno studio molto recente (Fournier et al., 2010) che mostra che i farmaci possono essere un po’ efficaci ma solo nelle depressioni gravi, mentre nella stragrande maggioranza dei casi sono inefficaci (Kirsch et al. invece non avevano trovato differenze tra pazienti lievi e gravi).
Sono stato io per primo a pubblicizzare queste ricerche in Italia in un articolo uscito sul n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, che è reperibile anche su Internet (“Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale“). Esistono anche dati di ricerca ben consolidati che dimostrano che la psicoterapia è nettamente superiore ai farmaci. A proposito di psicoterapia, nel n. 1/2010 di Psicoterapia e Scienze Umane, che esce tra circa un mese, vi è un importante review di Shedler sull’efficacia della terapia psicodinamica in cui, tra le altre cose, vi è una tabella che paragona le “dimensioni del risultato” (effect size) di vari tipi di psicoterapia, emerse dalle principali meta-analisi esistenti (15 in tutto, 2 delle quali sono “mega-analisi”, cioè meta-analisi di meta-analisi), e in questa tabella vengono mostrate anche, come elemento di paragone, le effect size dei farmaci antidepressivi: queste variano da .17 a .31, mentre quelle della psicoterapia variano da .62 a 1.46 secondo le diverse meta-analisi, è cioè enormemente più efficace la psicoterapia dei farmaci (se può interessare un paragone tra le diverse tecniche psicoterapeutiche, da questo studio emerge che la terapia psicodinamica [PDT] è più efficace della terapia cognitivo-comportamentale [CBT]: le effect size della terapia psicodinamica variano da .69 a 1.46, mentre quelle della terapia cognitivo-comportamentale variano da .58 a 1.0; questo è un dato nuovo, che va in controtendenza rispetto a precedenti studi, che penso farà molto discutere). Questa review di Shedler esce proprio in questi giorni sulla rivista American Psychologist, organo dell’American Psychological Association, e viene pubblicata quasi in contemporanea in italiano grazie a un accordo tra Psicoterapia e Scienze Umane e l’American Psychological Association.
Qual è la ripercussione di questi studi sulla pratica psichiatrica in generale? Forse non molta, perché queste cose si sapevano da tempo eppure i farmaci antidepressivi hanno continuato ad essere prescritti a vasti settori della popolazione, anzi sempre di più, e vengono proposti persino per i bambini. Vi sono varie forze che sinergicamente spingono verso a un massiccio uso di farmaci. Innanzitutto la pressione delle case farmaceutiche che condiziona pesantemente la cultura dei medici, finanziando pressoché quasi tutte le riviste scientifiche, i congressi, “informando” costantemente i medici tramite i rappresentanti farmaceutici i quali pagano la loro partecipazione ai congressi scientifici e così via. Poi vi è in molti pazienti una grande aspettativa verso il farmaco che risolva in modo rapido i problemi di cui soffrono, e questa aspettativa deriva da una cultura diffusa (alla cui diffusione non sono estranee le case farmaceutiche); questa cultura del resto è quella da cui deriva il potente effetto placebo (però pochi ricordano che i benefìci ottenuti coi farmaci potrebbero essere ottenuti quasi allo stesso modo con un placebo). Infine gli psichiatri, che molto spesso hanno poca cultura psicoterapeutica, non sono preparati a rispondere ai pazienti trasmettendo altri valori, anzi, quasi sempre colludono con loro elargendo farmaci antidepressivi (cioè in sostanza placebo) e quindi “non curandoli” nel senso scientifico del termine. E’ stato dimostrato infatti che i farmaci antidepressivi non solo producono risultati inferiori alla psicoterapia, ma anche più ricadute e una graduale diminuzione del risultato raggiunto, mentre la psicoterapia produce meno ricadute e un progressivo aumento dell’effetto terapeutico nel tempo, come se si mettessero in moto processi psicologici autonomi che evolvono negli anni.
Come fare per aumentare la consapevolezza di questi dati nei medici e nella cultura psicologica in generale, migliorando così le prestazioni psichiatriche? Non è facile dirlo, occorrerebbe una modificazione dei processi formativi, introducendo maggiormente una cultura psicodinamica e interpersonale nella formazione degli psichiatri, che tra l’altro è più in linea con le evidenze scientifiche che paradossalmente vengono vantate proprio da quel mondo accademico che, in sinergia con le case farmaceutiche, continua a diffondere una cultura secondo la quale sono soprattutto le variabili farmacologiche, e non psicologiche, quelle importanti nella salute mentale.

mercoledì 25 novembre 2015

GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: RESTITUITO IL BOTTINO AI CRIMINALI ZINGARI



Hanno rubato, perciò restituiamo loro il maltolto. Con tanto di risarcimento. Del resto, poveri sinti di Asti, vorrete mica lasciarli senza la refurtiva? Con tutto quello che hanno faticato per accumularla?
Ma sì, dai: hanno messo su un’associazione per delinquere, che è roba seria. Poi hanno girato il nord Italia, da Genova all’Appennino tosco-emiliano, passando per mezza pianura padana, con una serie di colpi sfiancanti: furti in appartamenti, negozi svaligiati, case violate, anziani raggirati, razzie di gioielli, auto sportive, camper di lusso, forme di Parmigiano Reggiano e tanti soldi accumulati. Ma proprio tanti: un milione di euro. E allora: vi pare giusto privare i sinti di cotanto bendiddio indebitamente sottratto ai legittimi proprietari?

Non sia mai detto. E infatti per fortuna ci pensa lo Stato italiano. Ci abbiamo messo nove anni, ma grazie alla preziosa collaborazione della giustizia lumaca, ci siamo riusciti: abbiamo restituito alla banda di nomadi, condannati per associazione a delinquere, tutto quello che aveva accumulato: gioielli, auto, caravan, soldi e forse anche il Parmigiano Reggiano. Hanno riavuto tutto, fino all’ultimo centesimo, più qualche sommetta aggiuntiva per il doveroso risarcimento. Per i sinti è una specie di vincita al Superenalotto, per i contribuenti una doppia beffa.
Per la quale, ancora una volta, possono ringraziare la giustizia italiana. E la sua epica lentezza.
Questa storia, infatti, comincia nel 2006. Quando i carabinieri, dopo mesi di pedinamenti, arrestano una banda di sinti astigiani, dediti per l’appunto a razzie fra Piemonte e Liguria, con sconfinamenti in Emilia e Toscana. Il giudice dispone anche il “sequestro preventivo” dei beni che si considerano “provento dell attività criminale” e nel frattempo rinvia a giudizio i presunti ladri che vengono accusati di associazione per delinquere, furto e ricettazione. Che cosa succede però alla prima udienza preliminare? Grazie alla furbizia di un pool di avvocati specialisti nella difesa dei sinti, come ha raccontato Massimo Coppero sulla “Stampa”, il processo viene spezzettato in mille rivoli, a seconda dei reati: quello per associazione per delinquere va al tribunale di Asti, quelli per furto vengono mandati in tanti uffici giudiziari diversi, quello per ricettazione torna indietro al pm per questioni procedurali. Non vi pare un’idea geniale? Il processo sbrisolone. Pan grattato di legalità.
E qui viene il bello: il processo per associazione a delinquere, infatti, nel 2010 arriva alla sentenza di primo grado, con condanne fino a cinque anni di reclusione per ogni imputato. Dunque il giudice stabilisce che quelli avevano costituito una banda organizzata per rubare. Ma i processi per furti, divisi nei tribunali di dieci diverse città, non sono mai andati avanti. E, peggio ancora, non è mai andato avanti il processo per ricettazione: il fascicolo è stato un po’ a dormire sui tavoli della Procura, poi su quello del giudice onorario che è stato travolto dalle eccezioni procedurali. Risultato: il reato di ricettazione, nei giorni scorsi, è andato prescritto. E siccome il sequestro preventivo dei beni, ordinato nel 2006 dal giudice, era legato solo a questo reato, ecco combinato il pasticcio finale: il sequestro decade. Lo Stato deve restituire un milione ai sinti che pure ritiene colpevoli di associazione a delinquere. Condannati e rimborsati, per l’appunto.
Fateci caso: in questa storia di provincia c’è una piccola sintesi dei nostri guai.
Uno spaccato in miniatura dei mali che affliggono l’Italia. Ci sono i sinti che fanno razzie più o meno indisturbati, i carabinieri che si dannano l’anima per prenderli e poi scoprono che è inutile, i poveri vecchietti raggirati da chi poi tiene tesori in banca e auto sportive in garage, la giustizia che difende sempre i secondi più dei primi, gli avvocati troppo furbi che imperversano, i magistrati che si trastullano, i faldoni che si perdono, i processi che s’insabbiano, i cavilli che si inseguono e i paradossi che trionfano.
Quando il giudice ha dissequestrato la refurtiva, per dire, ha dovuto pure saldare il conto del deposito dove sono stati custoditi per nove anni i macchinoni e i caravan di lusso dei delinquenti. E chi paga? I contribuenti, ovviamente. Proprio così, cari lettori: avete pagato nove anni di deposito per i caravan di lusso di un’associazione di ladri. E non vi lamentate troppo perché, se per caso gli avvocati furbi ricorrono e il processo riprende, c’è il rischio che vi tocchi pure di peggio. Magari vi tocca pagare loro un vitalizio mensile. Con annessa medaglia al valor civile, sezione speciale delinquenti associati. (Mario Giordano)

martedì 24 novembre 2015

ORA CHE SONO GUARITA VI SPIEGO COS'E' L'ANORESSIA



"Non avevo lavoro, non sapevo come sarebbe stato il mio futuro, mi ero innamorata di Carlo. E per la prima volta un sentimento d'amore sfuggiva al mio controllo, avevo paura".
Giulia Pezzullo ricorda così il momento nel quale ha sentito che doveva prendere una decisione, voleva diventare forte e per questa ragione ha smesso di mangiare fino a consumare una mela e uno yogurt al giorno passando dai 58 ai 34 chili in meno di un anno.
"Perché le cose con gli uomini possono andare bene o possono andare male ma io non potevo sopportare che andassero male come era accaduto alla mia famiglia per colpa di mio padre". Camminate, sport, una vita iperattiva. Fino all'esaurimento fisico, le ossa talmente sporgenti che provocano lividi alla pelle, "un mese intero passato abbracciando la stufa perché avevo sempre freddo e comunque uscivo a camminare per lunghi chilometri".
Una vita che non era la sua: "Non avevo mai fatto molto caso al mio aspetto fisico, non avevo mai amato particolarmente lo sport, prima frequentavo un sacco di amici e invece mi ero ridotta a stare sempre da sola".
Infine il ricovero in un ospedale di Conegliano (Treviso), lei che sulla barella del pronto soccorso canta a squarciagola per dimostrare "una tremenda spavalderia": "Mi sentivo onnipotente, in realtà ero incapace di intendere e volere", il padre che finalmente le dedica attenzioni e porta una tartare di tonno per convincerla a mangiare, le sorelle Monica e Roberta che dormono a turno nella sua stanza, l'ex fidanzato che scatta le foto del suo corpo smagrito, il tubicino
"Non avevo lavoro, non sapevo come sarebbe stato il mio futuro, mi ero innamorata di Carlo. E per la prima volta un sentimento d'amore sfuggiva al mio controllo, avevo paura".
Giulia Pezzullo ricorda così il momento nel quale ha sentito che doveva prendere una decisione, voleva diventare forte e per questa ragione ha smesso di mangiare fino a consumare una mela e uno yogurt al giorno passando dai 58 ai 34 chili in meno di un anno.
"Perché le cose con gli uomini possono andare bene o possono andare male ma io non potevo sopportare che andassero male come era accaduto alla mia famiglia per colpa di mio padre". Camminate, sport, una vita iperattiva. Fino all'esaurimento fisico, le ossa talmente sporgenti che provocano lividi alla pelle, "un mese intero passato abbracciando la stufa perché avevo sempre freddo e comunque uscivo a camminare per lunghi chilometri".
Una vita che non era la sua: "Non avevo mai fatto molto caso al mio aspetto fisico, non avevo mai amato particolarmente lo sport, prima frequentavo un sacco di amici e invece mi ero ridotta a stare sempre da sola".
Infine il ricovero in un ospedale di Conegliano (Treviso), lei che sulla barella del pronto soccorso canta a squarciagola per dimostrare "una tremenda spavalderia": "Mi sentivo onnipotente, in realtà ero incapace di intendere e volere", il padre che finalmente le dedica attenzioni e porta una tartare di tonno per convincerla a mangiare, le sorelle Monica e Roberta che dormono a turno nella sua stanza, l'ex fidanzato che scatta le foto del suo corpo smagrito, il tubicino
"Le foto di quel periodo? Le avevo buttate via perché mi faceva male guardarle. Per fortuna ne ho recuperata qualcuna. E' difficile pubblicarle eppure mi aiutano a liberarmi di quello che ho passato", dice Giulia. Che vuole precisare: "Io dico di essere guarita ma continuo a fare psicoterapia perché l'anoressia potrebbe tornare. Ancora oggi soffro di binge-eating, a volte mi abbuffo e poi mangio frutta per tre giorni per smaltire. Non è finita".
In "Filo rosso" spiccano le immagini di Giulia con le persone che le vogliono bene. Amici che si ammucchiano sul letto d'ospedale sorridendo al fotografo, mamma Giorgia e papà Luigi che la accarezzano e la baciano. "Per loro si trattava soltanto di un problema con il cibo. Mio papà mi diceva: 'Perché non ti mangi quel pezzo di pane?' e quando finivo tutto sul piatto scattava una standing ovation. Ma la mia battaglia non era vinta per questo".
Queste sono le verità che vuole far conoscere alle persone che stanno vicino a chi soffre di disturbi dell'alimentazione: "Non si tratta di una preoccupazione estetica, il nostro è un dolore profondo che diventa visibile se dimagrisci molto come nel caso dell'anoressia, oppure rimane invisibile se non c'è variazione di peso".
Il ricovero nell'ospedale di Conegliano, all'inizio del 2012, è soltanto l'inizio. A Conegliano non esiste un reparto specializzato per le persone malate di anoressia e tuttavia è qui che Giulia incontra la psichiatra Francesca Titton, specializzata proprio in disturbi alimentari, una delle figure mediche che risultano fondamentali per la sua guarigione. Ma il percorso è lungo.
Giulia trova posto in una struttura di Susegana, dalla quale scappa e torna a casa: "Mi obbligavano a rimanere seduta finché non avessi terminato il pasto, non potevo sopportarlo". E dimagrisce di nuovo, nonostante le preoccupazioni del fidanzato e della famiglia.
Ricordo quella sensazione di terrore nel vedere quelle goccioline di olio d’oliva sopra quel pezzetto di pesce. L’anoressia mi suggeriva che se avessi permesso a quel boccone di entrare dentro di me, sarebbe stata la fine. Quella concessione verso me stessa e il conseguente ascolto del consiglio di parenti, medici e amici era come se acconsentendo, gli dessi lo spazio per fare di me quello che volevano. Io avevo il controllo, nessuno poteva togliermelo.
La persona generosa e sensibile che tutti conoscevano, era tramutata in avara, povera di sentimenti, materialista, egoista.

Dopo una esperienza di lavoro disastrosa in Sardegna, dove scopre di essere anche bulimica, arriva il ricovero al "Parco dei Tigli" a Padova. "In quel luogo ho scoperto la vera Giulia", racconta. La Giulia che pensa di aprire un blog. "Ero in stanza con donne gravemente depresse, nel reparto ho conosciuto ogni tipo di malattia mentale e vedevo che i pazienti mi cercavano per avere un consiglio, una parola. Ho pensato che aiutare gli altri mi stesse aiutando". Ricorda un ragazzo malato di bulimia: "Subìva le scelte delle sua famiglia, aveva aperto una casa editrice solo per pubblicare il libro del padre. Di notte si strafogava per coprire la sofferenza, il cibo è soltanto un sintomo".
"Ho ancora un grosso dolore dentro di me", dice Giulia. "Ma non voglio sapere quanto peso, non ho nemmeno una bilancia. E devo ancora risolvere la mia mancanza di fiducia nei confronti delle relazioni". A Padova, dove continua la sua psicoterapia di sostegno, frequenta una scuola per diventare assistente all'infanzia e operatrice per la tossicodipendenza.
"Il mio sogno è aprire un centro a Conegliano dove i bambini e i ragazzi possono trovare un orientamento psicologico e professionale. Un luogo che mi avrebbe aiutato quando sono stata male io, e non c'era. Corsi di pet therapy, musicoterapia, corsi di artigianato. Fare cose con le mani è importante. E poi naturalmente il mio blog: non posso promettere la guarigione a nessuno ma ho capito quanto è importante incontrare qualcuno che sta passando il tuo stesso inferno".