mercoledì 4 novembre 2015

CON IL BULLO DI FIRENZE IL PD SI E’ TRASFORMATO NEL SUO UFFICIO STAMPA



Una mutazione genetica del partito, l'allontanamento dalla cultura ulivista che era alla base del progetto originale, un modello del lavoro basato sulla compressione dei salari, il fastidio per il tipo di società disegnata dalla Costituzione repubblicana. Sono i motivi alla base dell'addio al Pd dei deputati Alfredo D'Attorre, Carlo Galli e Vincenzo Folino. Oggi alle 15 terranno alla Camera una conferenza stampa per motivare la loro decisione di uscire dal Partito democratico. Nell'occasione sarà illustrato un documento politico condiviso con altri parlamentari che hanno già lasciato il Pd. L'Huffington Post ha avuto modo di leggerlo in anteprima.
Con questo documento, firmato da Stefano Fassina, Monica Gregori, Corradino Mineo oltre a Folino, Galli e D'Attorre, gli ex membri del Pd analizzano il cambiamento radicale del partito dopo l'ascesa renziana al potere. E gli scenari futuri per un progetto di sinistra: "Renzi si è inserito con determinazione e spregiudicatezza nel varco aperto dai difetti di costruzione originari del PD". "I provvedimenti adottati in materia di lavoro, scuola, welfare, fisco indicano che il PD vive ormai con fastidio il modello di società disegnato dalla Costituzione repubblicana", scrivono.
La mutazione genetica del PD, nato come forza centrale del centrosinistra italiano, è purtroppo ormai compiuta. Lo è per il programma economico-sociale, per l’idea delle istituzioni e del sistema democratico, per la natura della sua vita interna, per il radicale mutamento della composizione dei suoi iscritti ed elettori, per le nuove alleanze politiche e sociali che si stanno affermando.
L’esperienza renziana e le mutazioni introdotte non saranno una parentesi. Esse hanno ormai alterato in maniera irreversibile la percezione del PD e della sua funzione nell’immaginario collettivo. Non ha senso il confronto con altre forze della sinistra europea. Il PD non è il Labour Party o la SPD. Ha meno di dieci anni di vita e questa è la sua prima vera esperienza di governo, dopo gli anni di Berlusconi e la parentesi delle larghe intese di Monti e Letta. Renzi si è inserito con determinazione e spregiudicatezza nel varco aperto dai difetti di costruzione originari del PD e dall’esito delle elezioni del 2013. In meno di due anni, sfruttando la leva del governo, ha prodotto una discontinuità profonda, che non è riducibile ai fisiologici cambiamenti di orientamento che segnano la vita dei grandi partiti europei tra un congresso e l’altro. Ciò è stato possibile anche per la fragilità della cultura politica e del modello organizzativo che il PD si trascina fin dalla sua nascita. Il tentativo della segreteria Bersani, controcorrente rispetto ai tempi e non sorretto da una maggioranza congressuale omogenea, ha tamponato questi problemi, ma non ha potuto risolverli.
Secondo D'Attorre e gli altri, il Pd renziano ha anteposto il profitto al lavoro, segue la strada dei tagli al welfare e dà maggiore spazio al privato sia nel campo sanitario che in quello previdenziale. Le diseguaglianze vengono accentuate invece che essere ridotte.
I provvedimenti adottati in materia di lavoro, scuola, welfare, fisco indicano che il PD vive ormai con fastidio il modello di società disegnato dalla Costituzione repubblicana. Alla centralità del lavoro si è sostituita quella dei profitti, al principio di uguaglianza la retorica della meritocrazia che legittima la crescita reale delle diseguaglianze, alla progressività dell’imposizione fiscale l’adozione del motto berlusconiano “meno tasse per tutti”, all’universalità dei diritti sociali il primato di una presunta efficienza che apre il campo ai tagli al welfare e a un maggior spazio ai privati in campo sanitario e previdenziale. La legge di stabilità attualmente in discussione si muove dentro questo solco e non stupisce che i maggiori apprezzamenti siano finora venuti dalle forze di centrodestra dentro e fuori la maggioranza di governo.
Sul fronte delle riforme che mirano a cambiare l'assetto istituzionale del Paese, il Pd a trazione renziana si è allontanato dalla cultura ulivista, umiliando le prerogative del Parlamento e servendosi del trasformismo parlamentare pur di raggiungere a tutti i costi gli obiettivi prefissati.
Sul terreno istituzionale l’insieme di nuova legge elettorale e riforma costituzionale è destinato a introdurre un presidenzialismo di fatto privo di contrappesi e bilanciamenti, sottraendo nuovamente ai cittadini la scelta di gran parte dei parlamentari. Siamo fuori dalla cultura istituzionale dell’Ulivo e del centrosinistra. Nel merito e nel metodo. Nell’iter delle riforme si sono consumati strappi molto gravi: un ruolo del governo del tutto esorbitante che ha umiliato le prerogative del Parlamento, la sostituzione forzata nelle Commissioni dei parlamentari dissenzienti, l’imposizione della fiducia sulla legge elettorale (per la prima volta dopo la legge Acerbo nel 1923 e la legge truffa nel 1953), il disinvolto uso del trasformismo parlamentare per piegare le posizioni critiche al Senato sulla riforma costituzionale.
Il partito è stato ridotto ad appendice inerte del leader: comitato elettorale e ufficio stampa. Gli organismi dirigenti sono diventati rappresentazioni a uso streaming, riuniti ogni volta che è servito imporre un voto su una decisione già assunta dal segretario-premier o disporre di un palco dal quale lanciare un annuncio all’esterno. A livello locale la partecipazione e la vita democratica interna sono sempre più flebili. I congressi vengono sospesi e i commissari si moltiplicano. Il ricorso alle primarie per la scelta dei candidati sindaci viene adesso messo in discussione con l’idea di pilotare la scelta dei candidati da Palazzo Chigi, dopo che per anni Renzi è stato il principale avversario di qualsiasi forma di regolazione delle stesse.
Bisognava uscire dal Pd perché restare dentro, scrivono i fuoriusciti, significava appoggiare questo Pd nelle sue prossime sfide: dalle amministrative al referendum costituzionale fino alle prossime elezioni politiche. Convivendo con il rischio di una cancellazione della sinistra italiana, per opera di un segretario di partito che non ha mai discusso con la base la sua agenda e a capo di un governo privo di legittimazione popolare.
Dopo aver vinto le primarie contro le larghe intese, Renzi ha sostituito Letta a Palazzo Chigi, trasformando l’accordo con Alfano da un governo di emergenza di diciotto mesi in un esecutivo politico di legislatura. Il programma di questo esecutivo, nato senza una legittimazione popolare diretta, non è stato mai discusso nemmeno con la base del PD. Non solo non si è considerata l’opportunità di un congresso straordinario per valutare una situazione politica totalmente mutata, ma si è ignorata anche la necessità di consultare gli iscritti e gli elettori del PD almeno sulle scelte più divisive, ad esempio il jobs act e la riforma della scuola. Nell’impossibilità di qualsiasi verifica democratica interna, restare nel PD significherebbe sostenere il progetto renziano nei tre appuntamenti cruciali dei prossimi mesi: le amministrative di primavera, il referendum costituzionale dell’autunno e le elezioni politiche che vi faranno seguito. Il rischio concreto è che l’Italia diventi l’unico grande Paese europeo in cui la sinistra viene completamente cancellata.
Di qui la necessità di un nuovo progetto politico. Ma che non ha nulla a che fare con la "Cosa rossa", di Landini &Co. caratterizzato dalla natura protestataria. Finirebbe per fare il gioco del Partito della Nazione. Invece gli ex membri del Pd vogliono allargare le maglie della sinistra, ripercorrendo la via dell'Ulivo e partendo quindi dal cattolicesimo democratico e sociale.
Se è così, è un dovere politico e storico avviare la costruzione di una nuova forza: larga, accogliente, aperta, in grado di dare rappresentanza a un vasto elettorato di centrosinistra oggi privo di riferimenti. Una forza che recuperi una radice ulivista, nel senso della pluralità delle culture politiche che devono alimentarla, a partire da quella del cattolicesimo democratico e sociale, e della determinazione a misurarsi con la sfida del governo. Tutt’altro rispetto a una ‘Cosa rossa’ settaria, protestataria e di testimonianza, che farebbe esattamente il gioco del Partito della Nazione renziano. Nei territori il nuovo soggetto deve provare a riaprire una prospettiva progressista e di centrosinistra in tutti i luoghi in cui è concretamente possibile. Lo farà in chiara alternativa al PD nei Comuni in cui il progetto renziano di un riposizionamento verso il centrodestra viene accettato e praticato.
Sul piano nazionale la netta alternatività al PD di Renzi non è in discussione. Dobbiamo sapere però che la distanza dal PD non basterà per misurare la credibilità di un nuovo progetto. Entriamo in un’altra fase, in cui dovremo essere capaci di definire in positivo la nostra visione dell’Italia e la rotta che proponiamo. Servirà una sinistra popolare nel suo radicamento sociale, patriottica per la sua capacità di rappresentare in chiave non regressiva i bisogni profondi della nostra comunità nazionale, di governo per il segno della sua cultura politica. Bisognerà andare oltre una separazione tra riformisti e radicali che non regge più da nessuna parte del mondo e che indica solo una comune impotenza di fronte alla grandezza dei problemi posti dal capitalismo finanziario contemporaneo.
Un passaggio anche sull'Europa: serve un pensiero nuovo sull'Ue, e questo pensiero deve arrivare da sinistra. Perché bisogna andare oltre l'estabilishment finanziario che svuota le democrazie nazionali e tende la mano ad organi tecnocrati.
Abbiamo bisogno di una sinistra europeista ma con un pensiero nuovo sull’Europa: il punto di partenza, dopo quello che è accaduto in Grecia e sta accadendo in Portogallo, non può essere che la difesa della democrazia costituzionale, della sovranità popolare e della pari dignità tra i popoli europei. Ogni retorica europeista che non parta di qui è, consapevolmente o meno, funzionale ai disegni dell’estabilishment finanziario, che sfrutta la forza evocativa degli “Stati Uniti d’Europa” non per costruire una democrazia europea, ma solo per svuotare ulteriormente le democrazie nazionali, assoggettandole al controllo di organi tecnocratici.
Sul lavoro la proposta dei fuoriusciti è antitetica a quella del Pd renziano: c'è bisogno di un'inversione di rotta rispetto a quel modello basato sulla compressione dei salari e sull'afflusso di capitali dall'estero che fa il gioco delle rendite finanziarie e delle grandi imprese. E si deve superare la logica dell'uomo solo al comando che liquida i corpi intermedi, delegittimando il ruolo dei sindacati in primis.
Al centro del nuovo progetto deve esserci la rappresentanza del mondo del lavoro. Per realizzare questo obiettivo occorre costruire un’alleanza sociale dei produttori, in grado di parlare anche al lavoro autonomo e alla piccola e media impresa. Queste forze hanno bisogno di una politica economica fondata sul rilancio della domanda interna, sugli investimenti pubblici e sull’obiettivo della piena occupazione, in alternativa a un modello basato sulla compressione dei salari, sulla priorità delle esportazioni e sull’afflusso di capitali esteri in cerca di affari, che è invece funzionale alla rendita finanziaria e immobiliare e a un pezzo della grande impresa.
La centralità del lavoro impone di investire sulla qualità della democrazia, a tutti i livelli: nello Stato, negli enti locali, nei partiti. Di rifiutare la logica dell’uomo solo al comando e di credere nella risorsa della partecipazione popolare. Di puntare sul rinnovamento e non sulla liquidazione dei corpi intermedi, a partire dal sindacato. Di rilanciare un modello di formazione scolastica e universitaria saldamente ancorato alla Costituzione, che non accetti la privatizzazione del sapere e la divaricazione fra istituti di serie A e B. Di rimettere in campo una responsabilità nazionale sul Mezzogiorno, il cui abbandono è stato nell’ultimo ventennio uno dei segni più evidenti della crisi politica e morale del Paese.
L'obiettivo è di ricostruire la sinistra, "abbiamo il dovere di provarci" attraverso una nuova forma-partito. "Non sarà un cammino facile né breve", ma doveroso per "ridare voce al lavoro".
Per fare questo dobbiamo unire le forze. Quelle di chi è già uscito dal PD o lo farà nei prossimi mesi. Quelle di SEL, che si è messa con generosità al servizio di un nuovo progetto politico a partire dai gruppi parlamentari, e delle altre formazioni di sinistra. Ma soprattutto bisogna intercettare le tante energie disponibili e disperse, comprese quello di un civismo democratico e sociale.
La nascita di nuovi gruppi parlamentari della sinistra è un passo importante, che offre uno strumento istituzionale a un progetto che adesso deve crescere nei territori e dal basso. Dovremo inventare nei prossimi mesi una nuova forma-partito, che sappia coniugare tradizione e innovazione, partecipazione e decisione, pensiero e comunicazione, guardando con curiosità alle esperienze più avanzate in giro per l’Europa. Sarà un cammino non facile né breve, in cui serviranno umiltà, generosità verso il collettivo, coraggio, visione. Abbiamo il dovere di provarci. Per ricostruire la sinistra, per ridare voce al lavoro, per l’Italia.