domenica 31 ottobre 2010

UN CASO CLINICO (Psicopatologia di un ex leader)

Le ultime, amarissime, notizie che ci riserva la cronaca ci obbligano ad una pausa di riflessione e, all’occorrenza, a tentare una analisi del premier che vada al di là della consueta lagnanza circa le disdicevoli abitudini personali dell’uomo, la inopportunità di certe frequentazioni, la paralisi legislativa conseguente alla condotta del presidente. Vediamo se è possibile il tentativo di comprendere qualcosa di più dell’uomo Silvio Berlusconi, tralasciando le ovvie implicazioni politiche, naturalmente più che negative. Dalle vicende di Palazzo Grazioli, con l’andirivieni di escort prezzolate per animare i festini rosa del leader e i suoi accoliti, alla storia mai chiarita con la spregiudicata Noemi, all’attuale, scoraggiante, liason con la marocchina Ruby, fatta passare per nipote di Mubarak (leader peraltro dell’Egitto) e cavata fuori dai guai da un Berlusconi sempre più sbilanciato sulle fanciulle in fiore. Presupponendo che sia un compito arduo scandagliare la mente di chicchessia, ci appare però altrettanto lecito operare un tentativo di ipotesi di patologia di tipo mentale nel caso di un capo di governo che mostra, allo stato attuale, qualche problema di tipo psichico. Tralasciando le facili, pur verissime, battute del solito Di Pietro (“che cosa deve ancora fare questo satrapo per farlo allontanare dal governo?”) prenderemo le mosse dalla separazione con la moglie Veronica Lario. Le dichiarazioni di quest’ultima, prescindendo dalle dinamiche familiari che non ci interessano in questa sede, rivelano il profilo di una persona “malata” (sic!) con una pericolosa inclinazione per le ragazzine o, in generale, per le frequentazioni postribolari. A questo si aggiunga un profondo disprezzo per la donna, vissuta come oggetto di piacere, giudicata solo attraverso gli elementi del’età e dell’aspetto fisico, utilizzata a livello politico come ornamento docilmente arrendevole ai piani del suo pigmalione. Le successive disavventure del premier non fanno che confermare la pur sommaria diagnosi della Sig.ra Lario. Le storie dei festini a base di escort come la D’Addario (altro personaggio dal singolare squallore), la misterioso vicenda Noemi, e quest’ultima pochade con la marocchina Ruby, nota prostituta e ladra, non sono che il corollario di una personalità disturbata e a alla deriva. L’obiezione più consueta che viene mossa dai colleghi di partito di Berlusconi – sono fatti suoi, non ci riguardano -  è totalmente risibile e inconsistente. A parte che un uomo politico che fa il presidente del consiglio, seppure in una repubblica delle banane, non può prestare il fianco a ricatti che è facile associare ad analoghi fatti che coinvolsero, per esempio, Lapo Elkann o Piero Marrazzo, appare  sin troppo evidente che un uomo politico di primo piano, senza scomodare la pruderie cattolica, è tenuto, per questioni di pubblica decenza, a mantenere un contegno non dico austero, me certamente trasparente. Le obiezioni berlusconiane “Io aiuto tutti, sono di buon cuore, amo le donne, mi piace vivere così ecc.” non sono solo puerili, sono indicative di una personalità turbata, di una perdita di senso e di contatto con la realtà.
Oltre all’aspetto che interessa la vita privata, ma anche pubblica, purtroppo, del premier, ci sono alcune caratteristiche della vita politica di Berlusconi che destano non poche perplessità. Senza entrare nel merito delle scelte politiche, che non interessano in questa sede, c’è un desiderio di comando assoluto, di conduzione del partito secondo criteri aziendalistici, la preoccupazione non già di predisporre un delfino, un esponente al quale lasciare il testimone, ma viceversa la convinzione della propria sostanziale “insostituibilità”, del fatto che nessuno sia in grado di raccogliere la sua eredità, una sorta di “dopo di me, il diluvio”. L’economia stessa del partito, il suo grottesco statuto, che sostiene, tra l’altro, che i dirigenti locali sono eletti dai delegati, ma possono essere modificati o annullati da Berlusconi stesso, a suo insindacabile giudizio, tutto va nella direzione del tentativo di creazione del mito del “lider maximo”. Il dittatore eterno della Corea del Nord, padre di quello attuale, il caso di Castro a Cuba, sopravissuto a se stesso e ridotto ormai ad una specie di simulacro, costituiscono esempi analoghi. Il Parlamento vissuto come una inutile pastoia, un intralcio al lavoro del capo, che ha già nella sua mente il disegno finale, le tanto celebrate “leggi ad personam”, siano esse processo breve, legittimo impedimento, immunità retroattiva e quant’altro, tutto concorre alla generazione di un uomo-mito, al di sopra delle leggi e delle consuetudini di questo mondo, al di là della giustizia terrena, del bene e del male, verrebbe da dire, secondo uno dei motti del ventennio “Dopo Dio viene Lui”. Ed in effetti le personalità di Mussolini e di Berlusconi presentano non poche analogie. Almeno, peraltro, Mussolini non si circondava di nani e ballerine, soprattutto non affidava loro incarichi di governo. Ma per tornare alla nostra disamina, un altro elemento che riteniamo sia bene sottolineare è la perfetta buona fede dell’uomo. Con questo intendiamo che Berlusconi non sia pienamente consapevole dello spaventoso, macroscopico conflitto di interessi di cui è protagonista (l’uomo più ricco d’Italia ne è anche il leader politico, la maggior parte dei media sono nelle sue mani o della sua famiglia, roba da repubblica africana), ne sembra anzi sinceramente stupefatto, mostra un genuino e disarmante candore quando qualcuno gli fa notare che una repubblica occidentale non è un sultanato come l’Oman, e che nessuno può permettersi di sentirsi al di sopra delle istituzioni. E’ lo stesso stupore che mostra il bambino quando gli viene sottratto il giocattolo perché è ora di coricarsi, e l’infante vive questa privazione come una solenne ingiustizia. Questa morgana dell’”uomo della Provvidenza”, del salvatore delle sorti del proprio paese segna un altro punto importante nella scia del discorso poc’anzi accennato della perdita di contatto con il mondo reale. Un’ulteriore analogia con il caso di Mussolini è da ricercarsi nella solitudine del leader, voluta o subita. C’è subito da rilevare che nel caso del duce non era presente un’eminenza grigia, un burattinaio del calibro di Gianni Letta, grande mediatore, grande smussature delle asperità e delle intemperanze di Berlusconi, un filtro senza il quale la personalità abnorme del cavaliere dilagherebbe senza più freni. Mussolini, nel suo isolamento, era veramente solo: non si fidava più di nessuno, si abbandonava a soliloqui a tratti deliranti, motivati dalla ripugnante piaggeria dei suoi collaboratori, ridotti a lacchè pronti a dar sempre ragione al duce. Letta spezza questa solitudine del cavaliere, distogliendolo dalla tentazione di circondarsi unicamente di cortigiani buoni solo ad assentire in cambio di posizioni di favore, per se stessi e per i loro cari. In ogni caso,  e nonostante la funzione sedativa di Letta, l’uomo tende ad isolarsi e a ripiegarsi sempre più in se stesso, a circondarsi da una corte di ruffiani e megere funzionali ai suoi gusti sempre più ordinari e grossolani. Ma l’età, certo, non l’aiuta, a 74 anni le emozioni devono essere sempre più forti e stimolanti, e le figure inquietanti di coloro che gli procacciano quello di cui abbisogna si colorano sempre più delle tinte dei lenoni e delle mezzane. Anche in questo caso, come appare chiaro a tutti, la perdita di contatto con la realtà si divarica sempre di più. I lacchè del premier organizzano bagni di folla fasulli, che ricordano da vicino il ricorso alla cartolina rossa di convocazione in piazza Venezia dal cui celebre balcone il duce pronunciava i suoi memorabili discorsi. L’uomo non si cura del fatto che le folle acclamanti sono organizzate e radunate dai suoi cortigiani: gli basta l’illusione del bagno salutare, appare sorridente e quasi benedicente, un deus ex machina venuto dal cielo a salvare la patria dai vampiri del comunismo.
La conclusione rimane, ovviamente aperta, non si pretende certo, in questa sede, di pronunciare una diagnosi che spetterebbe comunque ad un esperto del caso, ma gli elementi radunati in questo quindicennio, sono sufficienti ad abbozzare un giudizio non lontano dalla realtà. Abbiamo visto le analogie, ma anche le differenze con il dittatore del ventennio: è palese la componente populista del cavaliere, il facile accostamento al peronismo, dal quale lo distanziano, parimenti, le continue cadute di livello, di costume, gli invischiamenti in scandali con squallide sciacquette di provincia, l’immobilismo politico. Approfondendo per un attimo quest’ultima componente, inizia a trapelare l’elemento depressivo del cavaliere, proprio di questi ultimi tempi. Il continuo scivolamento nelle note meschine vicende sessuali, il totale immobilismo del ministro dell’Economia (in realtà ministro del Bilancio, dal momento che ha deciso la politica attendistica di chi aspetta che passi la nottata), il freddo distacco della Lega, che lo considera al massimo un “utile idiota”, mal celando un profondo disprezzo, utilizzandolo strumentalmente e unicamente per il perseguimento dei propri fini secessionistici, la sensazione sempre più netta che molti di coloro che ha miracolato gli voltano le spalle, gli mostrano ingratitudine, la spaccatura profonda e insanabile con il gruppo dei finiani, da lui vissuto non, realisticamente, come un sussulto d’orgoglio da parte di uomini politici che si sono stancati di non governare il paese per seguitare ad impegnare il Parlamento per le sue questioni personali, ma, viceversa, come l’alto tradimento di ex compagni di strada che non lo hanno capito e si sono fatti abbacinare dalle sirene del comunismo, hanno inquinato i loro fluidi vitali con i veleni della magistratura. E a proposito di magistratura, è da registrare ancora una volta la perfetta buona fede di quest’uomo, che, considerandosi una sorta di sultano, di monarca salvatore delle sorti dell’Italia, pensa sinceramente che nonostante talune marachelle che costellano il suo passato, è talmente grande quanto egli sta tributando all’Italia, che si tratta di quisquilie trascurabili, non degne di menzione, frutto unicamente del livore e dell’invidia incarognita di magistrati frustrati e strumentalizzati dai suoi nemici personali. Tutto ciò contribuisce a creare nell’uomo uno stato di abbandono melanconico, di chiusura potenzialmente depressiva, che lo fa, come già ribadito, allontanare ancor più dalle realtà delle cose e delle persone.
Detto questo, senza nessuna implicazione politica o ideologica, che prescinde da questo discorso, la conclusione non può deporre che per una personalità di tipo francamente paranoico (si pensi al delirio di grandezza e a quello persecutorio), nel quadro di una personalità nevrotica con spunti compulsivo – ossessivi, ma che in questi ultimi tempi, sta pericolosamente virando verso un vero e proprio disturbo della personalità, il disturbo bipolare, nell’ambito del quale, dopo una fase maniacale contraddistinta da iperattività ed ipercinesi, segue una fase malinconica di chiusura al mondo nella convinzione di essere circondati da ingrati, traditori, persecutori avidi e malvagi. Nella sostanza, al di là delle etichette nosologiche, trapela chiaramente, per chi abbia una qualche nozione di psichiatria, la difficoltà sempre maggiore da parte del cavaliere di nascondere il suo reale stato di salute mentale, e la profonda verità, preannunciata molti mesi fa da Veronica Lario, che ci troviamo di fronte ad una persona malata. Persona malata che, come la maggior parte dei sofferenti psichici che non siano affetti da una sintomatologia invalidante, credono, invertendo i termini della realtà, che i malati sono gli altri, e i savi sono rimasti solo loro. Dubito, conseguentemente, che il presidente si metta nelle condizioni di essere aiutato, continuerà così, caduta dopo caduta, questa folle corsa verso l’annientamento o la sconfitta, politica ed umana. Il problema, purtroppo, è che di questa triste parabola gli italiani non saranno i soli testimoni, il problema è che ne saranno anche le vittime. E questo processo, si badi bene, non si può arrestare, si può solo prevedere. 

31 ottobre 2010                              Roberto Tacchino

venerdì 29 ottobre 2010

LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO

Hanno destato non poche perplessità, e in molti casi non pochi entusiasmi, le ultime dichiarazioni dello stravagante ministro Brunetta circa la soluzione – geniale – da lui escogitata per far girare come una macchina perfettamente oliata la Pubblica amministrazione. Eppure, è strano, non averci pensato prima, la soluzione era così a portata di mano…Che sciocchi siamo stati, che stolti, ci siamo illusi di trovare soluzioni complesse e articolate, abbiamo cercato le risposte più astruse, quando la realtà era così semplice ed evidente. Ciechi, stolti e ciechi, comunisti, fannulloni, scansafatiche, oziosi di sinistra pieni di pregiudizi nei confronti del prossimo premio Nobel (come si vedrà di seguito) per … già, per cosa? Per la pace, per l’economia o che altro? Vedremo. La risposta ci è stata servita dal ministro su di un vassoio d’argento. Semplice e geniale. 300.000 posti di lavoro in meno nella pubblica amministrazione entro il 2013. Blocco del turn over. E, allo stesso tempo, miglioramento, anzi, incremento, dell’efficienza e dell’efficacia (due parole prive di senso sempre associate dai burocrati incolti della pubblica amministrazione). Ora, non è semplice trovare una relazione tra un taglio di 300.000 posti di lavoro ed un incremento dell’efficienza della macchina amministrativa. Eppure il ministro Brunetta l’ha trovata. Tutti, anche i più sprovveduti, sanno che in un posto di lavoro dove le stesse mansioni che prima erano svolte da tre persone e adesso devono essere disbrigate da una sola, si crea una situazione di tensione, di stress, di demotivazione. Ma nella testa di questo signore deve  albergare un’idea che rasenta il grottesco. I 300.000 dipendenti che saranno tagliati semplicemente perché andranno in pensione senza essere sostituiti, sono il peggio del peggio che si possa immaginare. Dopo questa scrematura, i rimanenti dipendenti, tutti dotati di super poteri, saranno in grado di rendere la P.A. più “efficiente ed efficace”. Ma come facciamo ad essere così sicuri che solo i fannulloni nullafacenti andranno in pensione? Come facciamo ad essere certi che i rimanenti in servizio siano dei geni pieni di entusiasmo e di voglia di primeggiare? Il ministro ha una risposta anche per questo. La componente accessoria dello stipendio di un pubblico dipendente sarà esclusivamente correlata al suo grado di produttività. Ora, come si misura questo tasso di produttività, con quali criteri con quali parametri? Questo ancora non è chiaro. Prendiamo il caso della scuola. Sarà il dirigente scolastico a giudicare. Sarà realmente imparziale? Riuscirà ad essere veramente oggettivo, proprio nel paese dei favoritismi e dei nepotismi? Ne dubito fortemente. Al di là dell’ironia, è palese per tutti che il tentativo (assai goffo, per la verità) di questo triste ministro è puramente velleitario. L’unica innovazione che i ministri di questo governo, da Sacconi alla Gelmini, fino a Brunetta, hanno saputo apportare sono i dettati, parola per parola, dal ministro del Bilancio Tremonti (non chiamatelo, per carità, del’Economia, l’economia è ben altra cosa). Brunetta ha fatto la cosa più semplice, più brutale, più demagogica che si potesse immaginare. Ha promesso di tagliare 300.000 posti in tre anni (corrispondenti ai pensionamenti preventivati) a fronte di un miglioramento dell’erogazione delle prestazioni al cittadino da parte della P.A. E’ ridicolo, se non fosse drammatico. Ma da dove è scaturito questo signore, chi l’ha fatto ministro, come nasce questo indefesso fustigatore dei costumi, questo Seneca della funzione pubblica, il terrore degli assenteisti e dei fannulloni, questo Diogene stoico dalla vita sobria, frugale e austera (giusto per dare il buon esempio)? Di seguito riporto la vera storia del ministro Brunetta, una triste, amara storia, che è poi la tragedia di un uomo ridicolo, che solo un uomo profondamente “malato” come Berlusconi, come riportano le cronache di questi giorni, poteva collocare al ministero della Pubblica amministrazione. Un’ultima annotazione: non prendete mai sul serio le percentuali dell’assenteismo rese note dal signore in questione: sono completamente fasulle. Con i numeri (e Berlusconi ce lo ha insegnato) si può giocare come si vuole. Parlando ancora di scuola, tre persone nella segreteria di un istituto Comprensivo (comprendente cioè scuola d’infanzia, elementare e media) non possono che essere stressati, irritabili, ansiosi. Per spezzare la tensione, o per cercar di evitare una delle sindromi aziendali di recente descrizione, quella del “burn out”, insomma per non “bruciarsi”, si rifugiano nelle ferie o nella malattia. Le percentuali “reali” della malattia nella pubblica amministrazione è esattamente opposta a quella denunciata dal ministro. C’è viceversa stata, nonostante la decurtazione dello stipendio a motivo della salute (provvedimento certamente incostituzionale, ma Napolitano che fa?) un incremento del ricorso alla malattia da parte del pubblico dipendente. A dispetto delle fasce orarie di reperibilità, che nel privato rimangono di quattro ore al giorno e nel pubblico sono state portate a sette ore al giorno (altro provvedimento palesemente incostituzionale). Il Ministero della Pubblica amministrazione non può essere affidato ad un dilettante allo sbaraglio. Ci vorrebbe una persona seria, capace di azioni serie e giustificate, che non sia solo capace di tagliare fingendo di ignorare che i danni alla pubblica amministrazione non sono da addebitare ai cosiddetti fannulloni, ma ai boiardi di stato, ai “papaveri”, ai dirigenti pubblici che hanno solo dimostrato altissime capacità nelle arti della corruzione e della concussione. Non so se andremo a votare la prossima primavera: non me lo auguro per le conseguenze, inevitabili, sui mercati finanziari ed in economia. L’unico elemento positivo di una nuova consultazione elettorale è che ci darebbe la possibilità di mandare a casa alcuni nani e ballerini di questa bislacca compagine governativa: Carfagna, Brambilla, Prestigiacomo, Brunetta, Bondi, Gelmini, Fazio, Melloni ecc. E’ sbalorditivo che una simile accozzaglia abbia finto di governare il paese fino ad oggi.

Ma vediamo la “vera storia” del ministro in questione, vediamo da dove proviene questo Solone della Repubblica: 

di Emiliano Fittipaldi e Marco Lillo
La trasferta a Teramo per diventare professore. La casa con sconto dall'ente. Il rudere che si muta in villa. Le assenze in Europa e al Comune. Ecco la vera storia del ministro anti-fannulloni
La prima immagine di Renato Brunetta impressa nella memoria di un suo collega è quella di un giovane docente inginocchiato tra i cespugli del giardino dell'università a fare razzia di lumache. Lì per lì i professori non ci fecero caso, ma quella sera, invitati a cena a casa sua, quando Brunetta servì la zuppa, saltarono sulla sedia riconoscendo i molluschi a bagnomaria. Che serata. La vera sorpresa doveva ancora arrivare. Sul più bello lo chef si alzò in piedi e, senza un minimo di ironia, annunciò solennemente: "Entro dieci anni vinco il Nobel. Male che vada, sarò ministro". Eravamo a metà dei ruggenti anni '80, Brunetta era solo un professore associato e un consulente del ministro Gianni De Michelis.

Ci ha messo 13 anni in più, ma alla fine l'ex venditore ambulante di gondolette di plastica è stato di parola. In soli sette mesi di governo è diventato la star più splendente dell'esecutivo Berlusconi. La guerra ai fannulloni conquista da mesi i titoli dei telegiornali. I sondaggi lo incoronano - parole sue - 'Lorella Cuccarini' del governo, il più amato dagli italiani. Brunetta nella caccia alle streghe contro i dipendenti pubblici non conosce pietà. Ha ristretto il regime dei permessi per i parenti dei disabili, sogna i tornelli per controllare i magistrati nullafacenti e ha falciato i contratti a termine. Dagli altri pretende rigore, meritocrazia e stakanovismo, odia i furbi e gli sprechi di denaro pubblico, ma il suo curriculum non sempre brilla per coerenza. A 'L'espresso' risulta che i dati sulle presenze e le sue attività al Parlamento europeo non ne fanno un deputato modello. Anche la carriera accademica non è certo all'altezza di un Nobel. Ma c'è un settore nel quale l'ex consigliere di Bettino Craxi e Giuliano Amato ha dimostrato di essere davvero un guru dell'economia: la ricerca di immobili a basso costo, dove ha messo a segno affari impossibili per i comuni mortali.

Chi l'ha visto Appena venticinquenne, Brunetta entra nel dorato mondo dei consulenti (di cui oggi critica l'abuso). Viene nominato dall'allora ministro Gianni De Michelis coordinatore della commissione sul lavoro e stende un piano di riforma basato sulla flessibilità che gli costa l'odio delle Brigate rosse e lo costringe a una vita sotto scorta. Poi diventa consigliere del Cnel, in area socialista. Nel 1993, durante Mani Pulite firma la proposta di rinnovamento del Psi di Gino Giugni. Nel 1995 entra nella squadra che scrive il programma di Forza Italia e nel 1999 entra nel Parlamento europeo.

Proprio a Strasburgo, se avessero applicato la 'legge dei tornelli' invocata dal ministro, il professore non avrebbe fatto certo una bella figura. Secondo i calcoli fatti da 'L'espresso', in dieci anni è andato in seduta plenaria poco più di una volta su due. Per la precisione la frequenza tocca il 57,9 per cento. Con questi standard un impiegato (che non guadagna 12 mila euro al mese) potrebbe restare a casa 150 giorni l'anno. Ferie escluse. Lo stesso ministro ha ammesso in due lettere le sue performance: nella legislatura 1999-2004 ha varcato i cancelli solo 166 volte, pari al 53,7 per cento delle sedute totali. "Quasi nessun parlamentare va sotto il 50, perché in tal caso l'indennità per le spese generali viene dimezzata", spiegano i funzionari di Strasburgo. Nello stesso periodo il collega Giacomo Santini, Pdl, sfiorava il 98 per cento delle presenze, il leghista Mario Borghezio viaggiava sopra l'80 per cento. Il trend di Brunetta migliora nella seconda legislatura, quando prima di lasciare l'incarico per fare il ministro firma l'elenco (parole sue) 148 volte su 221. Molto meno comunque di altri colleghi di Forza Italia: nello stesso periodo Gabriele Albertini è presente 171 volte, Alfredo Antoniozzi e Francesco Musotto 164, Tajani, in veste di capogruppo, 203.

La produttività degli europarlamentari si misura dalle attività. In aula e in commissione. Anche in questo caso Brunetta non sembra primeggiare: in dieci anni ha compilato solo due relazioni, i cosiddetti rapporti di indirizzo, uno dei termometri principali per valutare l'efficienza degli eletti a Strasburgo. L'ultima è del 2000: nei successivi otto anni il carnet del ministro è desolatamente vuoto, fatta eccezione per le interrogazioni scritte, che sono - a detta di tutti - prassi assai poco impegnativa. Lui ne ha fatte 78. Un confronto? Il deputato Gianni Pittella, Pd, ne ha presentate 126. Non solo. Su 530 sedute totali, Brunetta si è alzato dalla sedia per illustrare interrogazioni orali solo 12 volte, mentre gli interventi in plenaria (dal 2004 al 2008) si contano su due mani. L'ultimo è del dicembre 2006, in cui prende la parola per "denunciare l'atteggiamento scortese e francamente anche violento" degli agenti di sicurezza: pare non lo volessero far entrare. Persino gli odiati politici comunisti, che secondo Brunetta "non hanno mai lavorato in vita loro", a Bruxelles faticano molto più di lui: nell'ultima legislatura il no global Vittorio Agnoletto e il rifondarolo Francesco Musacchio hanno percentuali di presenza record, tra il 90 e il 100 per cento.
Se la partecipazione ai lavori d'aula non è da seguace di Stakanov, neanche in commissione Brunetta appare troppo indaffarato. L'economista sul suo sito personale ci fa sapere che, da vicepresidente della commissione Industria, tra il 1999 e il 2001 ha partecipato alle riunioni solo la metà delle volte, mentre nel biennio 2002-2003, da membro titolare della delicata commissione per i Problemi economici e monetari, si è fatto vedere una volta su tre. Strasburgo è lontana dall'amata Venezia, ma non si tratta di un problema di distanza. A Ca' Loredan, nel municipio dove è stato consigliere comunale e capo dell'opposizione dal 2000 al 2005, il nemico dei fannulloni detiene il record. Su 208 sedute si è fatto vedere solo in 87 occasioni: quattro presenze su dieci, il peggiore fra tutti i 47 consiglieri veneziani.

Il bello del mattone
LA MAPPA DELLE PROPRIETA' DI BRUNETTA
Brunetta spendeva invece molto tempo libero per mettere a segno gli affari immobiliari della sua vita. Oggi il ministro possiede un patrimonio composto da sei immobili (due ereditati a metà con il fratello) sparsi tra Venezia, Roma, Ravello e l'Umbria, per un valore di svariati milioni di euro. "Mi piacciono le case e le ho pagate con i mutui", ha sempre detto. Effettivamente per comprare e ristrutturare la magione di 420 metri quadrati con terreno e piscina in Umbria, a Monte Castello di Vibio, vicino a Todi, Brunetta ha contratto un mutuo di 600 milioni di vecchie lire del 1993. Ma per acquistare la casa di Roma e quella di Ravello, visti i prezzi ribassati, non ne ha avuto bisogno. Cominciamo da quella di Roma. Alla fine degli anni Ottanta il rampante professore aveva bisogno di un alloggio nella capitale, dove soggiornava sempre più spesso per la sua attività politica. Un comune mortale sarebbe stato costretto a rivolgersi a un'agenzia immobiliare pagando le stratosferiche pigioni di mercato. Brunetta no.
Come tanti privilegiati, riesce a ottenere un appartamento dall'Inpdai, l'ente pubblico che dovrebbe sfruttare al meglio il suo patrimonio immobiliare per garantire le pensioni ai dirigenti delle aziende. Invece, in quel tempo, come 'L'espresso' ha raccontato nell'inchiesta 'Casa nostra' del 2007, gli appartamenti più belli finivano ai soliti noti. Brunetta incluso. Un affitto che in quegli anni era un sogno per tutti i romani, persino per i dirigenti iscritti all'Inpdai ai quali sarebbe spettato. Lo racconta Tommaso Pomponi, un ex dirigente della Rai ora in pensione, che ha presentato domanda alla fine degli anni Ottanta: "Nonostante fossi stato sfrattato, non ottenni nessuna risposta. Contattai presidente e direttore generale, scrissi lettere di protesta, inutilmente". Pomponi ha pagato per anni due milioni di lire di affitto e poi ha comprato a prezzi di mercato, come tutti. Il ministro, invece, dopo essere stato inquilino per più di 15 anni con canone che non ha mai superato i 350 euro al mese, ha consolidato il suo privilegio rendendolo perpetuo: nel novembre 2005 il patrimonio degli enti infatti è stato ceduto. Brunetta compra insieme agli altri inquilini ottenendo uno sconto superiore al 40 per cento sul valore di stima. Alla fine il prezzo spuntato dal grande moralizzatore del pubblico impiego è di 113 mila euro, per una casa di 4 vani catastali, situata in uno dei punti più belli di Roma. Si tratta di un quarto piano con due graziosi balconcini e una veranda in legno. Brunetta vede le rovine di Roma e il parco dell'Appia antica. Un appartamento simile a quello del ministro vale circa mezzo milione di euro: con i suoi 113 mila euro l'economista avrebbe potuto acquistare un box.
GUARDA LO SFOGLIO: I documenti dell'acquisto della casa Inpdai

Un tuffo in Costiera Anche il buen retiro di Ravello è stato un affare immobiliare da Guinness. Brunetta, che si autodefinisce "un genio", diventa improvvisamente modesto quando passa in rassegna i suoi possedimenti campani. "Una proprietà scoscesa", ha definito questa splendida villa di 210 metri quadrati catastali immersa in 600 metri di giardino e frutteto. Seduto nel suo patio il ministro abbraccia con lo sguardo il blu e il verde, Ravello e Minori.
Per comprare i ruderi che ha poi ristrutturato ha speso 65 mila euro tra il 2003 e il 2005. "Quanto?", dice incredula Erminia Sammarco, titolare dell'agenzia immobiliare Tecnocasa di Amalfi: "Mi sembra impossibile: a quel prezzo un mio cliente ha venduto una stalla con un porcile". Oggi un rudere di 50 metri quadri costa circa 350 mila euro, e una villa simile a quella dell'economista supera di gran lunga il milione di euro. Il ministro ha certamente speso molto per la pregevole ristrutturazione, tanto che ha preso un mutuo da 300 mila euro poco dopo l'acquisto del 2003 che finirà di pagare nel 2018, ma ha indubbiamente moltiplicato l'investimento iniziale.

Ma come si fa a trasformare una catapecchia senza valore in una villa di pregio? 'L'espresso' ha consultato il catasto e gli atti pubblici scoprendo così che Brunetta ha comprato due proprietà distinte per complessivi sette vani catastali, affidando i lavori di restauro alla migliore ditta del luogo. Dopo la cura Brunetta, al posto dei ruderi si materializza una villetta su tre livelli su 172 metri quadrati più dépendance, rifiniture in pietra e sauna in costruzione. Per il catasto, invece, l'alloggio passa da civile a popolare. In compenso, i sette vani sono diventati 12 e mezzo. Come è stata possibile questa lievitazione? "Diversa distribuzione degli spazi interni", dicono le carte. La signora Lidia Carotenuto, che fino al 2002 era proprietaria del piano inferiore, ricorda con un po' di malinconia: "La mia casa era composta di due stanzette, al massimo saranno stati 40 metri quadrati e sopra c'era un altro appartamento (che misurava 80 metri catastali, ndr) in rovina. So che ora il Comune di Ravello sta costruendo una strada che passerà vicino all'abitazione del ministro. Io non avrei venduto nulla se l'avessero fatta prima...". A rappresentare Brunetta nell'atto di acquisto della dépendance nel 2005 è stato il geometra Nicola Fiore, che aveva seguito in precedenza anche le pratiche urbanistiche. Fiore era all'epoca assessore al Bilancio del comune, guidato dal sindaco Secondo Amalfitano, del Partito democratico. I rapporti con il primo cittadino è ottimo: Brunetta entra nella Fondazione Ravello. E quest'anno, dopo le elezioni, Amalfitano fa il salto della barricata, entra nel Pdl e lascia la Costiera per Roma dove viene nominato suo consigliere ministeriale.

Il Nobel mancato "Io sono un professore di economia del lavoro, l'ho guadagnato con le unghie e con i denti. Sono uno dei più bravi d'Italia, forse d'Europa", ha spiegato Brunetta ad Alain Elkann, che di rimbalzo lo ha definito "un maestro della pasta e fagioli" prima di chiedergli la ricetta del piatto. L'economista Ada Becchi Collidà, che ha lavorato nello stesso dipartimento per otto anni, dice senza giri di parole che "Renato non è uno studioso. È prevalentemente un organizzatore, che sa dare il meglio di sé quando deve mettere insieme risorse". Alla facoltà di Architettura di Venezia entra nel 1982, dopo aver guadagnato l'idoneità a professore associato in economia l'anno precedente. Come ha ricordato in Parlamento il deputato democratico Giovanni Bachelet, Brunetta non diventa professore con un vero concorso, ma approfitta di una "grande sanatoria" per i precari che gravitavano nell'università. Una definizione contestata dal ministro, che replica: avevo già tutti i titoli.

In cattedra Secondo il curriculum pubblicato sul sito dell'ateneo di Tor Vergata (dove insegna dal 1991), al tempo il giovane Brunetta poteva vantare poche pubblicazioni: una monografia di 500 pagine e due saggi. Il primo era composto di dieci pagine ed era scritto a sei mani, il secondo era un pezzo sulla riduzione dell'orario edito da 'Economia&Lavoro', la rivista della Fondazione Brodolini, di area socialista, che Brunetta stesso andrà a dirigere nel 1980. Tutto qui? Nel mondo della ricerca esistono diverse banche dati per valutare il lavoro di uno studioso. Oggi Brunetta si trova in buona posizione su quella Econlit, che misura il numero delle pubblicazioni rilevanti: 30, più della media dei suoi colleghi. La musica cambia se si guarda l'indice Isi-Thompson, quello che calcola le citazioni che un autore ha ottenuto in lavori successivi: una misura indiretta e certo non infallibile della qualità di una pubblicazione, ma che permette di farsi un'idea sull'importanza di un docente. L'indice di citazioni di Brunetta è fermo sullo zero.
Le valutazioni degli indicatori sono discutibili, ma di sicuro il mondo accademico non lo ha mai amato: "L'università ha sempre visto in lui il politico, non lo scienziato", ricorda l'ex rettore dello Iuav di Venezia, Marino Folin. Nel 1991, da professore associato, riesce a trasferirsi all'Università di Tor Vergata. In attesa del Nobel, tenta almeno di diventare professore ordinario partecipando al concorso nazionale del 1992. In un primo momento viene inserito tra i 17 vincitori. Ma un commissario, Bruno Sitzia, rimette tutto in discussione. Scrive una lettera e, senza riferirsi a Brunetta, denuncia la lottizzazione e la poca trasparenza dei criteri di selezione. "Si discusse anche di Brunetta, e ci furono delle obiezioni", ricorda un commissario che chiede l'anonimato: "La situazione era curiosa: la maggioranza del collegio era favorevole a includere l'attuale ministro, ma non per i suoi meriti, bensì perché era stato trovato l'accordo che faceva contenti tutti. Comunque c'erano candidati peggiori di lui". Il braccio di ferro durò mesi, poi il presidente si dimise. E la nuova commissione escluse Brunetta. Il professore 'migliore d'Europa' viene bocciato. Un'umiliazione insopportabile. Così fa ricorso al Tar, che gli dà torto. Poi si appella al Consiglio di Stato, ma poco prima della decisione si ritira in buon ordine. Nel 1999 era riuscito infatti a trovare una strada per salire sulla cattedra. Un lungo giro che valica l'Appennino e si arrampica alle pendici del Gran Sasso, ma che si rivela proficuo. È a Teramo che ottiene infine il riconoscimento: l'alfiere della meritocrazia, bocciato al concorso nazionale, riesce a conquistare il titolo di ordinario grazie all'introduzione dei più facili concorsi locali. Nel 1999 partecipa al bando di Teramo, la terza università d'Abruzzo. Il posto è uno solo ma vengono designati tre vincitori. La cattedra va al candidato del luogo ma anche gli altri due ottengono 'l'idoneità'. Brunetta è uno dei due e torna a Tor Vergata con la promozione. Un'ultima nota. A leggere le carte del concorso, fino al 2000 Brunetta "è professore associato a Tor Vergata". La stranezza è che il curriculum ufficiale - pubblicato sul sito della facoltà del ministro - lo definisce "professore ordinario dal 1996". Quattro anni prima: errore materiale o un nuovo eccesso di ego del Nobel mancato?

Hanno collaborato Michele Cinque e Alberto Vitucci (fonte: “L’Espresso”)


venerdì 22 ottobre 2010

L'ILLUSIONE OMEOPATICA


Pubblico questo contributo sulla cosiddetta "medicina omeopatica" ritenendolo completo, esaustivo e, soprattutto, scientificamente ineccepibile.

Per comprendere appieno il significato e il ruolo che l'omeopatia ha avuto nella storia del pensiero medico, è indispensabile collocarne correttamente l'origine nel contesto storico del tempo in cui nacque.
La dottrina omeopatica
Dopo che l'opera di G.B. Morgagni (1682-1771) e quella di Albrecht von Haller (1708-1777) avevano rispettivamente dato vita all'anatomia patologica ed alla fisiologia moderna, la medicina clinica, nella seconda metà del XVIII secolo e nella prima metà del XIX, andò incontro ad un periodo di crisi profonda. Nel tentativo di liberarsi dai lacci del pensiero galenico e di promuovere una pratica medica che tenesse conto delle norme del pensiero scientifico, durante questo periodo in molti Paesi europei vennero concepite diverse nuove dottrine mediche.
Queste erano in genere basate su poche idee molto semplici e schematiche, che riuscivano facilmente a dare ragione della immensa varietà dei fenomeni morbosi; tali idee erano peraltro estremamente rigide, al punto da rendere del tutto immodificabili le dottrine che su di esse si fondavano. I "sistemi" medici - questo fu il nome con il quale le nuove dottrine vennero chiamate - si diffusero rapidamente in tutti i Paesi d'Europa ed ebbero un enorme successo negli ultimi decenni del '700 e nella prima metà dell'800: il brownismo in Inghilterra, il mesmerismo in Francia, la dottrina del controstimolo di Rasori in Italia e, appunto, l'omeopatia in Germania e in Francia.
L'omeopatia, quindi, non è nient'altro che uno dei tanti "sistemi" medici che, nella prima metà del secolo scorso, si diffusero in tutta Europa.
Essa fu ideata da un medico sassone, Samuel Hahnemann (1755-1843) che operava a Lipsia. Hahnemann, nel 1790, sulla base di alcune osservazioni occasionali, ritenne di aver scoperto una nuova legge terapeutica, prima di allora sfuggita a tutti. Hahnemann partì dalla constatazione secondo la quale i vari farmaci, quando vengono assunti alle dosi abituali, provocano certi specifici disturbi nei soggetti sani e credette di aver scoperto che ogni singolo farmaco era in grado di guarire proprio quei malati la cui sintomatologia era simile o identica alla sintomatologia provocata dal farmaco stesso.
In altre parole, secondo il medico sassone, i farmaci guariscono proprio quelle malattie che sono caratterizzate da disturbi "simili" a quelli che il farmaco di per se stesso provoca ("similia similibus curantur"). Alla propria dottrina, basata sul principio dei simili, Hahnemann diede il nome di "omeopatia" e riservò invece il nome di "allopatia" alla pratica medica, in quel tempo dominante, secondo la quale in una certa malattia dovevano essere usati quei farmaci o quei provvedimenti che avevano un effetto contrario ai sintomi della malattia in atto. Così, per esemplificare, di fronte ad una febbre, mentre un medico allopatico prescriveva un antipiretico, un hahnemanniano consigliava un farmaco che provocava il fenomeno febbrile.
Per evitare probabilmente il peggioramento sintomatologico che i farmaci omeopatici producevano, Hahnemann ridusse progressivamente la posologia dei medicamenti fino ad usare dosi estrema mente basse. In tal modo al "principio dei simili" ne aggiunse presto un secondo, che viene chiamato "delle diluizioni infinitesimali". Ritenendo di aver scoperto e provato che l'azione dei medicamenti, invece di ridursi, aumentava progressivamente con il diminuire della dose, egli stabilì che i farmaci dovevano essere somministrati ai pazienti in dosi piccolissime (dette, appunto, infinitesimali) e dettò anche le norme per la preparazione dei medicamenti omeopatici. Secondo tali norme il farmaco inizialmente viene triturato e 1 grammo della sostanza viene disciolto in 10 o in 100 ml di acqua o di alcool etilico; successivamente si preleva 1 ml di questa soluzione iniziale (soluzione madre) e lo si diluisce in 10 o in 100 ml di acqua o di alcool, ottenendo rispettivamente la prima diluizione decimale o centesimale. Da questa soluzione si preleva ancora 1ml e lo si diluisce in altri 10 o 100 ml del solvente (seconda diluizione decimale o centesimale); si continua così a diluire progressivamente il farmaco fino alla 10ª, 15ª, 20ª, 50ª, 200ª diluizione.
Infine, ai due principi precedenti Hahnemann ne aggiunse un terzo, che chiamò della "dinamizzazione". Secondo questa regola, ad ogni diluizione del medicamento la soluzione doveva essere agitata manualmente per imprimerle una serie di succussioni, destinate a "dinamizzare" o a "potentizzare" il rimedio, cio ad accrescerne enormemente le capacità terapeutiche.
Per quanto questi tre principi vengano comunemente ritenuti i fondamenti dell'omeopatia, in realtà la dottrina concepita da Hahnemann è costituita da numerosi altri concetti strettamente interconnessi fra loro, che ne rappresentano la fisiologia, la patologia e la clinica.
Trattando del funzionamento dell'organismo umano, Hahnemann, nella sua opera principale, non fa parola della circolazione del sangue e delle altre conoscenze che la Fisiologia del suo tempo già possedeva, ma sostiene che l'organismo umano agisce in quanto animato da "una energia vitale immateriale" che informa di sè tutte le parti dell'organismo. Così, per il medico omeopatico, lo stato di salute è quello stato in cui «la forza vitale - vivificatrice e misteriosa - domina in modo assoluto e dinamico il corpo materiale e tiene tutte le sue parti in meravigliosa vita armonica di sensi e di attività» (par. 9). All'opposto, «la malattia è uno stato in cui è perturbata questa "forza vitale"- indipendente e presente ovunque nell'organismo ed immateriale - dall'azione di qualche agente patogeno» (par. 11).
Quanto alle malattie realmente esistenti, Hahnemann, dopo aver rifiutato la nosografia che in quegli anni andava faticosamente costituendosi, le ridusse sostanzialmente a tre tipi: la psora, la sicosi e la lue. La psora costituisce la forma morbosa più diffusa e più grave che «si manifesta con un'eruzione caratteristica, a volte consistente in un'eruzione della pelle limitata ad alcuni punti, con prurito voluttuoso, insopportabile e di odore caratteristico». Secondo la dottrina omeopatica «la psora è la causa fondamentale vera determinante di quasi tutte le altre forme morbose frequenti ed innumerevoli, che figurano in patologia come entità proprie, chiuse, che vanno sotto il nome di nevrastenia, mania, melanconia, epilessia, convulsioni di ogni specie, scrofola, scoliosi e cifosi, cancro, varici, gotta, emorroidi, itterizia, cianosi, idropisia, amenorrea, emorragia gastrica, nasale, polmonare, emicrania, sordità, calcolosi renale ecc.».
Semplificata in tal modo la classificazione delle malattie, era evidente che la diagnostica omeopatica diveniva particolarmente semplice, poichè si riduceva ad individuare quale, tra le tre possibili, fosse la malattia in atto. Essa poi veniva ulteriormente semplificata dal fatto che una delle tre malattie, la psora, era così diffusa ed abbracciava tanti sintomi che la sua diagnosi costituiva quasi una tappa obbligata dell'iter clinico omeopatico. Se è vero che la diagnostica omeopatica classica è particolarmente semplice, bisogna anche sottolineare che l'attenzione del medico omeopatico non è tanto rivolta ad identificare la malattia da cui è affetto il paziente, quanto piuttosto ad individuare il medicamento che nel sano provoca i disturbi più "simili" a quelli presentati dal malato in studio.
Quel medicamento (che viene definito come il farmaco "simillimum") sarà in grado di far scomparire tutti i sintomi e di guarire il malato. Su questo punto sarà opportuno soffermarsi brevemente per comprendere appieno la sostanza delle tesi omeopatiche; nell'omeopatia la concezione della malattia è quella sintomatologica, per la quale un certo processo morboso si identifica sostanzialmente con i sintomi che esso dimostra; per tale motivo la scomparsa dei sintomi si identifica, per la gran parte dei medici omeopatici, con la scomparsa della malattia e quindi con la sua guarigione.
L'attenzione del medico omeopatico è quindi rivolta soprattutto alla terapia del malato piuttosto che al riconoscimento e/o alla terapia della malattia in se stessa. Mentre nella medicina scientifica l'attenzione è rivolta soprattutto alla diagnosi ed al riconoscimento dei meccanismi fisiopatologici che conducono alla situazione morbosa, e la terapia rappresenta soltanto la conseguenza logica dell'enunciato diagnostico, in omeopatia, dove la patogenesi delle malattie è sostanzialmente del tutto ignorata e la nosografia ridotta a dimensioni trascurabili, la terapia rappresenta il momento fondamentale di tutto il procedimento clinico. L'atteggiamento di fondo dell'omeopatia è eminentemente individualistico ed è teso a descrivere tutti i più piccoli disturbi presentati dal paziente per riconoscere il farmaco più "simile" per quei disturbi. Ciò che veramente interessa al medico omeopatico non è la "diagnosi di malattia", ma la "diagnosi di rimedio".
Ciò muta profondamente anche la natura della semeiologia omeopatica rispetto a quella usuale, Infatti, mentre nella semeiotica scientifica il segno o il sintomo costituisce un'elemento che guida verso la diagnosi, nella semeiotica omeopatica il segno serve a guidare verso la terapia, e non verso una terapia generale, ma verso la terapia che deve servire per quel singolo malato.
A prima vista, la situazione descritta non parrebbe particolarmente anomala né molto diversa da quella di un comune medico, il quale cerchi di individualizzare la diagnosi del proprio paziente o che, nell'impossibilità di porre una diagnosi nosografica precisa e di orientarsi sulla patogenesi del male del suo paziente, ne prenda in considerazione i sintomi più preoccupanti o appariscenti e cerchi di combatterli. In realtà, invece, le cose stanno in modo del tutto differente nelle due medicine. La "individualizzazione" del medico omeopatico è cosa radicalmente diversa dalla individualizzazione di cui parlavano Murri e tutti i grandi clinici del nostro secolo; mentre, infatti, nella medicina scientifica l'individualizzazione del caso clinico, cioè la comprensione della situazione in cui si trova il singolo malato, non prescinde mai dalla diagnosi ed è fondata su un'accurata analisi fisiopatologica, in omeopatia individualizzazione significa soltanto identificazione meramente empirica dei farmaci che dovranno essere efficaci in quel caso.
Oltre a ciò in omeopatia l'analisi dei sintomi, non controllata da uno spirito critico, si è dilatata in misura incredibile producendo eccessi semeiologici che stanno fuori da ogni ragionevolezza. Questo stato di cose ha portato ad una situazione curiosa: mentre la diagnostica omeopatica in senso stretto si presenta molto povera, la semeiologia si è dilatata enormemente.
Così i segni e i sintomi che interessano il medico omeopatico e di cui egli deve tenere conto non solo hanno poco o nulla in comune con la semeiologia scientifica, ma concernono fenomeni del tutto secondari o irrilevanti, quali le caratteristiche dello sguardo, il modo di stare seduto, la passione per i dolciumi, la paura dei cani, il sudore visibile sotto le ascelle, la gelosia o la passione per le arti figurative.
La terapia omeopatica, poi, si presenta come una terapia puramente empirica, nella quale l'indicazione all'uso di un certo medicamento non deriva in alcun modo dalla conoscenza della genesi dei fenomeni morbosi, ma proviene unicamente dalla constatazione che i disturbi di un malato sono simili a quelli prodotti da un certo medicamento. Questi convincimenti hanno portato ad uno studio esasperato e ad una dilatazione smisurata degli effetti prodotti dai farmaci. A puro scopo esemplificativo sarà sufficiente dire che Arsenicum album (cioè l'anidride arseniosa) produrrebbe 368 sintomi, Pulsatilla Nigricans ne causerebbe 1163 e Sulphur ben 4080!
Dopo la morte di Hahnemann l'omeopatia, che verso il 1840 aveva raggiunto un notevole successo a Parigi, conobbe nei vari Paesi europei e negli Stati Uniti fasi alterne di fortuna. Messa sostanzialmente al bando dalla medicina scientifica, essa trovò comunque sempre un certo numero di cultori fra i medici e conobbe in certi periodi una popolarità notevole, Sul piano dottrinale la diffusione dell'omeopatia si accompagnò alla nascita di accesi contrasti, i quali finirono poi per dare origine a differenti indirizzi teorico-pratici e ad altrettante Scuole.
In questa sede non è certo possibile ricostruire i vari percorsi teorici dei diversi omeopati. Ciò che tuttavia si può affermare è che, nonostante le differenze di impostazione, le varie Scuole omeopatiche si riconoscono tutte ancora oggi nella fedeltà ai concetti e ai principi enunciati da Samuel Hahnemann: la legge dei simili, il principio della diluizione infinitesimale, la dinamizzazione.
Le principali correnti omeopatiche sono le seguenti:
*       l'indirizzo empirista germanico, preoccupato soltanto della scelta di un unico rimedio omeopatico simillimum;
*       l'indirizzo anglosassone, rappresentato soprattutto da J,T. Kent e caratterizzato da una forte impostazione filosofica di tipo spiritualistico;
*       la scuola di tipo spiritualistico;
*       la scuola omeopatica costituzionalista francese.
Secondo quest'ultimo indirizzo, promosso da L. Vannier, gli uomini sarebbero classificabili in vari tipi costituzionali a seconda delle loro proporzioni corporee e delle loro caratteristiche e questa tipologia costituzionalistica aiuterebbe il medico nella ricerca del farmaco "simillimum". Le tre costituzioni fondamentali sono:
*       la costituzione carbonica, che rappresenta la forma primitiva, naturale, dalla quale si sono differenziate le altre due. Ad essa appartengono gli individui rigidi e diritti, pazienti e ordinati;
*       la costituzione fosforica (che è espressione di eredotubercolosi), alla quale appartengono individui armoniosi e comunicativi, esaltati e delicati;
*       la costituzione fluorica (che, secondo Vannier, è espressione di eredolue), alla quale appartengono soggetti irregolari e instabili, disordinati e senza equilibrio.
In tempi più recenti sono stati proposti altri indirizzi omeopatici. Così, fra gli esponenti della scuola argentina, T.P. Paschero ha sostenuto che la malattia è una perturbazione dello spirito, mentre A.E. Masi ha identificato la psora con la vulnerabilità e l'irritabilità delle cellule. All'opposto O.A.Julian, dopo aver sostenuto che la metafisica vitalista di Hahnemann appartiene al passato, ha proposto una dottrina materialista fortemente influenzata dal materialismo dialettico, denominata "concretologia contraddittoria monista". Tale dottrina, che si allontana in più punti dalle classiche opinioni di Hahnemann, dovrebbe consentire secondo il suo ideatore di «collocare la medicina omeopatica nel grande solco delle scienze mediche attuali».
Nel 1952, infine, Hans Heinrich Reckeweg, cercando di avvicinare l'omeopatia ai concetti della biochimica moderna, ha proposto una nuova dottrina, denominata "omotossicologia", basata sull'assunto che tutte le aggressioni provenienti dall'ambiente sono dovute all'azione di non meglio precisate "omotossine".
Indicazioni terapeutiche
Questo argomento presenta fin dal suo inizio una difficoltà di ordine teorico, poichè in genere le indicazioni e l'efficacia dei rimedi omeopatici vengono considerate in relazione alla comune nosografia scientifica.
Per quanto ciò possa apparire incongruo ed irrazionale agli occhi di un medico omeopatico tenacemente ortodosso, convinto quindi che le sole malattie croniche siano quelle individuate e descritte da Hahnemann, in pratica, imitando l'atteggiamento di molti omeopati, non terremo conto di tale problema e considereremo le indicazioni dell'omeopatia nei termini della patologia non omeopatica.
In tesi generale, i medici omeopatici hanno spesso sostenuto che il loro sistema terapeutico era capace di avere ragione di ogni forma morbosa. Addirittura alcuni di loro hanno sostenuto e sostengono tuttora che soltanto l'omeopatia è in grado di guarire veramente e definitivamente le malattie e che la medicina non omeopatica è invece soltanto capace di produrre miglioramenti apparenti e transitori.
Già Hahnemann aveva sostenuto che mentre «il metodo allopatico costituisce un gioco irresponsabile e micidiale con la vita del malato» (par. 25), le medicine omeopatiche «guariscono senza eccezione le malattie che hanno i sintomi similari più vicini» (par. 27). Infatti, «il metodo omeopatico raggiunge la guarigione delle malattie nel modo più sicuro, più rapido e più duraturo, perchè quest'arte di curare è basata su una legge di natura eterna ed infallibile» (par. 53, par. 45). Da quando l'omeopatia è nata, gli omeopatici si sono vantati di guarire un grandissimo numero di malattie: dal colera al cancro (Benjamin, 1978), dall'asma all'emicrania, a loro dire, l'esperienza avrebbe ovunque confermato la potenza dei medicamenti iperdiluiti e dinamizzati.
Efficacia reale
Rispetto al gran numero di successi terapeutici vantati dagli omeopati si deve subito dire che il numero degli studi scientifici rigorosi condotti sui medicamenti hahnemanniani è ancor oggi estremamente modesto. In realtà, la gran parte dei risultati positivi che gli omeopati hanno dichiarato di ottenere non è stata pubblicata sulle comuni riviste scientifiche, ma su periodici dichiaratamente ed esclusivamente omeopatici, il cui livello medio si colloca ad uno standard di rigore metodologico di gran lunga inferiore a quello richiesto oggi nella comunità medico-scientifica internazionale.
Riferendoci alle poche ricerche pubblicate sulla stampa medico-scientifica più accreditata, Gibson et al. (1980) hanno osservato che la terapia omeopatica migliorava la sintomatologia dell'artrite reumatoide senza peraltro modificarne i test di laboratorio, mentre al contrario Shipley et al. (1983), nella stessa patologia, non hanno osservato alcun effetto della terapia omeopatica con Rhustox 6x. In un altro studio, Reilly et al. (1986) hanno riportato un lieve ma significativo miglioramento della sintomatologia della febbre da fieno in pazienti trattati con una diluizione 30^ centesimale di pollini.
In realtà, il problema dell'efficacia dell'omeopatia è strettamente legato a quello dell'attendibilità delle sperimentazioni cliniche in cui vengono usati i medicamenti omeopatici. A questo proposito Kleijnen et al. (1991) hanno recentemente compiuto un attento lavoro di revisione critica della letteratura, prendendo in esame 93 lavori e 107 trial clinici. Essi hanno concluso che "l'evidenza delle sperimentazioni, per quanto sia positiva, non è sufficiente a trarre alcuna conclusione precisa a causa della bassa qualità metodologica della maggior parte delle ricerche".
Obiezioni scientifiche
Indipendentemente dalla realtà dei suoi vantati successi terapeutici, l'omeopatia è una dottrina medica che merita di essere presa in attenta considerazione e di essere valutata sul piano scientifico, nelle varie tesi in cui essa si articola.
Quest'opera di valutazione scientifica è stata fatta lungo il corso degli ultimi due secoli da vari studiosi ed ha portato ad un generale rifiuto della dottrina omeopatica da parte del mondo medico-scientifico. Esporremo ora brevemente le principali obiezioni scientifiche rivolte contro l'omeopatia.
Diluizioni infinitesimali dei medicamenti
L'obiezione fondamentale mossa contro la dottrina di Hahnemann fin dal tempo della sua formulazione è stata quella concernente l'estrema diluizione dei farmaci.
Con la tecnica usata dagli omeopati, si disse, i farmaci venivano rapidamente diluiti in misura tale che la preparazione somministrata al paziente non poteva avere alcun reale effetto curativo.
A questa obiezione un farmacologo italiano, Luigi Sabbatani, e più tardi un allievo di questi, Egidio Meneghetti, diedero veste scientifica rigorosa sulla base del numero di Avogadro. Poichè, come è ben noto, una volta che sia noto il peso molecolare di una sostanza, il numero di Avogadro ci permette di conoscere con esattezza il numero delle molecole presenti in una soluzione, è possibile calcolare il numero delle molecole di un farmaco presenti nelle preparazioni diluite dei rimedi omeopatici.
Così si è potuto calcolare che alla 11ª diluizione centesimale sono presenti soltanto poche molecole del farmaco, mentre al di là della 13ª diluizione centesimale le preparazioni omeopatiche non contengono che solvente puro. In altre parole, le conoscenze scientifiche che provengono dalla chimica generale permettono di affermare con sicurezza che gran parte dei cosiddetti medicamenti omeopatici è costituita da acqua distillata.
Di fronte a questa critica radicale che faceva crollare l'intera dottrina farmacologica omeopatica, i seguaci di Hahnemann hanno cercato di puntellare la loro teoria variandone in parte il contenuto: ad agire non sarebbero i farmaci in se stessi, quanto il solvente, cioè l'acqua. Sarebbero quindi la presenza del farmaco e le scosse impresse alla preparazione medicamentosa a modificare la struttura molecolare dell'acqua e a conferirle quindi le eccezionali quanto misteriose virtù medicatrici vantate dai medici omeopatici. Queste ipotesi, che non hanno trovato finora alcun sostanziale sostegno sperimentale, appaiono in realtà del tutto fantasiose e rappresentano sul piano metodologico vere e proprie ipotesi ad hoc.
Estraneità alle più comuni e consolidate conoscenze scientifiche biomediche
Come risulta evidente anche dalla sola esposizione rapida delle tesi omeopatiche, questa dottrina si presenta come un insieme di concetti, di enti e di relazioni del tutto distinto dalla medicina scientifica comunemente insegnata nelle Università del mondo occidentale. In realtà, mentre nei primi decenni dopo la sua origine l'omeopatia aveva ancora un certo numero di punti di contatto con la medicina ufficiale insegnata nei Paesi europei, con il trascorrere del tempo la diversità fra le due medicine è divenuta abissale. Mentre la medicina clinica ufficiale è andata via via maturando ed assumendo la struttura concettuale ed operativa di una disciplina scientifica autentica, l'omeopatia ha conservato pressochè immodificati i caratteri e il contenuto che le aveva dato il suo fondatore.
Per quanto qui non sia possibile neppure enumerare le svariate differenze che esistono oggi fra le due medicine, sarà sufficiente ricordare, soltanto come esempio, che l'omeopatia in se stessa non prende neppure in considerazione la circolazione del sangue, la teoria cellulare, l'anatomia e l'istologia patologica, la batteriologia e la virologia, l'endocrinologia, la genetica e la biochimica.
Quando poi nei suoi manuali vengono ricordati alcuni concetti provenienti da qualche disciplina scientifica, come l'immunologia o la citologia, ciò viene tatto solo per brevi cenni approssimativi e superficiali. Infine, nelle monografie degli omeopati che hanno tentato di avvicinarsi alla medicina moderna, l'accostamento dei concetti scientifici (anticorpo, ormone, proteine ematiche, trasmissione ereditaria dei caratteri ecc.) a quelli omeopatici assume un carattere artificioso e spesso addirittura caricaturale.
In breve, ancora oggi non vi sono reali punti di contatto fra la medicina moderna e l'omeopatia, che si presenta quindi come una dottrina del tutto avulsa dalla comuni conoscenze scientifiche.
Questo isolamento teorico dell'omeopatia appare particolarmente grave sul piano della conoscenza scientifica. Infatti, uno dei caratteri principali del sapere scientifico è costituito dalla sua sistematicità, vale a dire dalla tendenza di tutte le discipline scientifiche a fondersi in un'unica, grandissima struttura concettuale. L'omeopatia non partecipa a questa caratteristica del sapere scientifico e continua ad essere una dottrina chiusa in se stessa, ancorata alle idee del suo fondatore ed incapace di ogni reale evoluzione concettuale.
Mancanza di sperimentazioni cliniche controllate
Al di là delle difficoltà teoriche fin qui considerate, un ostacolo fortissimo, sollevato da molti studiosi contrari all'omeopatia, è rappresentato dalla mancanza di studi clinici rigorosamente controllati. In effetti, tutti i medici forniti di un'adeguata formazione scientifica sono sempre stati colpiti dal fatto che di fronte alle enormi pretese terapeutiche dell'omeopatia vi fosse un'estrema povertà di studi clinici condotti in modo rigoroso. è ben noto a tutti che oggi sono state elaborate e sono a disposizione dei medici sofisticate tecniche statistiche capaci di misurare i reali effetti dei farmaci; tali metodiche sono divenute ormai indispensabili per valutare i nuovi medicamenti che vengono introdotti nella pratica clinica.
Ebbene, ad eccezione dei pochi lavori citati, tali tecniche non vengono comunemente usate dagli omeopati. La grande maggioranza delle affermazioni che si trovano nei manuali omeopatici sugli effetti terapeutici dei farmaci non trova alcun sostegno in ricerche condotte in modo serio e pubblicate su riviste scientificamente accreditate e attendibili.
Valutazione metodologica
Oltre alle obiezioni scientifiche, che quindi riguardano il suo contenuto, all'omeopatia sono state mosse numerose critiche di natura metodologica. Queste ultime hanno un'importanza di gran lunga maggiore delle prime, poichè mettono in discussione alla radice l'intero corpo dottrinale originatosi dalle idee di Hahnemann.
Come è ben noto, la conoscenza scientifica è caratterizzata dal fatto che progredisce grazie alla sistematica applicazione di quel complesso insieme di procedure e di regole che prende il nome di "metodo sperimentale". Lo status scientifico di una disciplina viene quindi misurato dal modo in cui essa aderisce al metodo sperimentale e ne applica correttamente le regole.
Se ora si prendono in esame la teoria e la prassi che costituiscono l'omeopatia, è facile constatare che questa disciplina è caratterizzata da un gran numero di vizi metodologici. A questi vizi faremo un breve cenno, senza alcuna pretesa di esaurire un argomento così vasto e complesso.
Secondo una distinzione ormai classica, la scienza è costituita da due elementi ugualmente importanti, i fatti, cioè la registrazione fedele dei fenomeni del mondo, e le teorie.
Inadeguatezza delle registrazioni fattuali
La prima colpa metodologica dell'omeopatia riguarda appunto l'inadeguatezza delle registrazioni fattuali su cui essa si basa.
È noto dal tempo di Galileo che poichè «il gran libro della natura è scritto in lingua matematica», il ricercatore deve fare ogni sforzo per osservare e registrare i fenomeni studiati in forma quantitativa: il linguaggio dei numeri, infatti, evitando le ambiguità e le imprecisioni del linguaggio comune, permette di obiettivare i rilievi, di evitare i dissensi fra osservatori e di applicare ai risultati delle osservazioni quello strumento potentissimo che è il calcolo.
Ebbene, nei manuali omeopatici ben raramente si può trovare qualche riferimento a dati quantitativi: nella gran parte dei casi i fenomeni considerati rilevanti sono eminentemente soggettivi e anche quando gli Autori fanno riferimento a fenomeni oggettivabili e misurabili (come la temperatura corporea o la pressione arteriosa), questi non vengono riportati attraverso valori numerici precisi. All'insufficienza dei dati numerici si associa poi la quasi assoluta mancanza di documentazioni morfologiche attendibili. Per quanto l'omeopatia in se stessa ignori l'anatomia e l'istologia patologica, accade spesso che nelle pubblicazioni omeopatiche vengano riportati gli effetti dei medicamenti iperdiluiti in malattie contemplate dalla nosografia scientifica, come la cirrosi epatica o l'ulcera gastrica o la broncopolmonite. Ebbene, anche in questi casi è facile constatare che né la diagnosi né il vantato effetto terapeutico vengono documentati attraverso una qualche documentazione morfologica, come un reperto endoscopico, un quadro radiografico o la fotografia di un reperto istopatologico. In queste condizioni, quindi, le diagnosi riportate non possono essere messe in discussione e sul risultato della sperimentazione non può venire condotta quella valutazione critica che è fondamentale in ogni lavoro scientifico.
Da ultimo, è necessario ricordare che in gran parte dei lavori riportati nelle riviste omeopatiche l'analisi statistica dei risultati o è assolutamente insufficiente o è impostata in modo scorretto o è addirittura mancante.
Introduzione nel discorso scientifico di termini e concetti metafisici
Chiunque scorra anche superficialmente l'Organon o altre opere della medicina omeopatica è colpito dalla presenza di termini e di affermazioni di carattere nettamente metaempirico che non si trovano mai nei manuali della medicina scientifica. La presenza di queste espressioni ha valso in passato all'omeopatia l'accusa di essere una dottrina idealistica e misticheggiante.
Uno dei maggiori pericoli per la scienza è costituito dall'introduzione nei suoi discorsi di termini e di concetti che, per la loro natura, sono estranei all'ambito della conoscenza scientifica e si collocano in quello della filosofia e più propriamente della metafisica. Per evitare pericolosi inquinamenti ed il sorgere di equivoci epistemologici, i fisici, nei primi decenni del nostro secolo, concepirono ed introdussero un principio metodologico che venne chiamato della "definizione operativa". Secondo tale principio «enti e relazioni che non siano osservabili per principio né definibili mediante esperienze almeno ideali non hanno senso fisico e non possono essere oggetto della fisica» (F. Selvaggi,1985). Come ha affermato un acuto metodologo italiano, E. Poli, «per quanto riguarda la biologia, il principio della definizione operazionistica dei termini è un importante elemento di chiarificazione e serve ad espungere dal discorso molte implicazioni non-scientifiche e i falsi problemi che da esse possono prendere lo spunto» (E. Poli, 1972).
Infatti, se si considerano termini e concetti come quelli di "principio spirituale dinamico", di "forza vitale", di "forza spirituale insita nell'intima essenza dei medicamenti", che ricorrono con grande frequenza negli scritti di Hahnemann e che si ritrovano spesso ancora oggi negli scritti di diversi omeopati, è facile vedere come questi concetti non siano in alcun modo suscettibili di definizione operativa e come quindi non abbiano alcun diritto di cittadinanza nell'ambito di un discorso o di una teoria scientifica.
In conclusione, la violazione del principio della definizione operativa mostra come l'omeopatia non sia in alcun modo una vera teoria scientifica, ma sia costituita da un inestricabile intreccio di concetti metafisici e di osservazioni ed idee empiriche.
Uso di ipotesi ad hoc
«Data un'ipotesi -ha scritto Dario Antiseri- se questa ipotesi è in pericolo, si dà di frequente il caso nella storia della scienza che si tenti di salvare questa ipotesi pericolante con opportune iniezioni di ipotesi di salvataggio. Questo stratagemma di salvataggio di ipotesi in pericolo viene chiamato "introduzione di ipotesi ad hoc" ed è visto di cattivo occhio da parte degli scienziati più scaltriti». In effetti, l'ipotesi ad hoc non aumenta il contenuto informativo della teoria e «viene introdotta unicamente ed esclusivamente allo scopo di salvare la teoria in pericolo. Ma il salvataggio sistematico delle ipotesi in pericolo sbarra la strada alla verità. Infatti, per ottenere teorie scientifiche sempre più vere, occorre eliminare gli errori che nelle teorie si annidano; ma se noi facciamo di tutto per proteggere o nascondere questi errori allora la verità non si farà mai strada» (D. Antiseri, l978).
Nell'omeopatia è facile constatare l'introduzione sistematica di ipotesi ad hoc ogni volta che l'andamento clinico dei pazienti non è in accordo con ciò che le premesse teoriche facevano prevedere. Se, ad esempio, un medico impiega una certa diluizione di un farmaco, per curare una determinata malattia e, non avendo ottenuto il risultato sperato, sostiene che quella diluizione non era appropriata per quella forma morbosa, quel medico ha introdotto una ipotesi ad hoc. E ancora, se nelle stesse condizioni, il medico asserisce che la diluizione era appropriata, ma che il malato non è migliorato perchè la sua costituzione non gli consentiva di reagire adeguatamente a quel medicamento, quel medico ho ancora una volta fatto ricorso ad una ipotesi ad hoc.
Incapacità di effettuare previsioni precise
Come è ben noto, una delle caratteristiche fondamentali delle teorie scientifiche è la loro capacità di compiere previsioni. A questo proposito Antiseri (1975) ha affermato che «il potere predittivo di una teoria scientifica costituisce il fondamento della sua validità, il fascino della scienza e la base sistematica delle sue applicazioni tecnologiche». La capacità della scienza di predire gli avvenimenti futuri si differenzia da quella del profeta o dello sciamano perchè, contrariamente a queste, è fondata su leggi. In altre parole, è la conoscenza di alcune leggi di natura che consente allo scienziato di formulare previsioni valide. Ed è cosa comunemente accettata che quanto più una scienza è sviluppata e matura, tanto maggiore è la sua capacità di prevedere i fenomeni e tanto più attendibili sono le sue previsioni.
Nella medicina scientifica la possibilità di prevedere i fenomeni è andata progressivamente aumentando con lo sviluppo delle conoscenze biomediche: così noi oggi sappiamo prevedere, con un margine di errore molto piccolo e noto, anche fenomeni che un tempo apparivano del tutto capricciosi. La percentuale dei decessi annuali nei pazienti cancerosi trattati con un certo antiblastico, le differenze nell'andamento della statura in un nano ipopituitarico e in un nano ipotiroideo trattati con HGH, la comparsa di una emorragia da rottura delle vene esofagee in un cirrotico, lo sviluppo di un'arteriosclerosi in un soggetto iperlipemico, la comparsa di convulsioni in un ipoglicemico sono tutti fenomeni che oggi possono venire previsti con buona attendibilità.
Se invece ora osserviamo l'omeopatia, possiamo facilmente constatare che sul piano fisiopatologico la capacità di previsione di questa disciplina è pressochè inesistente. Su quello terapeutico, poi, le cose non vanno in modo migliore: al di là delle generiche affermazioni di efficacia del loro trattamento sulla salute del paziente, i medici omeopatici ben raramente si spingono a prevedere. E così, ad esempio, di fronte ad un medicamento antiipertensivo ben raramente essi riescono a prevedere se la pressione più interessata sarà la sistolica o la diastolica e quanto grande sarà la diminuzione pressoria.
Questa incapacità di prevedere dell'omeopatia è estremamente rilevante sul piano metodologico: infatti, poichè la conferma delle previsioni di una teoria scientifica è il modo più impressionante con cui la teoria viene convalidata, l'incapacità di formulare previsioni esatte ed attendibili mostra tutta la debolezza metodologica dell'omeopatia.
Violazione del principio di falsificabilità
Il problema metodologico fondamentale è sempre stato quello di individuare un criterio che permettesse di separare le scienze autentiche dalle pseudoscienze. Tale problema è stato risolto dall'epistemologo austro-inglese Karl R. Popper con l'introduzione del principio di falsificabilità. Secondo tale principio, oggi in pratica universalmente accettato, non è il principio della verificazione (cioè la possibilità di stabilire, attraverso la verifica sperimentale, con certezza la verità di una teoria) a distinguere la scienza dalla non-scienza, ma è la possibilità di dimostrare, attraverso l'osservazione e l'esperimento, la falsità di una teoria. Per chiarire questo concetto conviene riportare le parole dello stesso Popper. «Io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall'esperienza. Queste considerazioni suggeriscono che come criterio di demarcazione non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall'esperienza» (K.R. Popper,1970).
Alla luce di queste considerazioni si comprende che la dimostrazione di un errore in una teoria scientifica, il crollo della teoria stessa e la sua sostituzione con un'altra teoria costituiscono pregi perchè consentono di progredire verso teorie sempre più ricche di contenuto e sempre più verosimili. Se ora si considera l'omeopatia alla luce della metodologia contemporanea della scienza, si comprende bene perchè essa non possa essere considerata una dottrina scientifica. Dal tempo in cui fu concepita, la dottrina omeopatica non ha conosciuto, per i suoi fedeli, alcuna confutazione ed i principi formulati da Hahnemann mantengono ancora oggi tutta intera la loro validità . Mentre nella medicina scientifica i fatti nuovi che si accumulano modificano senza posa le teorie sostituendone l'una o l'altra parte con nuove idee, o addirittura le eliminano integralmente, nella medicina omeopatica la struttura teorica di fondo viene preservata intatta attraverso una serie di sotterfugi metodologici. Cosi, la dottrina dei simili si perpetua nel tempo, rigida e immobile come un organismo privo di vita.


G.Federspil, C.Scandellari
Professori di Semeiotica Medica
Patologia Medica III
Università degli studi di Padova


martedì 12 ottobre 2010

IL CROLLO DELLA SCUOLA

Pubblico volentieri l'articolo del fisico Roberto Renzetti, considerandolo, allo stato attuale, un importante e, temo, definitivo, contributo al dibattito sullo stato della scuola all'epoca della Gelmini e del Ministro del Bilancio (non dell'Economia) Giulio Tremonti. 

Il giorno 4 febbraio del 2010 verrà ricordato come il giorno del più grave crimine commesso dal governo Berlusconi.  Il Consiglio dei ministri ha varato quella che coloro che ignorano chiamano riforma della scuola. Ho detto "coloro che ignorano" perché vorrei essere chiaro: sto parlando del participio presente di ignorare che è appunto ignorante e la parola la userò in tutto ciò che dirò in questo senso.
        Non faccio più premesse lunghe ed articolate ma dico solo che da 12 anni ciò che accade oggi era scritto (con chiarezza, ma solo per chi sa leggere). Nel 1998, quando sciaguratamente entrò al Ministero della allora Pubblica Istruzione un tal  Luigi Berlinguer, si era aperta la strada a questo 4 febbraio. Basta rileggersi tutti gli articoli che da allora ho scritto, e che gli interessati possono trovare nella sezione SCUOLA, per capire il senso delle scelte di becero liberismo che furono fatte e che qui riassumo.
        La scuola era allora molto ben strutturata e, negli anni che ci separavano dal 1923 (inizio Riforma Gentile), erano stati fatti qua e là cambiamenti di enorme importanza: la Scuola Media Unica del 1962-63 e la Riforma della Scuola Elementare (con l'introduzione dei moduli) del 1990-91. Con governi ballerini e mancanza di continuità legislativa non si era proseguito sulla strada dei raccordi tra riforme fatte e da fare. In particolare erano rimasti dei buchi neri nella stessa Scuola Media che non si capiva bene cosa fosse tra una scuola elementare pregevole ed una degna scuola di secondo grado (le superiori). Vi erano altri buchi neri sia negli istituti tecnici, che riguardavano la mancanza di flessibilità ed aggiornamento dei loro programmi per stare al passo con le innovazioni tecniche e scientifiche che entravano nel mondo produttivo, sia e soprattutto nei professionali che erano diventati uno strumento di finanziamento indiretto per le scuole di tale natura a gestione confessionale (la maggioranza), poi sindacale, quindi regionale e che, salvo rarissime eccezioni, erano vere fabbriche di ignoranza. Questa scuola si doveva e poteva riformare nella linea della strutturazione forte che, a quei livelli scolari, non può mancare pena  l'inarrestabile decadenza.
        Cosa hanno fatto Berlinguer ed il suo staff di pedagogisti e psicologi ? L'operazione in uso in regimi liberisti: iniziare la fase della liberalizzazione della scuola preparandola per la privatizzazione. Quel governo di centrosinistra, che ha operato dal 1996 al 2001, ha fatto altri danni clamorosi sulla via delle privatizzazioni con un'aquila come D'Alema al comando. Ne ricordo solo quattro: la privatizzazione di Telecom (con il suo avvio al fallimento ed al suo uso per destabilizzare mediante intercettazioni illegali), quella dell'Enel con la bestialità della separazione tra linee di trasmissione e centrali di produzione, quella delle autostrade pagate a distanza con gli introiti che davano, quella dell'ENI. In tutti e quattro questi casi si sono fatti regali infiniti ai privati senza che i cittadini abbiano avuto un qualche beneficio. Anzi ! Sia aumento bestiale di tariffe che rende le bollette uno degli incubi degli italiani, sia disservizi da Paesi sottosviluppati. Sul fronte della scuola i nostri sinistri politici avevano letto da qualche parte che è una potenziale fonte di infiniti guadagni se solo si riuscisse a renderla privata. Chissenefrega di quell'idiozia di scuola pubblica come istruzione garantita almeno (almeno !) fino ai 16 anni ! E come si privatizza la scuola ? Così come era l'impresa sembrava impossibile. Nessun privato si accolla tanti insegnanti utili per un'istruzione di qualità ma non per i profitti. E chi si accolla i ragazzi con handicap  che richiedono insegnanti di sostegno (le scuole confessionali, ad esempio, già respingono l'handicap) ? Chi edifici, laboratori, trasporto, preparazione docenti (quest'ultima cosa è oggi altra fonte di guadagno per potentati collaterali al potere politico) ? Nessuno, di modo che l'affare sfuma ed i tanti soldini che si tirano fuori ad esempio negli USA da noi niente ! Ma anche se ci fosse stato qualcuno che avesse voluto acquistare in blocco tale sommo bene non avrebbe rischiato di fare lui l'operazione finalizzata al profitto perché  sarebbe stato chiaro che si veniva meno in servizi e qualità con proteste popolari importanti. Berlinguer e i pedagogisti buoni per ogni stagione  hanno risolto il problema con le seguenti operazioni. Primo destrutturare cioè togliere ogni rigidità al sistema e renderlo liquido (un poco come D'Alema pensava il suo partito che tutti sappiamo la fine indegna che ha fatto). In tale situazione, poiché si aveva a che fare con giovani fanciulli e non con idrocarburi o caselli autostradali insensibili a scelte politiche, gli utenti giovani della scuola hanno iniziato a credere che si potesse giocare a scuola così come teorizzavano i pedagogisti di regime (Vertecchi, Maragliano, Tagliagambe, & Co) che volevano una scuola che non sapesse di scuola, che inventavano l'autonomia scolastica (ogni scuola fa per sé ed è in concorrenza con l'altra), che introducevano i percorsi educativi per gli studenti (ognuno si fa il suo curriculum e studia ciò che vuole). E gioca oggi e gioca domani, con i genitori di tali sfortunati fanciulli (formatisi negli anni del rampantismo craxiano) che hanno creduto di partecipare al gioco facendo i sindacalisti dei figli, la scuola si è completamente dequalificata tanto da dare risultati completamente insoddisfacenti (e non mi riferisco solo alle indagini internazionali ma a quello, ad esempio, che lamentavano sempre con maggior forza gli insegnanti del primo anno di università, quella indegna del 3 + 2: i ragazzi non sanno leggere, scrivere e far di conto; e neppure capire concetti elementari). Poi è arrivata Moratti altra ignorante che ha spinto con maggiore decisione verso la dequalificazione (tagli di risorse continui e pedagogista cattolico che tagliava pezzi culturali fondamentali come l'evoluzionismo) e che partiva dal volere una scuola libera (insieme a vari intellettuali come Adornato ed Antiseri, ... che fine hanno fatto, oggi ?) per arrivare alle scuole confessionali, sempre e comunque da foraggiare alla faccia di chi paga le tasse, che notoriamente non vanno alle scuole di lusso dei preti (Nazzareno, Massimo, San Giuseppe di Merode, ...). Quindi tal Fioroni che è emerso alle cronache solo per i finanziamenti tolti alle scuole pubbliche e dati (con lettera di accompagnamento ammiccante) alle scuole dei preti (ancora ed ancora !). Un vero disastro  la scuola dopo anni come questi. L'istituzione non riesce a preparare gli studenti ed in più costa un mare di soldi per tutto il personale che impiega. E' qui che arriva Gelmini che più ignorante non si può (ma ha dietro le spalle una tal Aprea che ignorante non è pur rappresentando i mal protesi nervi e la clientela meridionale al servizio dei padroni del dané del Nord)).  Gelmini non ha riformato la scuola, ha semplicemente tirato una linea in fondo al bilancio fallimentare degli ultimi anni ed ha detto, con l'avvocato Tremonti aleggiante come un vampiro, che la scuola va ridotta drasticamente al nulla. Ed è ovvio che il degrado può resistere fino ad un certo punto, dal quale poi le famiglie iniziano a pensare alla scuola seria che Berlinguer ha cancellato (con il sostegno di tanti ignavi furbacchioni e profittatori di corsi d'aggiornamento come CGIL Scuola, CIDI, Legambiente Scuola, Proteo, ...). Nel frattempo, tagliando e riformando a modo loro, mai si sono occupati di salari diventati un contributo per non morire di fame (a parte di quelli degli insegnanti di religione che, dopo il miracolo dell'immissione in ruolo senza concorso, godono di aumenti incredibili, mai sognati da altri insegnanti), così sempre più la scuola è diventata appetibile ai cercatori del secondo lavoro. Al suo interno ormai andiamo ad una popolazione docente che all'85 per cento è femminile e ciò vuol dire che gran parte degli insegnanti è (al di là della preparazione che può ed anzi è certamente eccellente) soprattutto fatto di madri e mogli di professionisti che non hanno la scuola medesima come primo lavoro perché la famiglia è la famiglia, altrimenti Ruini che ci sta a fare ?
        Gelmini non sa nulla di scuola. Ma proprio niente e fa pena vederla pontificare in una situazione  oggi felice per lei ma domani orrenda perché sarà indicata nella storia d'Italia come quella che ha fatto il maggior danno al paese compatibilmente con le sue (scarse) capacità. La scuola non si riforma per decreti legge decisi in fretta dentro il Ministro dell'Economia che è retto da un avvocato che neppure è in grado di capire un economista che gli parla di derivata seconda e che quindi non è in grado di leggere curve e concavità di esse. E costui dovrebbe interpretare il comune sentire degli italiani ammazzando il primo  bene  di un Paese ? Costui dovrebbe dare l'indirizzo al declino completo del Paese portandolo ad essere un Paese non industriale ma di servizi da offrire a padroni localizzati altrove ed alla cui corte va rubizzo l'avvocato con il cappello socialista in mano.
        Qualche dettaglio lo posso dare in attesa di avere uno scritto in cui le bestialità siano raccontate nel consueto disordine, approssimazione, incomprensibilità, incongruenze ed idiozie varie (ma credo che ormai parlare di questo sia operazione del tutto inutile perché costoro neppure sono in grado di capire. Come il parlare di politica con un berluscone. Maddeché ahò ! Si passerebbe meglio il tempo parlando con un tifoso di curva, qualche barlume di accettazione di tesi altrui potrebbe trovarsi. Ormai il dibattito è virtualmente a cazzotti in faccia ... e basta. Con una massa sterminata di ignoranti, provenienti anche dalla scuola tragica di Berlinguer, che decide, attivamente e passivamente, la politica del Paese).
        Si dice che la Scuola e la Costituzione sono vecchie. E chi lo dice ? Quali sono i titoli culturali e giuridici di costui ? Ad altezza d'occhio non vedo nessuno ... ma forse dirigendo lo sguardo molto in basso ... Quali sono i parametri epistemologici di tale tesi ? Niente, non c'è niente di questo. I giudizi sono oggi apodittici e definitivi con il risultato di rendere scemi coloro che cercano motivazioni. Provo  a dire. La Costituzione degli Stati Uniti ha circa 250 anni e gli americani se la tengono stretta, anzi, se qualcuno prova ad attaccarla viene azzannato da Repubblicani e da Democratici. La Scuola. Quella francese ha gli stessi anni della Rivoluzione. Le Scuole Politecniche di Monge, di Carnot e di tutti i prestigiosi scienziati francesi (Laplace, Lagrange, Berthollet, ...) che ha qualificato le classi dirigenti di quel Paese da allora è per fortuna viva e vegeta. La nostra Scuola risaliva al 1923, la nostra Costituzione al 1948. Qualche stupido (tra cui personaggi di primo piano degli ex comunisti, molto ex) ha provato a dire che chi difende la Costituzione è un conservatore. Io lo sono due volte perché, oltre alla Costituzione, difendo anche la Scuola come era rispetto allo schifo che apprendisti stregoni, degradati ad ignorantoni, hanno fatto. La Costituzione, a parte i fascisti che sono un male endemico del Paese sempre pronti a schierarsi con ogni caudillo anche se idiota, fu scritta con il contributo di tutte le forze politiche. Io non amo l'articolo 7 ma tant'è, con la speranza che non trasbordi come accade mi tengo anche quello. La Scuola di Gentile non è vero che è stata una scuola del solo Gentile (che pure, insieme a Croce, gli impresse la sua visione del primato della filosofia sulle scienze), ma di tutti i migliori e più preparati pensatori e pedagogisti dell'epoca sia socialisti, che cattolici, che liberali (Croce, Salvemini, Mondolfo, Lombardo Radice, Codignola, ...). Gentile, non a caso mai iscrittosi al Partito Fascista, era tanto avanzato che poté operare solo quando ancora vi era lo spirito rivoluzionario della prima ora del fascismo e fu poi allontanato a maggio del 1924, appena sei mesi dopo il varo della Riforma, per cedere il passo a fascisti ignorantoni come oggi. Fu subito messo da parte perché le persone pensanti non sono gradite ai fascismi ed ai berluscones. Insomma leggetevi qualcosa di Gentile e qualcosa di Gelmini  (ohibò,  ma  ha scritto qualcosa ? e, se si, dove ? Forse nel suo tema per diventare avvocato e svolto in quel di Reggio Calabria perché quello di Brescia troppo difficile e meritocratico ? ...). Ebbene, dopo avere letto, tutti avranno capito cosa vuol dire degrado. Da Gentile a Gelmini è proprio scendere agli inferi e trovare, nel girone, prima di Lucifero-Tremonti, una bambinetta che balbetta frasi sconnesse perché ogni tanto i colpi di coda del capo non le fanno cogliere i suggerimenti.
        Quello che sta accadendo è che Berlusconi, insieme a fascisti e socialisti craxisti, quelli che rimpiangono lo spirito socialista dell'ex direttore dell'Avanti, Benito Mussolini, porta avanti come un carro armato il Piano di Rinascita Democratica del golpista Licio Gelli. Ha con sé, piduista della prima ora, altri adepti, tra cui spiccano Cicchitto, Martino, D'Alì, Costanzo, Gervaso, Elia Valori, Gustavo Selva, dopo aver avuto il grande banchiere di Dio, il mafioso Sindona, e quel bancarottiere intrallazzatore con la Banca Vaticana di nome Calvi. E tra i progetti piduisti, oltre all'impadronirsi dell'informazione pubblica, a sterilizzare la magistratura ed a dividere i sindacati, come il neocatecumenale Bonanni ed Angeletti sanno bene, vi è quello di togliere vigore alla scuola pubblica eliminando il valore legale al titolo di studio. Una scuola che fosse come il 4 febbraio ha annunciato il consiglio dei ministri è una scuola che va esattamente in tale direzione perché se la scuola si dequalifica che senso ha pretendere che siano i suoi frutti ad assumere cariche pubbliche ed a partecipare ai concorsi ? Ma c'è di più, come è risultato chiaro dal convegno di Genova dell'anno scorso tra Confindustria e Ministero dell'Istruzione. La gestione delle scuola professionali e tecniche deve diventare della Confindustria che vuole preparare a suo modo i ragazzi perché possano entrare da studenti-apprendisti nel sistema produttivo a costo zero per almeno un anno. Ciancia la bimbetta di cose che sono solo la cornice del quadro che rappresenta scene di macelleria sociale che ha per vittime tutti i giovani non abbienti.
        Altri tagli di insegnanti, altri tagli di ore d'insegnamento, ... per portare clienti da subito alle scuole private confessionali. Via gli ultimi 50 mila precari e 17 mila insegnanti di ruolo man mano che vanno in pensione ed operazioni selvagge in ambito della didattica che solo gli ignorantoni sono in grado di fare mettendosi davanti ad un programma excel con nota spese e non con un ragionamento ampio e finalizzato al Paese con la preparazione fondamentale dei suoi cittadini (che intanto pagano carta igienica, sapone e carta per far funzionare quella scuola). Ora dico un'altra cosa che non può essere capita da piccoli ragionieri ignoranti, anche se avvocati in quel di Reggio Calabria. La scuola non serve molto se non punta ad una preparazione ampia e non direttamente e strettamente finalizzata ad un qualche uso. Spiego meglio. Vi sono alcuni bipedi che credono sia possibile insegnare l'uso di una macchina e con questo di aver risolto il problema. Il giovane sa tutto su quella macchina ed è insostituibile  ... fino a che quella macchina non è sostituita dopodiché la rigida preparazione di quell'ex ragazzo non serve più ed è conveniente assumerne un altro lasciando il primo come un vecchio arnese. Gli avvocati non sanno che questa operazione di preparazione specialistica su tecniche precise è fallimentare soprattutto per lo studente che deve diventare un lavoratore. Una preparazione meno specialistica e più umanistica rende molto più flessibili ed in grado di riciclarsi continuamente. Una scuola insomma (ed ormai non so se ridere o piangere di fronte ad una reiterazione che da parte mia ha almeno 45 anni) che più che insegnare nozioni insegni come imparare, come essere educatori di se stessi per tutta la vita. Non è un caso che più la preparazione scolare è spinta in un settore tecnico e meno successi di studio superiore  si hanno (i dirigenti ministeriali dovrebbero studiare le esperienze avute nel mondo, come quelle disastrose delle scuole che dovevano preparare alla fabbrica di occhiali in Germania). Le sperimentazioni, ora buttate con fare negligente ed ottuso da Gelmini,  avrebbero dovuto servire a questo ed io che ho lavorato per molto tempo alla teoria ed alla pratica di sperimentazioni so che non vi è mai chi legge i risultati per trarne conseguenze E chi dovrebbe farlo ? Chi arriva al Ministerro grazie a prodigiosi calci in culo politici ? O chi entra in istituti come Invalsi o BPD ? Se il merito non c'è in tali assunzioni, e non c'è, si ingenera una catena di cattiva trasmissione dei processi che porta al disastro e noi siamo al disastro. Possibile che, ad esempio, non si sappia che per apprendere la matematica per diventarne non solo uno che conosce a memoria i teoremi ma uno che la pratica con divertimento e successo serve prima di tutto conoscere la lingua italiana ed essere stato educato a ragionare attraverso le più disparate discipline non matematiche ? Se non si capiscono concetti elementari, connessioni logiche semplici, è impossibile imparare la matematica. E Gelmini, con cavalcata di barbari a lato, sta lavorando per insegnare più matematica tagliando proprio ciò che permette il suo apprendimento. Non hanno  capito un tubo e, lor signori medesimi, sono l'esempio dei disastri che provocano culture abborracciate e finalizzate al successo e non alla formazione. Adesso, si rifletta un istante sul potere degli avvocati in Italia, dovunque ed in Parlamento soprattutto. Se avete fatto tale riflessione ora intersecatela con quest'altra: sono loro che fanno la gran parte delle leggi in Italia. Il risultato ? In Italia abbiamo 240 mila leggi (in Germania sono 5 mila !) con una confusione anche legislativa che poi ricade sulla giustizia, enorme. E le leggi sono scritte male, non si capiscono, si contraddicono. Tanto è vero che la razza degli avvocati, che per paradosso deve interpretare tali leggi davanti a Tribunali, si riproduce in modo esponenziale se solo a Roma abbiamo 24 mila avvocati ed 8 mila uditori (apprendisti) a fronte dei soli 24 mila avvocati che operano in tutta la Francia. Ora costoro, in Italia, dovrebbero anche intervenire sulla scuola ? E nell'economia ? Una delle peggiori calamità dopo gli avvocati di Berlusconi che paghiamo noi come presunti onorevoli.
        In tutto questo crollo a catena, questo sciame sismico che rade al suolo, dove sono i pedagogisti ? Tutti quei tromboni rompiballe e rompiscuola che si sono succeduti (i gloriosi Bertagna e Ribolzi, distruttori cattolici, in allegra brigata con la Maragliano's company), alternati e poi associati (il buon senso per la scuola, ... banditi!) sono scomparsi nelle cattedre universitarie indegnamente, inventate, acquisite e proliferate per i servigi resi al potere nella distruzione della scuola. Che ne dicono della scuola di classe che riemerge (finché la classe non si renderà conto di essere tale e reagirà con forconi) ? E che dicono della scelta della vita da fare a 13 anni ? Ed ora cosa insegneranno nelle loro fallimentari pedagogie ? Ai loro studenti consiglio la lettura del principio pedagogico di Gramsci (lo studio è fatica e chi vuole spacciare il contrario è un truffatore ed impostore)(1) solo perché possano sputare in faccia a tanti piccoli opportunisti seduti in cattedra. Di quanti di tali pezzenti è lastricata la via della decadenza ? Quanti sono ! Sparsi in ogni settore. Prendete nota dei loro nomi (con malefatte a lato) e non dimenticateli quando i soliti pochi riusciranno a cambiare lo stato delle cose presente. Teneteli d'occhio perché vorranno riciclarsi dicendo che loro l'hanno sempre detto oltre ad averla sempre pensata così. Solo per disinfestare l'indegno costume italico del trasformismo che deve FINIRE !
        Cosa accadrà in futuro ? Nessuna speranza, la china ha una fine chiara e definita, il fondo di essa. Ci aiuta anche un principio base della fisica a disperare: il secondo principio della termodinamica. Per creare disordine, per destrutturare, per fare danni serve poco lavoro, la cosa è del tutto spontanea. E cosa è più spontaneo del governo in carica ? Chi ha competenze ? CHI ??? Lasciare andare e naturalmente tutto va al peggio. E' l'altra fase che è faticosa, che richiede ingegni, lavoro, impegno, quella della costruzione. Ma, ancora, CHI costruisce oggi ? Non ci sono menti, non ci sono volontà, non ci sono progetti. In tali condizioni andiamo in fondo alla china. E, lo si deve sapere, andarci è facilissimo ma risalire è difficilissimo ed a volte (insisto, a volte) impossibile. C'è qualcuno che sa quali sono le ricadute della ricerca scientifica avanzata ? Che sia al corrente dell'universo dello sviluppo di nuove tecnologie che rendono un'enormità al paese in cui si realizzano ? E che tutto ciò deriva da un'istruzione pubblica seria e da finanziamenti oculati alla ricerca ? Guardate in faccia Berlusconi, Tremonti, Schifani, Brunetta, Fitto, Giovanardi, Ronchi, Piagnona Craxi, Carfagna, Gelmini, Prestigiacomo, Vito, Meloni, Rotondi, Matteoli, Scajola, Sacconi, Fitto, Maroni, Bossi, Calderoli, Larussa, Zaia, Brambilla, Frattini, Scajola, Bondi, Castelli, Letta, Buonaiuti, Polverini, Mantovano, Castelli, Miccichè, ... e chiedetevi se tali individui potranno essere mai in grado di pensare a Ricerca & Sviluppo, magari alla sola ricerca, magari al solo sviluppo, magari al solo pensare ...
        Un'ultima cosa. Nessuna illusione sul PD che verrà e risolverà. Ho iniziato con il parlare delle nefandezze che i rappresentanti di tale partito hanno organizzato in passato e non hanno cambiato anche perché non sono intellettualmente attrezzati. O distratti o collusi. Si chiamano riformisti ma di che ? Ciò che hanno fatto li fa non credibili e conservatori, loro sì, perché non hanno capacità di intravedere altre strade, altri cammini. Chiacchieroni, boy scouts e perdenti ma con ganasce sempre più grandi ed affilate. Questo sì.

Roberto Renzetti 

(l'articolo è tratto dal sito www.fisicamente.net, curato dall'autore)