venerdì 31 dicembre 2010

C'E' UNA NOVITA': IL 2010 NON FINISCE IL 31 DICEMBRE

Per tutti quelli che pensano, illudendosi, di lasciarsi alle spalle il 2010, ci corre l’obbligo di disilluderli: il 2010 non termina come vuole il calendario, il giorno 31 dicembre. Non c’è soluzione di continuità: dal 2009 al 2011 o 2012 persiste un continuum senza interruzione, sotto tutti i profili. Vediamo meglio. La cosiddetta “crisi” economica data dalla metà del 2008: da allora ci siamo addentrati in un tunnel del quale non si intravvede neppure l’uscita. Non si tratta, lo abbiamo ripetuto più volte, di una semplice crisi economico finanziaria, si tratta di una svolta storica. Il sistema economico e politico denominato “capitalismo”, come preconizzato molti anni fa da Marx, è imploso a causa delle sue stesse contraddizioni: lasciare il mercato a se stesso, senza alcuna regola, ha provocato la discesa in campo di lugubri soggetti come gli speculatori internazionali, un pugno di soggetti che detengono le risorse finanziarie di mezzo mondo e giocano nella compravendita delle valute come ciascuno di noi giocherebbe al Monopoli. Fatto sta che questi soggetti (per lo più banchieri americani) condizionano e tengono in scacco le politiche economiche di mezzo mondo. Finchè non si troverà un vero accordo per regolamentare il mercato e le borse, continueremo ad essere condizionati da questi tristi figuri.  La globalizzazione ha causato il fallimento del capitalismo come sistema mondiale di governo economico del mondo. La politica, assoggettata come è dal potere economico non è in grado di contrastare questa tendenza. Abbiamo, da un paio d’anni, imboccato il tunnel cieco del medioevo prossimo venturo. Ci attendono anni bui, cupi, gravidi di destabilizzazione sociale, destrutturazione delle forme-stato, tumulti e tentativi di insurrezione dal basso. La classe politica odierna si può liquidare con pochissime eloquenti parole: inettitudine e corruzione. La disputa politica, nel nostro paese, si fonda sul killeraggio mediatico, non sulle questioni reali del paese. Ci si accusa a vicenda di connivenze e collusioni con prostitute, travestiti, festini a base di cocaina e chissà che altro, case acquisite non si sa da chi e per conto di chi, si scandagliano le camere da letto dei politicanti di casa nostra. Intanto le casse integrazione della grande maggioranza dei licenziati italiani volgono al termine, e non si sa bene che cosa accadrà dopo l’ultima erogazione di una parte dello stipendio. I nostri giovani non hanno la benché minima prospettiva di lavoro, e costituiscono un formidabile serbatoio di protesta sociale, che può facilmente sfociare in strutture organizzate finalizzate alla destabilizzazione, con una blanda copertura ideologica, destabilizzazione che potrebbe arrivare, considerata la rabbia che diventerà la grande protagonista delle lotte giovanili future, alla aperta lotta armata. Non sottovalutiamo il potenziale di frustrazione prodotto, nelle nuove generazioni, da una educazione al “tutto subito”, al facile consumismo, alla sistematica diseducazione al sacrificio, tutti elementi che facilmente concorrerebbero ad una deriva armata della rivolta giovanile. Una classe polita inetta ed incapace, tutta dedita al tornaconto personale, ultima in Europa, dietro la stessa Grecia, in termini di serietà professionale ed etica deontologica, una economia allo sbando, inserita in una Unione Europea che è diventata una semplice “espressione economica”, ma alla quale non corrisponde alcun comune intendimento politico. Una Europa tenuta insieme dal solo collante della moneta unica, troppo poco per affrontare le sfide della globalizzazione. Una crisi economica che ha avuto ed ha tuttora delle ricadute pericolose su noi stessi , sulle nostre coscienze, sul nostro sentirci “esseri umani”. Ci siamo chiusi in noi stessi, coltivando il nostro piccolo orticello, ci siamo depressi, abbandonati allo sconforto. Il volontariato, come tutto il terzo settore, sono in profonda crisi per mancanza di adesioni e di volontari. La crisi ha fatto di noi dei piccoli egoisti striscianti ed impauriti. Chi ha un lavoro teme di perderlo, chi ha un posto cosiddetto “fisso” nella pubblica amministrazione, tira a campare, aspettando una pensione che non verrà mai (i tetti, nella prossima primavera, saranno innalzati a 67 anni di vecchiaia e 42 di anzianità), lavorando con malavoglia, rifugiandosi sempre più spesso nelle ferie, nella malattia, nella aspettativa (povero Brunetta, ha sbagliato tutti i suoi calcoli). Il 2011 comincia dove finisce il 2010. La borsa di Milano termina l’anno con un pesante ribasso (in media il 2%), l’euribor sta perdendo punti di giorno in giorno, i titoli di Stato a tasso fisso e a lungo termine sono addirittura in picchiata. Ovviamente un potenziale investitore non sa come comportarsi: i titoli, sia di stato che bancari, a tasso variabile non sono considerati convenienti  dal momento che il tasso variabile, vincolato all’Euribor, è inchiodato all’1% da qui all’eternità. I titoli a tasso fisso, che producono cedole più consistenti, perdono terreno di giorno in giorno, se un soggetto fosse costretto a venderli prima della loro naturale scadenza  dovrebbe mettere in conto considerevoli perdite. In una parola: non è possibile, allo stato attuale, e da qui ad almeno uno o due anni,  concepire un investimento veramente conveniente e fruttuoso, considerato anche l’arresto del mercato immobiliare. Tutto, intorno a noi, è come congelato: la politica, con il Parlamento che chiude per quindici giorni fino al 14 dicembre, che richiude in questo periodo per le meritate vacanze di fine anno, per riaprire intorno al 10 gennaio (non vorremmo mica negare il ponte anche ai parlamentari!). Insomma, con una parlamento a scartamento ridotto, un ministro dell’economia immobilista, che rimane in attesa di tempi migliori (che verranno, presumibilmente, tra dieci o venti anni) è difficile pensare che l’Italia possa crescere. Non parliamo della lotta all’evasione, che semplicemente, nel nostro paese non è condotta. Ci sono forme di elusione fiscale che non sono neppure considerate un reato, da questo punto di vista anche l’Italia è un paradiso fiscale. I consumi sono crollati, gli stipendi sono congelati, perdendo però capacità di acquisto, dal momento che tutte le tariffe, da quelle locali a quella nazionali sono aumentate. Un piccolo esempio, uno solo per dare un’idea di come vanno le cose: l’assicurazione per un motociclo, in una città del nord ovest, a causa di un solo, piccolo incidente, costato una sciocchezza alle compagnie assicurative coinvolte, ha fatto balzare il premio a 250 euro ogni sei mesi. 500 euro l’anno per un motociclo di 150 cc. di cilindrata, condotto da un cinquantenne. L’ISVAP, l’autorità che dovrebbe vigilare sulle assicurazioni, ha appena fatto uscire una nota indirizzata al governo, nella quale si propone un improbabile percorso finalizzato a ridurre del 18 – 20% i premi assicurativi. Peccato che sia giunta con qualche giorno (guarda caso) di ritardo: Le assicurazione avevano già provveduto ad applicare i rincari sulle polizze rc auto. Che triste paese è l’Italia. Il solo ricorrere a questi mezzi da repubblica sudamericana, infonde al cuore una tristezza infinita. Il cittadino ha sempre di più la consapevolezza di essere trattato come un bambino cui si possono propinare le sciocchezze più improbabili. E cominciamo ad essere stufi di essere trattati come dei minorati mentali. Tutte queste tensioni, assommate alla sfiducia nei confronti di una classe politica degna dell’ultima Bisanzio, assommate al continuo salasso di posti di lavoro, ad intese formulate con sindacati aziendali che ci fanno retrocedere, nell’orologio della storia, di almeno cento anni, assommate alla crescente sfiducia dei mercati nelle possibilità (in effetti inesistenti) di crescita dell’Italia, assommate ad una protesta giovanile che, con il pretesto dell’università, esprime la sua rabbia per la assoluta mancanza di sbocchi professionali, ebbene tutto questo insieme non può che generare una miscela esplosiva. Qualche tempo fa parlavo di un possibile medioevo. Bene, ci siamo appena entrati. Ci aspettano anni difficili, senza essere necessariamente catastrofici, ma anni duri, cupi, fatti di sacrifici e di risparmi svalutati, di inflazione galoppante, di assoluta instabilità sociale e politica. E questo nella migliore delle ipotesi. Se l’Euro tiene, come tutti auspichiamo, dopo un decennio o due di sacrifici e recessioni, possiamo sperare di uscirne, ma solo a patto che la moneta unica ci protegga. Se l’euro non dovesse reggere, e si tornasse alle valute nazionali, sarebbe la fine per il nostro debolissimo paese. Confidando nella moneta unica e nella sostanziale tenuta del nostro sistema bancario, inoltriamoci comunque nel medioevo attuale (non più prossimo), e cerchiamo di uscirne con il minimo dei danni. Ma non sarà una impresa facile, ci vorranno davvero lacrime e sangue, sacrifici duri, anni difficili, uno spirito ferreo di sopportazione. Senza questo armamentario, e senza una politica (che per ora non si intravvede neppure) di riconversione del nostro deindustrializzato paese, non ne usciremo più, e saremo destinati ad una recessione che produce il default, la bancarotta dello Stato. Non più risparmi, non più stipendi, non più pensioni. Cerchiamo di tenere duro, allora, e valorizziamo l’unico patrimonio che possediamo: quello storico artistico. Non abbiamo altro. Al bando dunque ministri come la Brambilla, capaci di tutto  e buoni a niente, ministri seri, capaci di imprimere una svolta. Teniamo duro allora, non ci rimane altro da fare. Siamo italiani, ricordiamolo tristemente, la classe politica è lo specchio di questo sciagurato paese. Teniamo duro e non facciamoci illusioni: dal 2009 in poi non ci sono stati cambi d’anno, sono solo mutate le date sul calendario, ma la realtà, sotto ogni profilo la si guardi, è sempre la stessa. Almeno fino al 2012. tra un paio d’anni, forse, con una situazione più chiara e definita, saremo in condizioni di festeggiare un vero e proprio capodanno. Quello del 2013. Ma sino ad allora, per favore, niente spumante e fuochi d’artificio: dal 2009 in poi, non è cambiato nulla, e quel poco che è cambiato, è cambiato in peggio. Rimandiamo i festeggiamenti, e lasciamo perdere il calendario.

mercoledì 29 dicembre 2010

CARTOLINA AD UNA SCONOSCIUTA (Gli addii)

E così te ne vai. Piano piano, come sei arrivata. Già, come sei arrivata. Un mattino di ottobre, non più di due mesi fa, varcasti la soglia del Palazzo della Decadenza, altissima, bionda, con il viso di una bimba. Sei passata come una falena nella notte, nella notte di quel palazzo in disarmo, dall’aria cupa, oppressiva, dall’atmosfera malinconica e plumbea, abitato da rare presenze già dismesse, come polverose pratiche archiviate, nell’archivio della storia. Che cosa poteva farci una come te in quella antica dimora senza alcuna vestigia, piena di corridoi ciechi, di stambugi angusti, di scale a chiocciola infinite, di pavimenti corrosi e di finestre marcite dalla pioggia, che cosa poteva esprimere il tuo spirito bello? Non certo il lavoro, che pure hai diligentemente condotto, i libri da studiare che ti aspettavano a casa, un fidanzato lontano, non più così lontano…E noi, già invecchiati insieme alle scartoffie, ti guardavamo come un animale strano, forse raro, diverso da noi, entrata chissà come, arrivata chissà da dove. Ed io che alla mia età, solo, in mezzo ad un deserto rosso di un paesaggio marziano, io ti guardavo con la curiosità disincantata di un padre che vorrebbe solo ritrovare una figlia. Ma dopo tutti i treni perduti, le strade interrotte, gli anni buttati, mi ritrovo qui, davanti allo specchio, “qualcuno vede ancora negli occhi miei quel che gli specchi non rifletton più”. Sei venuta da un paese lontano a portare un poco di allegria, ma per gente come noi, non c’è più gioia vera, vera serenità: la nostra, al massimo, è “allegria di naufragi”. Ciononostante, il solo fatto di vederti, di parlare con te, ha generato un sottile piacere, una dolce consolazione, che solo tu, e la bambina che parla ancora in te, hanno saputo concepire e fare scorrere ancora per un po’ il nostro sangue esausto nelle vene, che ora che parti ritornano secche e sterili. E adesso il buio ricoprirà nuovamente le nostre esistenze sospese nel Palazzo, per poi tornare alla vita (ma che vita…) allorchè lo abbandoniamo per rifugiarci nel segreto delle nostre case, nei labirinti delle nostre abitudini, nei meandri delle nostre strade e dei nostri pensieri. Avevi portato l’allegria della tua smisurata tenerezza, adesso che ci lasci tutto ci sembrerà normale, ognuno tornerà alla sua fatica, ma non sarà lo stesso, perché “ogni incontro è già un addio”. Chissà se mi ritroverai, chissà se avrai capito che ti ho amata di un amore purissimo, adamantino, come solo un padre può amare. Continuerò a sbagliare, a parlare, a scrivere, a fare sciocchezze, cercando di capire quello che posso e devo fare, ma in un angolo della mia memoria ci sarai sempre tu. Spero di non rivederti mai più, vorrei continuare a pensarti così, con il viso pulito, senza un filo di trucco, non voglio vederti invecchiare e contaminare dalle malinconie della vita. Spero che conserverai sempre “quel po’ di me che porterai con te”.
U. Boccioni: "Gli addii"


Nota: i luoghi e le persone citate nel presente post sono da considerarsi puramente immaginari.

lunedì 27 dicembre 2010

FINANZA: LA PERDITA DELLE CERTEZZE

Non abbiamo, purtroppo, imparato un granchè da questa crisi epocale: sono assai di più le cose che abbiamo perduto (o disimparato) che quelle che abbiamo acquisito (almeno in termini di conoscenza).
Tra le poche cose che abbiamo compreso (sinteticamente):
1)      i responsabili della crisi: si fa un gran parlare della bolla immobiliare americana. Tutto vero. Ad un non sostanziale deprezzamento degli immobili americani sono corrisposti mutui concessi molto spesso nella totale assenza di garanzie (mutui subprime). Ma non dimentichiamo che un pugno di uomini, stimati in 100 – 150 circa, detentori, almeno virtualmente, della metà della ricchezza finanziaria del mondo, hanno giocato alla finanza creativa e spinto sull’acceleratore dei prodotti strutturati o subordinati come i derivati, scatole cinesi che rimandano ad un futuro debitore insolvente, o le facili cartolarizzazioni, crediti trasformati in documenti, che diventano poi titoli con i quali effettuare pagamenti esibendo un pezzo di carta cui non corrisponde, nella realtà un debitore solvibile. Sono solo due esempi. Ma chi doveva vigilare, soprattutto negli Stati Uniti, non lo ha fatto, sapendo di non farlo. Il presidente Bush, in primo luogo, e lo sciagurato governatore della FED, Alan Greespan, sulle cui spalle grava una enorme responsabilità, e che per questo motivo dovrebbe essere giudicato da un tribunale internazionale, per crimini finanziari nei confronti dell’intera umanità.
2)      Un sistema, quello delle borse e dei mercati completamente deregolato, abbandonato a se stesso, senza il benché minimo controllo degli stati sovrani. Ora sono in molti a lacerarsi le vesti e sostenere che il mercato ha bisogno di correttivi statali ma nella realtà, sebbene la crisi stia mostrando tutta la sua virulenza, nessuno stato dell’occidente ha realmente messo mano a questi correttivi, al massimo si è trovato un accordo Europa – USA su misure palliative più che altro simboliche. Troppo forti e potenti sono le lobbies degli speculatori internazionali, gli stessi che menzionavamo e che detengono gran parte delle risorse finanziarie del globo. Il capitalismo al suo crepuscolo ha visto esplodere una delle sue più pesanti contraddizioni: l’economia e la finanza governano il mondo, la politica ne è totalmente assoggettata. E anche questo è un segno della fine del capitalismo come sistema economico-finanziario.
3)      L’unica certezza possibile, in questo periodo, è quella di non avere certezze. Con volatilità dei mercati si intende appunto che non è possibile fare previsioni serie oltre i due mesi, e la professione del promotore finanziario ha perduto il suo significato e contenuto. Si naviga a vista, cercando, nel caso dell’Europa, di preservare l’Euro come moneta unica e di impedire altri default statali come quelli della Grecia e dell’Irlanda. Dare suggerimenti agli investitori, per il 2011, è una impresa praticamente impossibile, per questa ragione mi sento di invitare tutti coloro che detengono risorse da investire di farsi con pazienza una piccola cultura finanziaria e aderire al motto “non accetto consigli: so sbagliare da solo”.


Detto questo, e sull’onda della concezione darwiniana che “non si salvano le specie più resistenti, ma quelle che hanno maggiore capacità di adattamento” non posso che reiterare l’invito a ciascuno di noi a ragionare con la propria testa, leggendo, informandosi soprattutto presso le fonti della rete indipendenti, tenendo presente che chiunque eserciti una qualsiasi professione nell’ambito finanziario (promotori finanziari, funzionari di banca, broker, commercialisti ecc.) avrà sempre qualche interesse da tutelare, magari in buona fede, ma non sarà mai trasparente e obiettivo sino in fondo. Veniamo allora alla perdita delle certezze, sono molte, moltissime, ne elencheremo solo alcune con l’aiuto della redazione di “soldionline.it”.
Qualche esempio di “certezza” finanziaria che dopo l’ultimo decennio è meno certa? L’elenco è veramente lungo ma vale la pena ricordare alcune delle più diffuse credenze che ancora affollano in verità la mente di molti risparmiatori.

Nel lungo periodo le azioni offrono comunque i migliori rendimenti.
Oppure nella versione
Le azioni rendono più delle obbligazioni
Invece: nell’ultimo decennio investire in modo passivo sulle azioni non è stato un grande investimento. Non si è creata ricchezza ma invece si è perso potere d’acquisto. Le azioni italiane sono, infatti, mediamente scese del 44% mentre a livello mondiale il bilancio è meno drammatico anche se sempre negativo: -17,34%. Insomma, le performance passate non si sono dimostrate garanzia di eguali rendimenti futuri e le obbligazioni, nello stesso tempo, hanno ottenuto rendimenti  superiori alle azioni se si estende il confronto anche all’ultimo quarto di secolo. Fino alla fine degli anni ’90 investire in azioni veniva spiegato che avrebbe consentito nel tempo di ottenere un premio per il rischio intorno al 7% reale all’anno ma le cose non sono andate a oggi proprio in questo senso, anzi… tutto il contrario. Anche perché dal 2001 al 2010 la svalutazione della moneta è stata di quasi il 19% tenendo conto dell’inflazione del periodo secondo i soli dati Istat. Morale: chi ha investito in azioni in modo passivo ha in termini reali mediamente dimezzato il capitale di partenza. E l’investimento obbligazionario? Nello stesso periodo il rendimento in titoli governativi o corporate diretto è stato pari al 3,9% all’anno, un +50% assoluto. Quasi il sapore di una beffa.

Difficile immaginare il default di uno Stato: un’obbligazione governativa è più sicura di una obbligazione emessa da un’azienda

Invece: Alla fine del 2001 abbiamo assistito al default dell’Argentina mentre quest’anno abbiamo visto anche in Europa agitarsi lo spettro dell’insolvenza prima in Grecia e poi in Irlanda che hanno reso necessario l’intervento dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale con massicci prestiti per evitare il peggio. Per default si intende generalmente una situazione di insolvenza: il debitore non paga o non onora le scadenza. Nel caso del debito dei Paesi europei questa situazione ancora non si è verificata ma l’effetto  è stato comunque un forte calo delle quotazioni dei bond (anche di decine di punti percentuali per le scadenze più lunghe) poiché il mercato teme (a torto o ragione) evidentemente che la situazione non sia ancora normalizzata e il pericolo è ancora dietro l’angolo. Questa diffidenza si è estesa negli ultimi mesi anche ad altri Paesi europei con conti pubblici in disordine, alto debito privato e/o scarsa crescita economica. Dal Portogallo alla Spagna, lambendo anche l’Italia e il Belgio. E in questa situazione il mercato è arrivato perfino in molti casi a valutare più sicuro il debito di aziende private rispetto a quello del Tesoro.

Le azioni con dividendo elevato nel tempo sono in grado di dare le migliori soddisfazioni in termini di performance

Invece: Le soluzioni semplici attirano spesso molti risparmiatori alla ricerca di formule facili da replicare. Purtroppo i mercati sono maledettamente più complessi e quello che vale un anno, un lustro o un decennio non è assolutamente detto che valga per sempre. Soprattutto quando ci mettete i soldi voi..
E così chi negli anni passati ha costruito il suo portafoglio titoli in base a questo criterio ha avuto modo da ricredersi sulla bontà di questa teoria a vedere il comportamento di molti titoli “cedolosi” come Telecom Italia, Unicredit, Intesa San Paolo…
Se certo un’azienda che produce utili elevati e paga alti dividendi è da preferire a un’azienda in cronica perdita… acquistare un paniere di società valutandole solo in base all’ultimo dividendo distribuito è un criterio troppo semplicistico. Questo perché occorrerebbe capire la sostenibilità nel tempo di pagare sempre alti dividendi e questo fattore è legato alla capacità di un’azienda di saper realizzare elevati profitti anno dopo anno in condizioni di mercato anche differenti. Qualcosa che non è così facilmente prevedibile poiché può cambiare drasticamente la congiuntura (come abbiamo visto nel periodo 2001-2003 e 2007-2009), la situazione competitiva (per esempio l’emergere sul mercato di nuovi concorrenti più forti in grado di erodere quote di mercato), il mutato gusto dei consumatori, o la capacità del management dell’azienda di mantenere il passo precedente senza imbarcarsi in operazioni sbagliate…

Un’azienda quotata con socio di maggioranza lo Stato non può fallire o saltare

Invece: Il caso della compagnia di bandiera Alitalia la cui quotazione è stata revocata nel giugno 2008 è lì a ricordarci che tutto può accadere quando un’azienda (anche con un’azionista “eccellente” come lo Stato) non è gestita secondo criteri economici e arriva prima o poi il redde rationem. “Nessun risparmiatore ci rimetterà un euro” avevano in verità proclamato il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, in occasione del nulla osta al decreto sulla liquidazione della bad company.
Ora, a distanza di oltre due anni, gli azionisti e obbligazionisti Alitalia dovrebbero forse ricevere un rimborso però parziale pagato con Titoli di Stato di nuova emissione. Pagherò… ma non integralmente.

Una obbligazione con rating elevato offre ottime garanzie di solvibilità e di stabilità

Invece: Il rating non è purtroppo affidabile come il bollino Chiquita e in questi anni abbiamo visto bond tripla A (il massimo dell’affidabilità secondo coloro che sono pagati per dare simili giudizi come le agenzie di rating) e dintorni veder precipitare le quotazioni se non addirittura diventare carta straccia. E’ il caso dei bond Lehman Brothers che venivano perfino consigliati sul sito Patti Chiari promosso dall’Associazione Bancaria Italiana come obbligazioni “a basso rischio” ma anche di decine di titoli “tossici” che hanno evitato di fare la stessa fine solo per l’intervento pubblico e la nazionalizzazione. Basti ricordare nella crisi del 2008 i bond Fortis, Dexia, Hypo Real Estate Bank, Anglo Irish Bank, Bk Ireland per non parlare dei bond delle banche islandesi (Glitnir, Landsbanki Islands e Kaupthing Bank) che molti risparmiatori hanno scoperto improvvisamente di avere perché magari collegate a polizze vita index linked che dovevano garantire a scadenza la restituzione dei premi versati. Morale: il rating di un titolo è valido fino a quando tutto va bene…

Un fondo d’investimento con un rating elevato come le 5 stelle è sinonimo di scelta strategica intelligente e lungimirante

Invece: “Le stelle sono tante, milioni di milioni, la stella di Negroni, vuol dire qualità” recitava un Carosello di tanti anni fa. Investire senza avere le fette di salame davanti agli occhi è sicuramente consigliabile ma pensare di aver risolto il problema della gestione del patrimonio puntando sui fondi migliori del passato non è sinonimo purtroppo di eguali risultati futuri. Certo, un fondo con un buon track record (ovvero rendimento storico) ha un miglior biglietto da visita ma nessuno ci può assicurare che magari il team di gestione non cambi (ed eventi di questo tipo sono accaduti in quest’ultimo decennio nel mondo del risparmio gestito con sempre maggiore frequenza) o soprattutto il mercato sottostante non vada nella direzione contraria a quella sperata. Di esempi di questo tipo se ne possono fare a decine. Si pensi ai fondi legati alla new economy, Tmt e Internet che sembravano il “non plus ultra” da inserire in portafoglio alla fine degli anni ’90. Le quotazioni, dopo una breve stagione fortunata, si sono inabissate e molte società di gestione, per nascondere i “cadaveri”, hanno dovuto cambiare nome e specialità. Ma anche in tempi più recenti (alcuni dei fondi preferiti dagli investitori italiani nel 2007 e 2008 hanno visto crollare le quotazioni come “pere”) si è assistito a numerosi episodi di stelle… cadenti, dimostrando che nulla è “forever” nel mondo del risparmio (anche gestito).

L’investimento in titoli obbligazionari, soprattutto governativi, garantisce un rendimento magari più basso rispetto ai titoli “corporate” ma una minore volatilità
Invece: Il 2010 ha aiutato i risparmiatori a smontare anche questa credenza a vedere il comportamento di molti obbligazioni governative europee. Il prezzo di una obbligazione può variare in funzione dell’andamento previsto dei tassi d’interesse (e scendere anche sensibilmente per i titoli con scadenze più lunghe se si prevede un innalzamento) ma anche del cosiddetto rischio emittente ovvero se è ritenuto pienamente solvibile o meno. Nelle scorse settimane abbiamo assistito così a un effetto “stereo” con i prezzi dei Btp lunghi (se vogliamo parlare della sola Italia) scendere anche di una decina di punti percentuali (il Btp con scadenza 1 settembre 2040 rendimento 5% è passato da 107 ai 96 attuali) sul doppio timore che i rendimenti possano risalire e che l’emittente possa avere qualche difficoltà futura. Una volatilità che è stata perfino superiore a quella osservata su titoli corporate. E che si è osservata anche nelle scadenze brevi a 2-3 anni se si pensa che il Btp con scadenza 2013 (rendimento lordo 4,25%) è passato dai 106 di inizio ottobre 2010 ai 103,5 attuali arrivando anche a perforare al ribasso quota 102. Una discesa di oltre 2,5 punti percentuali: non proprio poco per un investimento considerato tranquillo…

Un titolo che ha perso molto non ha molto senso venderlo (soprattutto se in perdita) perché nel tempo dovrebbe recuperare il suo valore originario
Invece: Non vendere un titolo perché… più di così non può scendere non è stata mai in verità una legge con un fondamento solido o scientifico ma forse, in ossequio alla legge del pendolo, molti risparmiatori hanno voluto ostinatamente credere a questo falso assioma che i “vecchi di Borsa” traducevano in “i prezzi prima o poi si rivedono…”. Il decennio passato offre invece la dimostrazione più lampante che legare indissolubilmente il proprio destino finanziario a un titolo azionario o un fondo può rivelarsi una strategia a perdere… Molti dei titoli “stelle” di inizio 2000 oggi non fanno nemmeno bella figura nelle stalle: Tiscali (-99,62%), Seat Pagine Gialle (-99,46%), Telecom Italia Media (-95,51%%), L’Espresso (-83,79%), Mondo Tv (-92,4%)…
Alcune società sono state delistate (Fastweb ex eBiscom, I.net), altre sono fallite (Gandalf, Finmatica). Vale sempre la stessa regola: le società mutano come il mercato e il giudizio sulla bontà di un investimento dovrebbe attenersi a criteri dinamici. Quello che oggi piace al mercato magari non piacerà più domani. Ed è il Mercato il giudice supremo non il nostro ego.

Gli hedge fund consentono di ottenere rendimenti decorrelati rispetto alle azioni soprattutto nelle fasi di forte discesa

Invece: La crisi del 2008 ha trascinato all’ingiù tutti i mercati, dimostrando che la presunta decorrelazione di alcuni asset rispetto ad altri esiste più nella teoria che nella realtà soprattutto quando se ne richiede disperatamente l’esistenza. Gli hedge fund sono stati protagonisti non solo di clamorosi casi di truffa in larga scala (di cui la vicenda di Bernard Madoff è la più colossale ma non la sola) ma anche di illiquidità di questo strumento nelle condizioni di maggiore tensione e che hanno costretto i sottoscrittori a periodi (in molti casi ancora non terminati) a lunghe code di attesa (side pocket) per rivedere liquidati i propri soldi in caso di riscatto. Va però correttamente precisato che la normativa italiana sugli hedge fund e le società di gestione italiane si è dimostrata per una volta all’altezza della situazione e a differenza di quello che è accaduto in altri Paesi e presunti… paradisi bancari da noi non si è visto l’inferno.

Affidare i propri risparmi a un gestore o a un fondo è la migliore soluzione poiché in questo modo si può delegare la selezione dei migliori investimenti a chi fa questo di professione e può continuamente valutare rischi e migliori opportunità

Invece: La favoletta che basta firmare una delega in bianco a qualcuno perché pensi lui a farvi diventare ricchi purtroppo è rimasta tale nonostante che a raccontarla erano (e sono tuttora) in molti: giornalisti, banchieri, pseudo esperti, promotori finanziari e private banker… Tutti soggetti quasi sempre in conflitto d’interesse dato che una parte consistente del loro compenso dipendeva da quanti credevano a questa storiella. Se si confronta invece l’andamento dei mercati con quello dei fondi d’investimento si scoprirà che i guru del risparmio gestito non hanno nel 90% dei casi fatto meglio del mercato e protetto i loro sottoscrittori ma anzi fatto perfino peggio del relativo sottostante complici scelte infelici, atteggiamenti passivi e alti costi di gestione. Nell’ultimo decennio i fondi azionari internazionali (secondo l’Indice Fideuram, il più rappresentativo della categoria) hanno, infatti, perso oltre il 17% mentre i fondi azionari Italia quasi l’8% e i fondi obbligazionari sono saliti del 20,8%. Tutti risultati ampiamente inferiori all’andamento dei rispettivi benchmark tenendo conto, nel caso degli indici azionari, anche dei dividendi distribuiti. Morale: affidarsi ai professionisti del risparmio gestito non ha creato valore (una terminologia che piace molto agli addetti ai lavori) ma l’ha distrutto. Questo non vuol dire naturalmente che consideriamo da parte nostra i fondi d’investimento uno strumento del demonio, anzi! Possono essere anzi uno strumento indispensabile per operare su tutti i mercati ma a patto di utilizzarli non in modo passivo come cerchiamo di fare nei nostri portafogli (e con un discreto successo a vedere i risultati realizzati in questi anni), valutando di volta in volta quali sottoscrivere ma soprattutto quando entrare, uscire, switchare…

Fonte: redazione di “soldionline.it”

venerdì 24 dicembre 2010

IL COLORE DEI SOLDI (attenzione alla beneficenza)

Mi sembra opportuno, proprio nell’atmosfera piena di bontà e di buoni propositi, tipica del Natale, andare in contro tendenza e sollevare un argomento mai affrontato dai media di casa nostra: sembra si tratti di una sorta di tabù, giustificato dal giro miliardario di quattrini che gravita intorno a questo argomento: la beneficenza. Mi sembra opportuno affrontare la questione, data la mole impressionante di spot televisivi, di inserzioni sui giornali, di inviti che arrivano nelle nostre case attraverso i call center , telefonicamente, o tramite la corrispondenza ordinaria, oltre a quella online. Un vero e proprio bombardamento. Basti pensare a Telethon. Non vorrei apparire irriverente, ma quando penso ai ricercatori italiani sui tetti mi sorge qualche perplessità. Parliamo della medicina, il settore che ci riguarda più da vicino (dall’astrofisica, forse, possiamo anche prescindere). Il 90% della ricerca medica è effettuata dalle multinazionali farmaceutiche che mobilitano (e se lo possono permettere) plotoni di fior di ricercatori, profumatamente pagati, per scoprire la molecola che, alleviando le sofferenze di un gran numero di malati nel mondo, faranno impennare i grafici dei profitti delle loro aziende. Il resto della ricerca, quella compiuta nelle sedi istituzionali, come le Università italiane, è praticamente trascurabile. E’ una triste verità, ma è la verità. Almeno la metà dei proventi raccolti da Telethon se ne va in “costi di gestione e spese amministrative”, nel mantenimento, cioè, di un apparato burocratico di cui faremmo volentieri a meno, e di posti di lavoro che, Dio non voglia, potrebbero anche non sussistere. Se dovessimo elargire donazioni a tutte le associazioni che sono sorte in questi ultimi anni a vario titolo, la maggior parte per la ricerca su un numero imprecisato di patologie (esiste una associazione per la ricerca sul raffreddore? Forse no. Bisognerebbe provvedere), o quelle che prometto assistenza a distanza a popolazioni in regime di povertà nel terzo mondo, le adozioni a distanza, i progetti per l’ apertura di ospedali, case famiglia, scuole, pozzi, ambulatori, centri di prima accoglienza, consultori, orfanotrofi e via dicendo (la lista è quasi infinita) finiremmo con lo sperperare l’intero nostro stipendio. Ma se una selezione della beneficenza è il minimo che si richiede al cittadino, le insidie si nascondono anche dietro le più blasonate (come l’Unicef , Telethon e soprattutto la Croce Rossa). Ancora una volta siamo costretti a menzionare la trasmissione televisiva “Report”. Una delle ultime puntate è stata dedicata appunto allo scandalo dei conti della Croce Rossa italiana. La storica organizzazione è diventata una specie di agenzia di collocamento per parenti ed amici in cerca di un lavoro facile o inesistente. (Ma ugualmente lautamente retribuito). Teniamo presente che non è praticamente possibile seguire la filiera delle nostre donazioni, per la semplice ragione che queste associazioni non governative o onlus non pubblicano i loro bilanci. E questo è un primo elemento sul quale riflettere. Perché la non pubblicazione del bilancio è una prima motivazione per scartare questa o quella associazione. Il cittadino deve essere in grado di seguire la sua donazione passo per passo, per conseguire la certezza che i propri averi non vadano a finire nelle mani sbagliate, vale a dire  di quelli che si dovrebbero occupare di impiegare tali risorse per il bene dell’umanità. Si parla in questo casi di “business della beneficenza”. Quando sentite che qualche personaggio celebre, sia esso un cantante, uno stilista, un famoso attore ecc. devolve i proventi di qualcosa che lo riguarda in beneficenza, diffidate sempre. Nella quasi totalità dei casi quei quattrini finiscono nelle tasche dei faccendieri che circondano tali famosi personaggi. Un altro elemento di sospetto è che non si parli mai di qualche eventuale scandalo scaturito dalla beneficenza. Come mai? Possibile che siano tutte anime belle coloro che gestiscono questi danari? Possibile che tutti siano mossi dal sacro fuoco dell’altruismo e che nessuno sia mai stato sfiorato dalla tentazione di intascarsi qualcosa? Fatto sta che i poveri rimangono sempre più poveri, soprattutto nel terzo mondo, e che la ricerca sulle malattie, se fanno qualche progresso, lo dobbiamo esclusivamente alla case farmaceutiche. Come credete che siano stati scoperti i super utilizzati inibitori della pompa protonica, gli antisecretori che vengono largamente utilizzati nella cura delle ulcere gastroduodenali e dei reflussi gastroesofagei? Da una casa farmaceutica, non da un brillante ricercatore indipendente. Il silenzio dei media sull’argomento può solo essere motivato dall’enorme giro di affari che gravita sul terzo settore, che se presenta localmente (soprattutto nelle pubbliche assistenze), dei livelli di eccellenza, per altri versi e in altri ambiti risulta nascosto da sospetti coni d’ombra. Riporto di seguito due testimonianze che ritengo illuminanti in tal senso, e mi permetto di consigliare a tutti di aiutare e far beneficenza solo a livello locale, ad enti o associazioni che siamo in grado di controllare direttamente, e diffidare di tutto ciò che ci perviene dalla televisione, dalla stampa, dal telefono o dalla posta. A pensare male, diceva qualcuno, si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre.


Aiutare un bambino a distanza. Tanti spot. Tanta pubblicità. Tanta omertà. Queste le constatazioni amare di una nostra lettrice, che due anni fa ha scelto Intervita Onlus, come mezzo privilegiato per sostenere a distanza un piccolo bambino del Guatemala. Un versamento trimestrale di 72 euro, e la fiducia nell’Associazione, tanto sponsorizzata in Italia da tutti i mass media, che il contributo arrivasse a destinazione, per lo sviluppo di una comunità in difficoltà. Ti inviano la foto di un bambino, ti aggiornano con un periodico cartaceo di come vengono utilizzati i tuoi soldi, ti abbindolano con i lavoretti creati dal tuo assistito e ti invitano anche a raggiungere il Guatemala, a dimostrazione della limpidezza dell’operato dell’Associazione. Poi un bel giorno, ti scrivono una lettera, in cui augurandoti un buon 2008, accennano a vaghi problemi verificatesi in Spagna, per cui la tua adozione a distanza sarà dirottata dal Guatemala al Senegal.

Ma cerchiamo di capire meglio cosa è successo.
In Spagna è scoppiato circa 9 mesi fa uno scandalo che ha coinvolto Intervida Spagna, che è la casa madre di Intervita Italia, e che ha filiali anche in Francia, Stati Uniti e Giappone, su presunte irregolarità nella gestione dei fondi raccolti dagli oltre 340.000 sostenitori spagnoli. Gia dall’aprile 2007 alcuni giornali, come El Pais e Abc, davano l’allucinante notizia. La magistratura spagnola di Barcellona ha indagato i vertici dell'Associazione, per aver versato complessivamente 45 milioni di euro a conti personali e imprese create da Intervida: i soldi destinati ai bambini sembrano essere andati a pagare i debiti delle aziende. Solo ad agosto però l’inchiesta è culminata con l’accusa di “presunta” frode e di (sempre presunta) appropriazione indebita mossa a sei dirigenti, tra cui il fondatore sia della sede spagnola sia di quella italiana (Intervita), della quale ha mantenuto la presidenza fino a luglio 2007.

Come è andata a finire.
A luglio, in Italia è stato azzerato il consiglio direttivo facente capo all'inquisito presidente spagnolo e nuovi soci italiani ne hanno assunto il controllo, sia per rafforzare la propria indipendenza all’interno del network internazionale (Intervida World Alliance) sia come reazione a quanto stava accadendo in Spagna. Solo qualche giorno fa a migliaia di famiglie è giunta una breve comunicazione da Intervita, datata 23 novembre 2007, ma recapitata (chissà perché) a destinazione solo dopo le festività (forse perché a Natale siamo tutti più buoni con le donazioni), nella quale Intervita (Italia) si dissocia da Intervida (Spagna), e per assicurare la trasparenza e la buona fede, sospende le adozioni a distanza nel Sud America. Del tuo bambino non avrai più notizia. E neanche dell’effettiva destinazione dei soldi che hai versato per 2 anni.

Conclusioni.
Il tuo piccolo “amico” del Guatemala, sarà rimpiazzato con un altro bambino, questa volta del Senegal, magari per un'altra bufala a danno di chi davvero crede che oggigiorno valga ancora un gesto d’amore verso chi a più bisogno. Una bufala del cuore prima che del portafoglio, con la totale e complice omertà dei maggiori organi di informazione italiani.

Caterina A. Stuppia

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Il business della beneficenza torna sotto i riflettori dopo lo scandalo Unicef in Germania: ecco cosa succede in Italia
Carità per i cristiani, zakat per i musulmani, dana per i buddisti. Mai come oggi, un gesto antico e semplice come la donazione ai più poveri è diventato complesso e insidioso. Il nome Unicef, che evoca assistenza per i bambini di tutto il mondo, è appena stato infangato da uno scandalo finanziario in Germania, che ha portato alle dimissioni del presidente e del direttore. Pochi mesi fa la Francia ha dovuto affrontare una crisi internazionale provocata dall´Arca di Zoé, la piccola Ong diventata il simbolo dell´interventismo selvaggio nei paesi poveri. Sei volontari sono ancora in carcere per aver tentato di rapire più di cento bambini alla frontiera tra Ciad e Sudan. In Spagna, lo scorso anno l´organizzazione Intervida è finita sotto inchiesta per appropriazione di fondi destinati alle adozioni a distanza, come già successe a un´associazione di Genova, tre anni fa. Ed è ancora aperta l´inchiesta dell´Unione europea su alcune associazioni italiane accusate di abusi nell´utilizzo dei finanziamenti Ue.
Ci si può fidare di chi lavora in nome della beneficenza? È possibile controllare chi dice di dedicarsi agli altri? Se si, come? Domande legittime, se si considera che solo il 17,8% delle 350mila onlus italiane utilizza uno strumento di trasparenza come il bilancio sociale e che lo scorso anno a queste associazioni sono arrivati 193 milioni di euro solo tramite il 5 per mille. «La strada per l´inferno è lastricata di buone intenzioni» maligna Jordi Raich, un ex dirigente spagnolo di Medici Senza Frontiere. «L´Arca di Zoé non è la pecora nera, nel gregge ormai l´eccezione sono le pecore bianche. Negli ultimi anni - continua - sono proliferate Ong incompetenti e fittizie che nel migliore dei casi si dedicano ad arricchirsi, nel peggiore invece usano il marchio della beneficenza per coprire reti di pedofilia, finanziamento di gruppi estremisti, evasione fiscale, traffico d´armi». Giulio Marcon, presidente di Lunaria, è diventato la coscienza critica del Terzo Settore italiano. Pur essendo meno catastrofista del collega spagnolo, avverte: «Fidarsi è difficile dappertutto. Da noi, è quasi un azzardo».
Ettore Abate, revisore di conti per la Ernst & Young. «Se dovessi dare un consiglio a un donatore italiano - spiega - gli direi di chiedere innanzitutto il bilancio sociale della Ong che ha scelto di sostenere». Creato negli anni scorsi, questo documento è un primo passo verso la trasparenza dell´attività di associazioni che, in nome del non profit, a lungo sono sfuggite a qualsiasi controllo. «Oltre ai dati economici, vengono pubblicate informazioni qualitative in grado di illustrare i risultati della "mission" dell´organizzazione», spiega Abate. Eppure questo strumento da noi è quasi ignorato: non essendo obbligatorio per legge - come invece accade in molti paesi europei - solo un´associazione su sei lo utilizza. La trasparenza comunque non è tutto: bilancio alla mano, chi sarebbe in grado di decifrare cosa si nasconde sotto "servizi finanziari" e "materie prime", fare la differenza tra "promozione progetti" e "fundraising" o capire se i costi del personale in missione sono compresi alla voce generale "stipendi" o a quella "costi del progetto in loco"? Altro problema: in Gran Bretagna e Francia la rendicontazione dei singoli progetti è obbligatoria, in Italia no: eppure questo è un modo per garantire ai donatori che i soldi devoluti a una finalità non siano poi stornati verso altre missioni o altri scopi. E´ in nome di questo principio. ad esempio, che nel 2005 Medici Senza Frontiere bloccò le donazioni per lo Tsunami una volta raggiunta la cifra necessaria alle operazioni.
«I bilanci dovrebbero essere comprensibili e accessibili da tutti» dice Carlo Laganà, partner di Deloitte, un´altra società specializzata nella certificazione dei conti. In Italia, concordano gli esperti, il cittadino-benefattore parte davvero svantaggiato. Le amministrazioni pubbliche sono più tutelate: ogni finanziamento alle Ong deve essere poi oggetto di un riscontro, ma per i privati non ci sono disposizioni simili. Anche nel caso del 5 per mille, da cui le Ong hanno tratto nel 2006 quasi 193 milioni di euro, le autorità pubbliche non hanno imposto l´obbligo di fornire riscontri ai cittadini. «Diciamo che i controlli non piacciono a nessuno. Anche le Ong fanno resistenza» osserva Marcon, che all´ambiguità degli aiuti umanitari ha dedicato un libro.
Per comprendere l´affidabilità di un gruppo, la certificazione dei bilanci da parte di terzi - facoltativa ma praticata dalle più grandi organizzazioni umanitarie - è una prima garanzia importante: dimostra che c´è stato un controllo indipendente. Ma neanche questo è sufficiente. «Quello che serve davvero per conquistare la fiducia di chi ci finanzia è la continuità - racconta Daniele Scaglione di Action Aid Italia - da noi ci sono sei persone incaricate di tenere contatti con i donatori. Cerchiamo di far sapere nel modo più dettagliato possibile dove vanno i soldi». Sforzo lodevole ma, ancora una volta, del tutto volontario. In Germania, per esempio, esiste dal 1893 lo Deutsches Zentralinstitut für soziale Fragen che si occupa di controllare e certificare le Ong. L´unico tentativo di creare un´Authority italiana del settore sta fallendo. Il presidente dell´Agenzia per le Onlus, Stefano Zamagni, ha avvertito che, con i tagli previsti dei fondi, l´organismo governativo incaricato della vigilanza sul non profit potrebbe chiudere entro agosto. Consola poco il fatto che il problema sia comune: quando la Federazione europea per l´etica e lo sviluppo ha inviato 4000 questionari sul tema trasparenza alle più grandi ong europee, sono tornate indietro meno del 10 per cento delle risposte.
Peccato, perché il Terzo Settore avrebbe davvero bisogno di più regole e controlli. Negli ultimi quattro anni in Italia le Ong sono aumentate del 23% e così il flusso di denaro che si è riversato verso associazioni, fondazioni, cooperative sociali. «Fino agli anni Trenta - ha scritto il giornalista americano David Rieff, autore di "Un giaciglio per la notte" - solamente i missionari, occupati a salvare le anime, o i comunisti, intenti a fomentare la rivoluzione, agivano sulla base di un sistema di valori ispirato alla solidarietà universale». Dalla guerra del Biafra (1963) in poi si è invece sviluppato l´umanitarismo non governativo e trasnazionale e i soggetti sono diventati migliaia, così come le loro attività. Da noi lo tsunami è stato uno spartiacque tra i gruppi di volontari vecchia maniera, legati a un´idea romantica delle missioni, e le nuove aziende umanitarie con stipendi pressoché identici alle multinazionali dell´industria. In quel Santo Stefano 2004 si è capito che il nostro paese poteva essere un mercato ricchissimo per le Ong: oltre 47 milioni di euro furono raccolti solo attraverso gli Sms. «E´ stato allora che molte organizzazioni internazionali hanno deciso di aprire una succursale italiana» osserva Marcon. La figura del "fundraiser", dipendente o consulente specializzato nella ricerca di fondi, è diventata sempre più importante: il suo compito è affrontare la dura competizione sul portafoglio degli italiani. La beneficenza è diventata un gadget che spunta nelle liste di nozze, in mezzo a una partita di calcio, dentro al concorso a premi. Con effetti paradossali. Quale azienda investirebbe 600mila euro per ricavare soltanto 90mila, come nel 2006 è capitato per una campagna di fundraising di una grande Ong? I costi del marketing sono lievitati vertiginosamente fino a rappresentare in qualche caso quasi un quinto del bilancio delle associazioni.
Se nessun cittadino può pensare che un euro donato si trasformi integralmente in un euro di cibo o medicine trasportati dall´altra parte del mondo, perché tutte le Ong hanno dei costi di mantenimento necessari e legittimi, la domanda da porsi è: qual è la giusta proporzione? Negli Stati Uniti, gli esperti fissano un tetto del 30% alle spese di struttura di una Ong. Se un´associazione destina al progetto meno del 70% della donazione iniziale non è considerata efficiente. «Ricordiamoci però che a seconda della missione umanitaria i costi della struttura variano di molto. Un´organizzazione con personale medico specializzato avrà spese superiore a quella che distribuisce soltanto pacchi di riso e può utilizzare giovani volontari» specificano all´Istituto italiano per le donazioni, il primo, e finora unico, organo che propone una sorta di "certificazione" delle Ong. Nato tre anni fa, ha creato il marchio «donare con fiducia», slogan che riassume la crisi di credibilità del settore. «Abbiamo un filo diretto con i cittadini - racconta una delle responsabili, Lorena Varalli - E´ vero che oggi c´è una maggiore richiesta di garanzie da parte dei donatori, ma non bisogna lanciare allarmismi». La risposta delle Ong alla Carta della donazione è stata ancora timida: 28 sigle hanno aderito al marchio, altre 15 sono in attesa di passare tutti i controlli.
In questo universo del bene che sta diventando una gigantesca nebulosa si rischia di tornare ad antiche abitudini. «Dare dei soldi soltanto a chi si conosce, di mano in mano» dice Marcon. Più piccola è l´Ong, più è redditizia per i donatori, come dimostra una recente ricerca della società di analisi Un-Guru per il Sole 24Ore. In cima alla pagella di efficacia figura la Fondazione James non morirà (99,6% dei fondi raccolti effettivamente devoluti alla missione), che opera unicamente in Etiopia e si basa solo su lavoro volontario. «I gruppi piccoli hanno però un impatto ridotto - avverte Roberto Salvan, direttore del Comitato italiano per l´Unicef - Possono agire su una singola comunità o comunque in spazi limitati. Solo i grandi come noi sono in grado di agire subito di fronte a una crisi». Come altre agenzie delle Nazioni Unite, l´Unicef è stata spesso criticata per i costi di gestione troppo alti. «Ma - conclude Salvan - avere una struttura pronta ad agire in qualunque momento costa molto. Non bisogna illudersi».
Dopo aver parlato del singolare meccanismo che sta alla base dell'8 per mille, e dopo aver indagato un po' più a fondo sul modo in cui la Chiesa impiega i soldi che riceve, vale la pena di completare il discorso verificando che fine facciano i (pochi) quattrini che attraverso questo istituto arrivano allo Stato.
Ebbene, avvalendoci dell'aiuto di Wikipedia, apprendiamo che nel 2004 lo Stato ha ricevuto dall'8 per mille circa 100 milioni di euro (un decimo di quelli che si è accaparrata la Chiesa, by the way), e che ha impiegato tali fondi nel modo che segue:
  • 44,64% conservazione beni culturali legati al culto cattolico;
  • 24,73% calamità naturali;
  • 23,03% conservazione beni culturali civili;
  • 4,44% fame nel mondo;
  • 3,16% assistenza rifugiati.
Come vedete, quasi la metà del denaro ricevuto dallo Stato attraverso l'8 per mille viene immediatamente rigirato alla Chiesa Cattolica, sia pure sotto la (non troppo) velata forma di restauro e conservazione di chiese, cappelle, conventi, seminari e simili, i quali tra l'altro sono di proprietà del Vaticano e, sia detto per inciso, manco pagano l'ICI.
Per le calamità naturali non resta che un quarto dei fondi; i quali sono già una miseria di per sé, ma diventano una somma addirittura ridicola se si pensa che in drammatiche circostanze come il terremoto in Abruzzo si sarebbe potuto attingere a quel capitolo esortando gli italiani a dare l'8 per mille allo Stato, magari con una martellante diffusione di spot televisivi, ma in realtà ci si è ben guardati dal farlo, evidentemente per non sottrarre risorse alla Chiesa.
Insomma, gente, pare che non se ne esca: giratela pure come volete, ma gran parte dei quattrini dell'8 per mille vanno a finire alla Chiesa non solo se uno glieli dà o se non li destina esplicitamente a nessuno, ma perfino se li vuole donare allo Stato.
E poi hanno pure il coraggio di dire che si tratta di una libera scelta.

Francesca Caferri


La chiesa cattolica così come gran parte delle chiese evangeliche fondamentaliste ed in parte quelle protestanti non si preoccupa più dei poveri da molto tempo. Del povero ci si interessa per scopi "politici" cioè per la politica della Chiesa non perchè abbiano un valore intrinseco in se o perchè rappresentino "qualcosa" .Gli spot pubblicitari che fanno vedere in tv per incentivare le donazioni dell'otto per mille alla CCR (fatti a nome delle Caritas diocesane) vanno per l'80% al sostentamento del clero ed alle spese più urgenti del vaticano e delle varie sedi vescovili ; il restante 20% va ad opere di carità cioè ai poveri però nelle seguenti percentuali: il 16% ai poveri del terzo mondo (fuori dall'Italia) il 4% va ai poveri italiani che affollano le varie caritas diocesane . Ci sono molti studi su questo argomento; basta cercarli in rete.

mercoledì 22 dicembre 2010

ACTA EST FABULA (alcune previsioni per il 2011)

Così, tanto per non perdere il ritmo, vediamo le previsioni in materia economico-finanziaria della prestigiosa SAXO BANK; noterete comunque, a riprova del fatto che formulare previsioni è appannaggio dei sensitivi o dei paragnosti, che non si tratta di nulla di particolarmente esplosivo, e questo nonostante siano state presentate da diverse testate come “clamorose”. Fin qui tutto bene. Tuttavia, in coda, riprendo un fondo pubblicato da "soldionline.it", che, in poche righe, condensa il possibile dramma che ci attende. E’ curioso come dieci previsioni tutto sommato scontate vengano presentate con tanto di grancassa, e poche righe che preludono al tragico ritorno alle valute nazionali, siano tralasciate o snobbate come prive di importanza. Eppure è proprio    sull’Euro in quanto moneta unica che si gioca tutto il nostro avvenire. Provare per credere.

1. Il Congresso americano boccia il QE3 di Bernanke
Nella seconda metà del 2011, la Federal Reserve si troverà in una posizione davvero difficile per essere stata la principale responsabile del fiasco immobiliare, per il conseguente salvataggio delle banche e per la situazione catastrofica in cui versa il debito pubblico. Nello stesso periodo, le cosiddette banche “troppo grandi per cadere” si troveranno di nuovo in seri guai. Il Congresso americano bloccherà l’autorità della Fed sui bilanci e la sfiderà sul suo doppio mandato che riguarda i dati occupazionali e l’inflazione.

2. Apple compra Facebook
Attraverso alcune interviste Steve Jobs, fondatore di Apple, ha dichiarato che tra la sua azienda e il famoso social network ci potrebbero essere delle opportunità di partnership, ma che gli ultimi incontri ancora non avrebbero portato a nulla di concreto. I vertici di Apple hanno fatto sapere che
Facebook era alla ricerca di condizioni economiche che non potevano essere accettate. La situazione potrebbe portare Jobs a decidere per l’acquisizione totale di Facebook.

3. US Dollar Index supererà quota 100
La curva della crescita economica sarà per un po’ positiva in alcune aree del mondo, ma poi salteranno fuori problemi per la Cina. La lenta crescita del settore industriale cinese provocherà un crollo dell’appetito al rischio globale. Assieme all’economia giapponese che lotta per la sopravvivenza e l’Eurozona in preda al caos, il dollaro Americano inizierà a essere più interessante. Il districarsi di queste posizioni spingerà lo US Dollar Index su del 25%, fino a superare quota 100 verso la fine del terzo trimestre del 2011.

4. Il rendimento dei bond a 30 anni del Tesoro americano scivolerà al 3%
La politica di svalutazione del dollaro, che affonda le sue radici nella cosiddetta “guerra delle valute” del 2010, costringerà i mercati emergenti a utilizzare più dollari di scorta sui bond governativi. Gli sforzi del quantitative easing della Fed verranno vanificati dalla situazione in cui verseranno i bilanci delle banche americane. La BCE, l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale falliranno nella loro battaglia per sanare i mali dei PIIGS periferici indirizzando il gregge degli investitori confusi verso il porto sicuro dello Zio Sam. Il sentiment positivo scomparirà nel 2011 e i rendimenti dei bond a 30 anni del Tesoro americano scenderanno al 3%.

5. Il cambio dollaro australiano-sterlina inglese precipiterà del 25%
Il 2011 segnerà il ritorno della Gran Bretagna ai suoi valori tradizionali: gli inglesi lavoreranno di più, risparmieranno di più e sorprendentemente nel corso del 2011 si metterà in moto una forte espansione. L’Australia d’altro canto si troverà a combattere con un’economia che si indebolisce, mentre la Cina farà sempre più fatica a stoppare l’inflazione prima che la situazione le scappi di mano. Assieme al mercato immobiliare australiano, la situazione sembra una bolla pronta a scoppiare e i fatti determineranno un declino del cambio AUD/GBP del 25%.

6. Il petrolio giù di un terzo
Il greggio, ora guidato dalle macro-aspettative fondamentali degli investitori, verrà trascinato su, superando i 100 dollari al barile nei primi mesi del 2011, grazie all’ondata di euforia provocata dall’economia americana finalmente libera dalle catene. Il greggio soccomberà a una violenta correzione di un terzo più tardi nel corso del 2011.

7. Il gas naturale aumenterà del 50%
Il gas naturale entrerà nel 2011 con un’eccedenza di offerta, dato che la flessione globale aveva già comportato un surplus rispetto alla domanda in questi ultimi due anni, dando luogo a un biennio di perdite a due cifre. Ma l’accresciuta domanda industriale, lo storico basso prezzo del greggio e del carbone, un avanzamento della curva di appiattimento e le proposte di esportare più gas dai giacimenti degli Usa, sono tutte situazioni che si uniscono per far sì che gli investimenti passivi sul gas aumentino di valore. Inoltre, una brusca ondata di freddo porterà a un veloce esaurimento delle scorte, così da provocare un rialzo del 50% che non si era mai registrato negli ultimi 25 anni.

8. L’oro si rafforzerà fino a 1800 dollari mentre ci sarà un’escalation nella guerra delle valute
La cosiddetta “guerra delle valute” tornerà ad oltranza nel 2011, spinta dai miglioramenti dell’economia americana. Il deficit Usa della bilancia commerciale si allargherà e la Cina sarà messa sotto pressione. Mentre gli investitori fuggiranno dai metalli, l’oro s’impennerà fino ai 1800 dollari per oncia.

9. Lo S&P500 toccherà il picco più alto della storia
La Fed nel 2011 continuerà a immettere liquidità nel sistema. Gli investitori realizzano che l’unica strategia buona da seguire sarà quella di comprare sui ribassi, anche se la tattica funziona per la Fed nonostante essa sia un castello di carte e i consumatori americani iniziano a spendere quando il loro portafoglio azionario migliora. Ma il corporate americano non crederà all’euforia che si basa sul teorema che un buon prezzo di un’azione significa per forza buona salute e continuerà in operazioni di deleveraging in funzione di una sana ripresa. L’indice del benchmark americano vedrà il picco del 2007 nello specchietto retrovisore mentre percorrerà la sua strada verso quota 1,600.

10. L’indice RTS russo raggiunge 2500
La prossima bolla nell’economia globale inizierà a gonfiarsi all’inizio dell’anno, mandando il greggio sopra i 100 dollari al barile. L’investitore americano medio non farà niente con i suoi soldi, se non comprare sui ribassi del mercato azionario americano. Quelli che invece investiranno nel mercato russo realizzeranno il valore P/E a un anno di 8.6 e il P/B di 1.26. Il RTS raddoppierà quasi fino a 2,500 nel 2011.



Due sono gli scenari che Cliffe (ING) delinea: il primo prende in considerazione la sola uscita della Grecia dall'Unione europea, il secondo il ritorno al passato con tutti gli Stati membri pronti a coniare le vecchie divise, finite adesso tra le mani dei collezionisti. Secondo i calcoli effettuati dallo strategist di Ing mentre la prima ipotesi avrebbe un peso limitato sui Paesi dell'Eurozona in quanto la produzione si contrarrebbe appena dell'1%, il dissolversi di Eurolandia avrebbe conseguenze ben più drammatiche. Con le nuove valute in caduta libera di almeno il 50% e anche di più, le economie della Periferia come Spagna e Portogallo vedrebbero i tassi di inflazione raddoppiare. Mentre la Germania e i paesi core andrebbero incontro a shock deflazionistici.

martedì 21 dicembre 2010

NON COMMENTABILE

Ebbene sì, per una volta, al cospetto delle dichiarazioni del Sig. Brunetta rese durante la trasmissione “Porta a porta” del giorno 20 dicembre, sono costretto ad astenermi da qualsiasi commento ed a trincerarmi dietro il ben noto “no comment”. Non per la paura di improbabili querele (anche se ricordo a tutti i miei cari lettori che il sottoscritto firma i post e ci mette la faccia, quella vera, non quelle virtuali che affollano il sito del signore in questione). Davanti a quelle dichiarazioni, ebbene, rinuncio a discutere. Non si può commentare l’incommentabile, una realtà rovesciata rispetto a quella del mondo che ci circonda, un paese che esiste solo nella testa di questo signore e dei suoi spot televisivi di propaganda personale (pagati però con i fondi del suo ministero). Con una disoccupazione al 8,7%, ma che sta viaggiando verso il 9 – 10%, una disoccupazione giovanile ben oltre il 24%, la cassa integrazione giunta alla fine per migliaia di italiani, la realtà rappresentata dal signor Brunetta esiste solo nella sua fantasia. Qui siamo oltre la gag, la pochade, la sit-com. Non è neppure comicità involontaria, è sur-real politik. Il signore in questione si era già distinto, in passato, per una sua macabra circolare sui malati oncologici nelle Pubbliche Amministrazioni. In questo capolavoro funerario si precisava che, in ogni caso, il malato di cancro è tenuto a rispettare le fasce orarie di reperibilità (non deve, per il solo fatto di aver il cancro, ritenersi un privilegiato) e lo si incoraggiava, per non farlo sentire inutile, a ricorrere, qualora sopravissuto alla malattia, a forme di lavoro alternative come il telelavoro o il part-time. So di suscitare l’incredulità di molti, per questo la rendo accessibile al seguente link. Un vero capolavoro. Non spenderò mai più una sola parola su questo personaggio, rispetto al quale l’on. Scilipoti è un gigante del libero pensiero e della scienza politica. Non merita neppure il disprezzo, che è pur un sentimento, può solo essere ignorato.

sabato 18 dicembre 2010

PARLANDO DEL NAUFRAGIO DELLA LONDON VALOUR

La «Jolly Amaranto» si è trovata in balia del mare in tempesta al largo delle coste egiziane con i motori in avaria e i soccorsi, inizialmente programmati per domenica, è slittato a causa del maltempo che imperversava sulla zona. Il «Simoon» è partito da Creta e avrebbe dovuto raggiungere il cargo alle 18:00, ma il mare forza 8 ha imposto una navigazione molto lenta. Sono inoltre falliti i tentativi di riparare il motore nella sala macchine a causa delle oscillazioni della nave. Le condizioni meteo e del mare erano già leggermente migliorate domenica rispetto a sabato sera e i marinai sono anche riusciti a riposare per qualche ora. La situazione è stata monitorata costantemente dalla stessa compagnia che, dalla sala operativa di Genova, ha avuto periodici contatti con il comandante Federico Gatto. Dopo alcuni giorni di inutili tentativi, alla fine i rimorchiatori sono riusciti a guidare la nave all’interno del porto, procurando però un lungo taglio lungo la chiglia, che ha rischiato di disperdere l’intero carico nelle acque della rada egiziana. Gli uomini di bordo sono stati tutti tratti in salvo.

Questa vicenda, ormai nota a tutti, soprattutto a noi genovesi, ha fatto riemergere alla mia memoria un’altra, lontana e ben più drammatica vicenda marina, il naufragio della “London Valour”. Io stesso, allora appena decenne, assistetti con altre migliaia di genovesi, dalla circonvallazione a mare di corso Aurelio Saffi, al dramma che si consumava sotto i nostri occhi, impotenti e angosciati. Fu una delle immagini che mi restò indelebilmente impressa nella memoria, ed ebbe un tale impatto, anche per gli eroici tentativi che furono messi in atto per salvare i naufraghi, da motivare una delle più belle canzoni di Fabrizio De Andrè, “Parlando del naufragio della London Valour”, scritta insieme a Massimo Bubola, e contenente il miglior testo in assoluto scritto dal cantautore genovese, un testo di difficile lettura, tutto intessuto di metafore evocative e allusioni alla politica di quegli anni.

Riassumiamo in breve la vicenda, con l’aiuto di Wikipedia, e leggiamo con la massima attenzione il testo della canzone, inserita da De Andrè nell’album “Rimini”.
La mattina del 9 aprile 1970 la London Valour era alla fonda, posizionata circa 1300 metri a sud della testata di levante della diga foranea Duca di Galliera. Improvvisamente sulla città si abbatté una libecciata di enorme violenza; verso le 14:30, per via del fortissimo vento, l'ancora della nave cominciò a perdere la presa sul fondo marino, cosa che portò la nave ad un pericolosissimo avvicinamento alla barriera frangiflutti, e che finì poi per farla sbattere violentemente contro gli scogli posti a protezione della stessa barriera.
L'incidente apparve subito grave, tanto che sul posto arrivarono immediatamente rimorchiatori, ormeggiatori, motovedette della Capitaneria di Porto, e dei Carabinieri, nonché alcune imbarcazioni con civili a bordo i quali coraggiosamente tentarono di prestare soccorso. Le condizioni proibitive del mare, tuttavia, non permisero di avvicinarsi alla scogliera: le onde erano infatti alte oltre 4 metri e le raffiche di vento raggiunsero i 100 chilometri orari.
Migliaia di genovesi (tra i quali io stesso) assistettero impotenti alla tragedia che si consumò sotto i loro occhi. La poppa della nave si schiantò contro gli scogli; alle 14:45 si riuscì a stendere tra la diga ed il ponte della nave una doppia cima di nylon sulla quale si pensava di far scorrere una carrucola munita di imbragature, cercando di allestire un cosiddetto andirivieni. In questo modo si voleva infatti tentare di trarre in salvo i membri dell'equipaggio.
Poco dopo la messa in opera dell'andirivieni, la nave si spezzò in due tronconi; l'equipaggio, composto in gran parte da marinai filippini si ritrovò così diviso in due gruppi. Il rudimentale accorgimento dell'andirivieni, creduto sulle prime efficace, si rivelò invece deleterio: la cima di nylon infatti, a causa dei movimenti della nave colpita dalle onde, cominciò a rilassarsi per poi tendersi, sbalzando così in aria i naufraghi, che finirono con lo sfracellarsi sugli scogli.
Ancor più tragica fu la fine di Dorothy e di suo marito Edward Muir, comandante della nave. La donna infatti venne sbalzata in acqua; il marito, che aveva assistito alla tragedia, rifiutò gli aiuti, e dopo aver indossato il giubbetto di salvataggio si lanciò in mare, nel tentativo sconsiderato e ormai inutile di salvare la consorte, finendo col perire anche lui. Insieme a loro moriranno anche il radiotelegrafista Eric Hill, sua moglie, e sedici uomini dell'equipaggio.
L'intervento di soccorso compiuto dalla motovedetta CP 233 della Capitaneria di Genova, l'unica a raggiungere lo scafo, fu una delle operazioni di soccorso più difficili mai condotte dalle Capitanerie di Porto. Il tenente di vascello Giuseppe Telmon e i suoi sette uomini furono poi insigniti, per il loro gesto eroico con la Medaglia al Valore di Marina, d'oro per il comandante, d'argento per l'equipaggio. Questi uomini misero infatti in grave pericolo la propria vita, riuscendo a portare in salvo ben 26 persone.
Non venne dimenticato neanche il comportamento eroico del comandante del dipartimento aereo dei Vigili del Fuoco  di Genova, il NH Cap. Rinaldo Enrico, il quale, incurante di ogni pericolo ed a rischio della propria vita, si levò in volo con un elicottero per lanciare salvagenti ai naufraghi. Questi tuttavia, per via del combustibile riversatosi in mare, ebbero gravi problemi a raggiungere le ciambelle, e molti di loro non ci riuscirono. Il comandante Rinaldo Enrico perì non molto tempo dopo durante un'esercitazione. Nel luglio del 1975 gli fu conferita la medaglia d'oro al valor civile, e la cittadinanza volle ricordare il suo impegno apponendo una targa di ringraziamento in dialetto genovese nel borgo marinaro di Vernazzola (quartiere Sturla di Genova).


PARLANDO DEL NAUGRAGIO DELLA LONDON VALOUR

I marinai foglie di coca digeriscono in coperta
Il capitano ha un amore al collo venuto apposta dall'Inghilterra
Il pasticciere di via Roma sta scendendo le scale
ogni dozzina di gradini trova un mano da pestare
ha una frusta giocattolo sotto l'abito da té

E la radio di bordo è una sfera di cristallo
dice che il vento si farà lupo, il mare si farà sciacallo
Il paralitico tiene in tasca un uccellino blu cobalto
ride con gli occhi al circo Togni quando l'acrobata sbaglia il salto

E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli
i marinai uova di gabbiano piovono dagli scogli
Il poeta metodista ha spine di rosa nelle zampe
per fare pace con gli applausi, per sentirsi più distante
la sua stella si è oscurata da quando ha vinto la gara di sollevamento pesi

E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva
ruba l'amore del capitano attorcigliandole la vita
Il macellaio mani di seta si è dato un nome da battaglia
tiene fasciato dentro il frigo nove mascelle antiguerriglia
ha un grembiule antiproiettile tra il giornale e il gilè

E il pasticciere e il poeta e il paralitico e la sua coperta
si ritrovano sul molo con sorrisi da cruciverba
a sorseggiarsi il capitano che si sparava negli occhi
e il pomeriggio dimenticarlo con le sue pipe e i suoi scacchi
e si fiutarono compatti nei sottintesi e nelle azioni
contro ogni sorta di naufragi e di altre rivoluzioni
e il macellaio mani di seta distribuì le munizioni.

venerdì 17 dicembre 2010

PREPARATE I FAZZOLETTI

Le ultime vicende politiche di questo sempre più sciagurato paese non sarebbero neppure degne di una menzione in questo blog: probabilmente nessun sito internet o blog che avessero un minimo di dignità e decoro dovrebbero ospitare un qualsiasi commento a qualcosa di irricevibile, incommentabile, talmente di gran lunga è stato superato il limite della decenza, del decoro, dell’umana sopportazione. Chiedo venia, se cedo alla tentazione di azzardare non dico un commento, ampiamente scontato, ma qualche osservazione marginale, a latere, sull’avanspettacolo messo in scena il giorno 14 dicembre. La madre di una mia cara amica, da tempo depressa, stazionando davanti alla televisione per tutta la giornata del 14, durante la lunghissima diretta sul voto parlamentare, ha ritrovato, almeno per un giorno, un buonumore ed una franca risata che non sperimentava più da tempo. Questo dato non è da sottovalutare. Significa che il Parlamento non è più una camera dei rappresentanti, ma è diventato un proscenio, in qualche caso un palcoscenico dove, di volta in volta, si rappresenta una farsa che prelude in modo inquietante ad una tragedia. I fatti sono noti a tutti. Bersani, con un inconsueto (per lui) motto di spirito, ha dichiarato “è nato il governo Scilipoti-Razzi”. Sotto gli occhi di tutti la compravendita di deputati ha prodotto qualche risultato. E’ verosimile che per amore di una poltrona, ci saranno altre defezioni e altrettante folgorazioni sulla via di Damasco. E’ persino probabile che sia nato una sorta di “borsino” del voltagabbana, una specie di tariffario per invogliare il tale deputato o il tal’altro a fare un triplo salto mortale e passare con Berlusconi. Un discorso a parte, tuttavia, merita l’on. Scilipoti, un caso umano degno di figurare negli annali del Lombroso o in qualche trattato di psichiatria. Intanto, ci si domanda: dove lo ha raccattato questo esemplare l’on. Di Pietro? Anche perchè un tipo simile bisogna andarlo a cercare con il lanternino, con una certa fatica, perché fortunatamente non sono poi così frequenti simili fenomeni. Non conosce l’idioma italico, parla con un pesante accento meridionale, con un periodare confuso e inintelligibile, alla fine di un suo discorso è difficile capire quanto voleva esprimere. E poi, la faccia. Con una faccia simile, che vagamente ricorda quella di Lino Banfi (con tutto il rispetto per l’attore), avrebbe un futuro come comico, una specie di “Pappagone “ moderno. E’ possibile essere, sentirsi rappresentati da un simile grottesco personaggio? Un breve approfondimento, mandato in onda da “Anno zero” ha evidenziato collusioni pressocchè provate di questo signore con la mafia e la ‘ndrangheta. Con quella faccia, non poteva che essere così. Chiusa la parentesi, doverosa, su questo saltimbanco, torniamo alla farsa parlamentare. Non commenteremo in questa sede il possibile futuro di un presidente del consiglio con evidenti problemi psicofisici (rimando all’articolo “Un caso clinico”), che fonda la sua maggioranza sui voti di qualche cialtrone alla ricerca di notorietà o di poltrone, vorrei invece richiamare l’attenzione sulla tragicomica pantomima messa in scena dai parlamentari italiani, di qualsiasi schieramento, da qualche mese a questa parte. Prima le leggi ad personam, il legittimo impedimento, i lodi Alfano, Schifani ecc. , il processo breve, e tutti gli altri salvacondotti per il premier; poi la casa di Fini a Montecarlo, una tempesta in un bicchier d’acqua generata dagli sgherri di Berlusconi, poi la paralisi del Parlamento con la lunga attesa del 14 dicembre per poi partorire il topolino del governo “Berlusconi – Scilipoti”. L’opposizione che si balocca nell’imitazione della peggiore Democrazia Cristiana, con la costituzione, in quello che diventerà un partitino, di correnti, quella della Bindi, di D’Alema, di Veltroni, di Bersani ecc. Una sinistra estrema, quella di Vendola, destinata ad un secondo, tragico, fallimento. La frettolosa costituzione in polo di Futuro e Libertà, che, ancor prima di nascere come soggetto politico, perde i pezzi per la strada. La costituzione, dicevamo, di un polo con l’UDC e l’API sa molto di un tentativo velleitari di erigere uno scudo da contrapporre alle sirene berlusconiane. Ora tutta questa manfrina, dove ognuno recita una parte in commedia, senza un momento di verità, senza un solo guizzo di sincerità e schiettezza, sarebbe tutto sommato divertente, esilarante, se non fosse che questa banda di sfaccendati senza capo né coda dovrebbero, almeno in teoria, governare un paese alla deriva economica. Solo la classe politica greca ha saputo fare peggio. Ma noi siamo secondi solo a loro. Nessuno, dico nessuno di questi tristi figuri ha la statura di uno statista, non emerge in questi tempi dannati una sola figura che si distingua per spessore politico, per dignità morale. I giornali stranieri ridono di questo paese, ci dileggiano e vessano continuamente, il retro pensiero dei giornalisti e commentatori esteri è sempre lo stesso: “beh, si sa, in fondo sono italiani…” A dire che l’italiano si è sempre distinto per gli imbrogli, l’arte di arrangiarsi, l’inclinazione al melodramma, strizzando magari anche l’occhio alla malavita organizzata. Sullo sfondo, dietro le quinte dello spettacolino, c’è l’Italia in ginocchio, la disoccupazione al 9% (ricordiamo che ogni posto di lavoro perduto è perduto una volta per tutte), il 5% (per adesso) delle famiglie che non è più in grado di pagare il mutuo, le prime prove, da parte dei giovani, di guerriglia urbana, una crescita ferma all’1%, inferiore alla quasi totalità dei paesi UE, una pressione fiscale che sfiora il 44%, terza, dopo la Svezia (46%) e la Danimarca (48%). Una evasione fiscale scovata dai volonterosi giornalisti di “Report” e “Striscia la notizia” e ignorata dalla Guardia di Finanza – che, tra l’altro, farebbe meglio a tenersi informata guardando la televisione – un debito pubblico fuori controllo, la prospettiva di una ennesima manovra a primavera che metterà mano alle pensioni, aumentando l’età pensionabile a 67 anni e l’anzianità a 42 anni. Non si rendono conto, queste marionette senza fili che l’instabilità politica provoca un riverbero negativo sui mercati e sulle borse, mettendo a repentaglio il nostro rating ed esponendoci ulteriormente alle speculazioni internazionali? La politica spettacolo è divertente finchè rimane in scena, ma quando la musica è finita (e i suonatori se ne vanno) allora comincia il viraggio verso la tragedia, che avrà costi umani elevatissimi. In questi mesi stanno terminando le casse integrazioni per migliaia di ex lavoratori, il cui futuro è letteralmente indecifrabile. Anche un bambino capirebbe che in una simile congiuntura economica dovrebbe essere il governo ad incaricarsi, attraverso il ministero dello sviluppo economico ad apportare i correttivi del caso e ad attivare quelle iniziative, come gli sgravi fiscali alle piccole imprese, o la promozione di settori strategici come il made in italy, il turismo, la conservazione e promozione del patrimonio storico e artistico. Ma il ministro dello sviluppo economico si chiama Romani, e fa il massmediologo. Di sviluppo economico non capisce un bel nulla. Che talento ha avuto Berlusconi nel mettere le persone sbagliate nel posto sbagliato! La Carfagna alle pari opportunità, la Gelmini all’istruzione, la Melloni alle politiche giovanili, la Brambilla al Turismo! In un paese dove l’evasione e l’elusione fiscale non è perseguita perché non la si vuole perseguire (verrebbe da chiedersi perché manteniamo un corpo militarizzato come la Guardia di Finanza), dove la pressione fiscale grava solo sui lavoratori dipendenti (altro che i fannulloni dello pseudo ministro Brunetta), un paese dove il Parlamento assomiglia sempre più alle tavole di un palco dove va in scena una commedia dove si recita a soggetto, dove un pugno di omiciattoli si vendono per trenta denari, dove periodicamente si replica una farsa tragicomica, nella quale si ha sempre di più la percezione da parte del cittadino dell’autoreferenzialità, della totale perdita di contatto con il paese, del pavoneggiarsi stupido e ridicolo dei parlamentari che si beano  dei propri discorsi vuoti e inconcludenti, inascoltati anche dai propri colleghi parlamentari, che o sono assenti o sbadigliano dall’inizio alla fine, in questo paese dobbiamo tirare fuori i fazzoletti per asciugarci gli occhi lacrimanti per le risate, lo sbellicarsi dinanzi a questo spettacolo, davvero esilarante. Tra poco, quando tutti i nodi dell’economia verranno al pettine, i fazzoletti li dovremo tirare fuori una seconda volta per asciugare le lacrime e sangue che questa sciagurata classe politica farà sgorgare dalle nostre pupille, con i nostri risparmi andati in fumo, con i salari che perderanno una larga parte del loro potere di acquisto, con un inflazione alle stelle. Come si vede, in entrambi i casi, avere i kleenex a portata di mano, potrà farci comodo. Ci vorrebbe un Robespierre, che gestisse un periodo ben circoscritto di sano “Terrore” che mondasse e spazzasse via questa classe politica non emendabile, non redimibile, degna solo di scomparire nella più ingloriosa delle maniere.Le cronache parlamentari di questo periodo sembrano uscite dalla penna di un Gogol o di un Rabelais. Rimando il mio benevolo lettore al racconto di E.A. Poe "la maschera della morte rossa", esprime quello che la larga maggioranza dei cittadini vorrebbe fare di questa classe politica.

lunedì 13 dicembre 2010

10 MOTIVI PER ESSERE OTTIMISTI (e almeno 2 per essere pessimisti)

Nel pieno delle nuove tensioni sui debiti sovrani alcune superficiali e irresponsabili banalizzazioni mediatiche sono arrivate al punto di prefigurare un rischio Italia. Ma vi sono almeno dieci buone ragioni, fondate su indicatori oggettivi, per cui gli italiani non dovrebbero cadere per l'ennesima volta nella trappola dell'autolesionismo che è loro familiare. E ve ne sono altrettante, nonostante il brutto clima che c'è in giro, che dovrebbero portare alla conclusione che in base ai fondamentali l'Europa e l'euro non siano assolutamente a rischio.
A meno che l’Europa stessa non decida di farsi del male da sola (anche rappresentando confusamente ai mercati il suo effettivo stato di salute), facendo così un bel regalo di Natale ai super indebitati Stati Uniti e al dollaro.
1. Ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Questo è l'indicatore più importante per capire la sostenibilità finanziaria di un'economia nazionale, non il Pil. Le famiglie sono l'unico "polmone" finanziario delle economie. Infatti, le imprese e i governi hanno normalmente dei debiti finanziari mentre le banche sono dei semplici intermediari i cui bilanci dipendono dal modo, prudente o sconsiderato, con cui prestano denaro agli altri. Tutti, dalla Commissione europea (alle prese con il ridisegno del Patto di stabilità) alla Bce, dagli economisti agli opinionisti, dagli investitori agli speculatori, farebbero bene a capirlo.
L'Irlanda è "saltata" non perché il suo Pil non brillasse o il suo debito pubblico fosse alto (era anzi tra i più bassi) ma perché la ricchezza delle famiglie e con essa il sistema bancario dell'Irlanda sono crollati sotto il peso dei debiti privati e dello scoppio della bolla degli asset immobiliari alimentata dalle banche stesse. La Grecia è "saltata" non perché non riesce a pagare il proprio debito pubblico con il Pil (nessun governo, tra l'altro, ha mai pagato i propri debiti con il Pil) ma perché la ricchezza finanziaria netta delle famiglie greche è ormai talmente bassa da essere addirittura la metà del Pil.
Se anche volesse, la Grecia oggi non potrebbe nemmeno introdurre un'imposta patrimoniale per risanare i propri conti statali perché il patrimonio dei greci si è semplicemente dissolto e non c'è più nulla da tassare ma solo spesa pubblica da tagliare. L'Italia ha invece il più alto rapporto tra ricchezza finanziaria netta delle famiglie e Pil in Europa, di gran lunga davanti a Francia e Germania. Ma molti (anche in Italia) lo ignorano.
2. Debito pubblico estero. Il vero tallone d'Achille dei paesi dell'Euroarea in questo momento non è tanto il debito pubblico complessivo ma quello estero, che è in balia degli umori dei mercati e sotto il tiro della speculazione. Pochi forse sanno che a fine giugno 2010 il debito pubblico estero italiano era di 837 miliardi di euro, inferiore a quello della Germania (978 miliardi) e della Francia (1.037 miliardi). La domanda vera allora è: nel caso limite (e sottolineiamo limite più volte) in cui gli investitori stranieri non sottoscrivessero più il debito pubblico estero, i paesi dell'Euroarea possiedono le risorse finanziarie interne sufficienti per far fronte a una simile eventualità? L'unico cavaliere bianco che in ultima istanza può venire in soccorso ai governi è il sopracitato stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie, non il Pil che è solo un flusso già allocato pressoché integralmente in domanda interna ed estera nell'anno stesso in cui viene generato. In base alla ricchezza, su sette paesi analizzati, solo Irlanda e Grecia non ce la farebbero a evitare il default. Persino Spagna e Portogallo, pur avendo qualche banca pericolante e una crisi economica interna gravissima, che per diversi anni determinerà un netto peggioramento delle condizioni di vita dei loro abitanti, dispongono di uno stock di ricchezza finanziaria netta delle famiglie più che sufficiente per rimpiazzare in tutto o in parte il debito pubblico estero eventualmente non più sottoscritto dagli stranieri. L'Italia ha oggi il più basso rapporto tra debito pubblico estero e ricchezza finanziaria netta delle famiglie, migliore di quello della stessa Germania. Il nostro paese, nell'interesse di tutti gli italiani, farebbe bene a dare ampia risonanza di ciò ai mercati perché forse tanti investitori (e speculatori) non ne sono consapevoli.
3. Debito pubblico totale/ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Anche considerando il debito pubblico totale e prendendo come riferimento il suo prevedibile anno di picco, cioè il 2012 secondo le ultime previsioni della Commissione Europea, risulta che solo Atene e Dublino sono nettamente fuori linea se si rapporta tale debito alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie. Questo rapporto (e non quello del debito pubblico/Pil) dovrebbe essere una delle fondamenta del nuovo Patto di stabilità: esso non dovrebbe superare il 60%, con facili margini di rientro per Italia, Francia e Portogallo, che oggi lo superano di poco, mentre alla Spagna sarebbe richiesto un impegno un po' più forte. Valutata con parametri più sensati, la crisi dei debiti sovrani europei, in realtà, è una tempesta in un bicchier d'acqua. Una tempesta che nasce dagli errori concettuali di comunicazione al mercato dell'Europa stessa (basati sull'attribuzione di un significato fuorviante e quasi apocalittico al parametro del debito pubblico/Pil) e che è aggravata anche dai continui messaggi contraddittori dei suoi leader, a cominciare dalla "maestrina" Angela Merkel come ha bene sottolineato Romano Prodi sul Messaggero alcuni giorni fa. Il rischio default riguarda solo due piccoli paesi dell'Euroarea come Grecia e Irlanda. L'idea che la Spagna possa fallire, pur avendo compiuto in questi anni drammatici errori di politica economica (grandemente finanziati dalle banche tedesche), è pura follia. A meno che gli europei e la loro moneta unica non vogliano imitare in tutto e per tutto i lemmings.
4. Il debito aggregato. Consideriamo ora, oltre al debito pubblico lordo, anche il debito delle imprese non finanziarie. Scopriamo che rispetto a questo debito aggregato, il "polmone" della ricchezza delle famiglie, alle cui attività finanziarie nette a questo punto vanno aggiunti anche gli asset immobiliari per avere una visione più completa dello stato patrimoniale privato, risulta assolutamente adeguato in Francia, Germania e Italia: tutti paesi che vantano dei "debt/equity" nazionali tranquilli, intorno al 32-38 per cento. Portogallo e Spagna sforano di poco la soglia classica del 60%, mentre soltanto le solite Irlanda e Grecia appaiono in crisi conclamata.
5. Debiti delle famiglie. Le famiglie italiane sono poco indebitate, con appena 21.800 dollari in media per adulto (prevalentemente mutui ben investiti in case che, diversamente da quelle di americani, irlandesi e spagnoli, non hanno perso valore). Le famiglie più indebitate sono invece quelle irlandesi, con 77mila dollari per adulto. Soltanto le famiglie greche sono meno indebitate di quelle italiane. Ma è una scarsa consolazione per i greci, perché in Grecia il rischio default non è nato dal debito privato bensì da quello pubblico e dalla progressiva erosione e dalla fuga all'estero dei patrimoni familiari.
6. Distribuzione della ricchezza. Un paese sopporta meglio una grande crisi economica non soltanto se possiede un elevato stock di ricchezza finanziaria netta e immobiliare delle famiglie, ma anche se tale ricchezza è ben distribuita e non concentrata solo in poche mani. È importante allora guardare a indici di equidistribuzione come la ricchezza mediana. Quella italiana è di gran lunga la più alta nella Ue a 27 (ed è seconda al mondo solo dopo quelle degli australiani e dei norvegesi). L'Irlanda, pur molto distaccata dopo l'Italia, è al secondo posto per ricchezza mediana tra i sette paesi qui esaminati. Ciò significa che gli irlandesi, se il loro stato eviterà il default, dovranno fare sacrifici durissimi per venir fuori dal tunnel ma che hanno i mezzi per farcela.
7. Bilancio primario. Secondo i dati consuntivi e previsionali della Commissione Europea (non del governo italiano), nel quadriennio 2008-2012 l'Italia si caratterizza per il miglior bilancio primario pubblico (una media dell'1,5% del Pil) davanti alla stessa Germania (0,4%). Tutti gli altri paesi sono in disavanzo e i più sotto pressione sono Irlanda, Grecia e Spagna.
8.Tasso di disoccupazione. Germania e Italia hanno i più bassi tassi di disoccupazione. I più alti sono quelli di Spagna, Irlanda e Grecia.
9. Esposizione delle banche verso i paesi "periferici". Secondo un recente studio di Deutsche Bank, le banche italiane sono di gran lunga le meno esposte verso Grecia, Irlanda e Portogallo (per un totale di soli 26 miliardi di euro nei tre paesi). Quelle più esposte sono le banche tedesche (213 miliardi) e francesi (142 miliardi).
10. Competitività reale. La reale competitività di un'economia si misura con i fatti e non con indicatori astratti (di gran moda nei convegni e nei dibattiti sulla stampa, a cominciare da quello abusato della "produttività" fino agli "eterei" tassi di cambio reali). E la vera competitività si misura sui mercati più difficili, non sul mercato interno europeo che ormai è un grande mercato comune. I fatti ci dicono che, se escludiamo l'energia, l'Italia (con 38 miliardi di euro nel 2009) è seconda nella Ue a 27 solo alla Germania (107 miliardi) per surplus commerciale con i paesi extra Ue. Anche l'Irlanda ha un bel surplus (17 miliardi) ma se lo è costruito non con il lavoro e la genialità dei propri imprenditori (come l'Italia) bensì con vantaggi fiscali anacronistici (e inaccettabili in un mercato unico come quello europeo) che hanno attratto nell'isola multinazionali che avrebbero invece dovuto pagare le giuste tasse nei loro paesi d'origine.
Marco Fortis (“Il sole 24 ore”)

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Detto questo, dobbiamo, con altrettanta chiarezza, precisare che:
Il bollettino BCE per l’Italia è stato sicuramente meno drammatico del previsto e va a sottolineare in modo evidente quanto andiamo sostenendo su queste pagine da mesi. L’Italia al momento non è un paese a rischio default e la volatilità sui nostri Titoli di Stato deve essere vista come interessante occasione d’acquisto anziché un chiaro segnale di rischio. Ecco cosa dice in massima sintesi il Bollettino BCE sull’Italia. Questo però non ci deve far abbassare la guardia, anche perché qui la crisi si inizia a sentire sul serio. Ne è testimonianza il fatto che Bankitalia lancia l’ennesimo allarme sui mutui: il 5% degli italiani non ce la fa più a pagare le rate. La morale è abbastanza semplice: la situazione del consumatore italiano medio si sta logorando. Quindi se fino ad oggi l’Italia è sembrata essere una piccola “isola felice” in quanto non è stata centrata in modo eccessivo dalla crisi finanziaria soprattutto delle banche (in quanto il nostro sistema bancario è fondamentalmente più solido rispetto a quello di altre consorelle europee), oggi la situazione sta gradualmente degenerando. La gente sta erodendo i risparmi (grande forza della nostra economia) e pian piano si trova senza soldi. Il tutto però accade con una crescita economica prevista veramente risibile. Ed infatti…la disoccupazione diventerà un ulteriore problema che si abbatterà sul nostro paese. La BCE già si dice, a ragione, seriamente preoccupata per questo fattore. Da una parte, sarebbe necessario un forte piano di sostegno dell’economia, e dall’altra il forte debito pubblico e Bruxelles non ci permettono grossi colpi di testa. Anzi, occorre tagliare le spese, tagliare il superfluo, visto che non si riesce a crescere, cercando di fare il possibile per recuperare un po’ di quei ratio (debito/PIL + deficit/PIL) che ci vedono deficitari.
Quindi purtroppo, anche se la BCE ha disegnato un quadro fondamentalmente stabile per il nostro paese (Oggi) non possiamo non essere preoccupati per il futuro.
Occorrono riforme ed interventi veri. E tanti sacrifici. E prima di tutto ci vuole anche la buona volontà della classe politica nel fare un qualcosa diveramente costruttivo per il futuro. Oggi invece, ci si preoccupa solo del borsino di politici e dei vari passaggi tra i vari orientamenti. Chi era di destra va a sinistra, e viceversa, chi si dichiara di sinistra, si comporta da destra e viceversa. Senza una logica…anzi no…solo secondo la logica del potere fine a se stesso. Regna come sempre l’interesse personale e l’egoismo.

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Poco più di un mese fa dopo il varo del nuovo piano di quantitative easing varato dalla Federal Reserve (QE2) scrissi una nota di disappunto, in un articolo titolato: “il quantitive easing genera nuove crisi”.

Come spiegavo in dettaglio, iniettare di  nuova liquidità nel sistema economico porta pochi benefici nel breve periodo e tanti problemi nel medio/lungo. Gli Stati Uniti, ma l’economia in generale è afflitta da problemi molto gravi e in molti casi degenerativi. E’ come un drogato (e lo dico con tutto rispetto) che ha bisogno di droga, continua ad assumerla ma dopo ogni dose sai bene che avrà bisogno di altre dosi, e così via, questo finchè deciderà di affrontare il problema con il dovuto sacrificio e sofferenza.

Ecco, questa è la situazione degli Stati Uniti e dell’economia mondiale in generale. La dipendenza dal quantitative easing è tale che se dovesse cessare riporterebbe l’economia nuovamente in recessione. Ma se una volta in recessione continui a drogarlo di liquidità cresci ma non risolvi il problema.

Perché ci troviamo in questa situazione? Semplicemente perché la crisi non è stata affrontata nel modo giusto. La crescita maturata a partire dallo scorso anno è stata drogata dai dollari stampati e buttati sul mercato in maniera folle che hanno favorito il ciclo di riaccumulo delle scorte. Ma ora dovrebbe toccare consumarle queste scorte e come? I consumi non sono ripartiti anzi. E come mai?

Perché l’economia reale non respira aria di ripresa anzi, per certi versi le cose sono peggiorate. Prendete il mercato del lavoro. Se la gente non lavora non consuma, se non consuma le imprese non producono, se le imprese non producono vuol dire che non fanno profitti, se non fanno profitti non pagano le tasse, se non pagano le tasse lo stato deve attingere alla finanza pubblica e fare altro deficit. Ecc… e potremmo continuare fino a domani mattina.

Il quantitative easing è finito tutto nelle mani di grandi merchant che si sono arricchite sempre più alla faccia dei piccoli risparmiatori. Lunedì scorso Bernanke ha ricominciato a parlare di QE3 .. e probabilmente nel Fomc del 14 dicembre ufficializzerà la cosa. Ma al Q3 seguirà il QE4, poi il QE5 e così via…

Credo che tra qualche anno (i tempi non sono ancora maturi) si tornerà in recessione. E sarà una crisi lunga e profonda, con deflazione e finanza pubblica dissestata. Ma sarà una grande opportunità, quella di mettere l’uomo e il lavoro al centro dell’economia. Un’occasione di discontinuità con la logica del profitto di pochi GRANDI, per pianificare una crescita sostenibile nel lungo periodo. (Gianrocco Mecca)