sabato 16 luglio 2011

PARLANDO AI GRANDI

Non vi tedierò con le solite scontate analisi sui mercati e sulle borse, non vi annoierò con i soliti bollettini medici sulla finanza ed economia del nostro paese. Che le cose vadano di male in peggio  è sotto gli occhi di tutti. Non passa giorno che non rechi una cattiva notizia. Chi possiede un portafoglio titoli, di qualunque entità e di qualsiasi diversificazione esso sia,  vede costantemente ed inesorabilmente calare i suoi utili.
Cerchiamo di sollevare allora un po’ lo sguardo, e proviamo a dare una risposta all’interrogativo che tutti si pongono: che cosa accadrà, come andrà a finire? E’ palese che questo stillicidio continuo non potrà proseguire indefinitamente. Gli stress test per conquistare il Core Tier 1, il test di Basilea 3, la messa sotto osservazione da parte di Moody’s dell’intero sistema italiano, il fallimento (perché di fallimento si tratta) di Grecia, Portogallo e Irlanda, la consapevolezza che una manovra fatta di soli tagli di spesa senza crescita non porta da nessuna parte, i costanti ribassi dei titoli bancari, sottoposti ad una pioggia continua di vendite, lo spread tra titoli di stato italiani e bund tedeschi in costante crescita, ben oltre i 300 punti, la debolezza ed impreparazione della nostra classe politica, ma soprattutto la deindustrializzazione del nostro paese sono tutti elementi che, messi uno accanto all’altro, non fanno che condurre economia e finanza italiane verso un’unica direzione. Se a ciò si aggiunge la macroeconomia, il liberismo globale che sta conoscendo il suo pieno fallimento, ma il cui crepuscolo lascerà parecchie vittime lungo la strada, il quadro è completo. Vivendo in uno sciagurato mercato globale e senza regole, il possibile default degli USA (ormai è più che una mera ipotesi) trascinerebbe l’Europa nel disastro economico. L’Europa, unita da una fragile moneta, disunita su tutto il resto, non appare assolutamente in grado di fronteggiare il disastro imminente. Gli estenuanti rinvii sul debito greco, la mancanza di una presa netta di posizione la dicono lunga su questa sorta di rassegnazione che sembra avere paralizzato quello che rimane di una Unione Europea che è ridotta all’ombra di se stessa, ad una grottesca parodia.
Ma allora, che succederà? Abbiamo ipotizzato come fase 3 della crisi la creazione di un euro a due velocità: un euro1 (Germania, Austria, Danimarca, Olanda, Finlandia) ed un euro2 svalutato del 30% rispetto all’euro1. Questo espediente potrebbe rivelarsi solo un palliativo che differisce  quello che, ormai, abbiamo, chi più, chi meno, compreso tutti: l’estinzione dell’Euro. Il fallimento degli stati ha come conseguenza inevitabile il contagio globale: nel momento in cui toccherà a noi, alla Spagna, agli USA, la finanza globale collasserà. Questo accade perché la finanza, se non sorretta dall’economia reale, non può continuare a giocare come si fa con il Monopoli: abbiamo visto dove conduce la finanza creativa, abbandonata a se stessa. Si tornerà alle valute nazionali, le borse chiuderanno per un periodo indefinito, in assenza di scambi, un medioevo carico di incognite e di instabilità sociali, guerre civili, insurrezioni ecc. si abbatterà sul mondo occidentale. Se è vero che la storia è ciclica, che nulla è eterno, il capitalismo ed il liberismo terminano la loro ingloriosa parabola, si crea un vuoto, un periodo di transizione simile a quello della repubblica di Weimar, quindi la nascita di sistemi autoritari per fronteggiare il problema dell’ordine pubblico fuori controllo.
Tutto lascia intravvedere un epilogo di questo tipo. Non c’è uno, un solo indice che ci fa pensare che le cose possano evolvere in un altro modo. Non è questione di pessimismo. Da troppi mesi, ormai, assistiamo allo stillicidio di pessime notizie, quotidiano, inesorabile. Quando anche le banche falliranno ed i cittadini si ritroveranno con un pugno di mosche o di carte bollate, dovranno fronteggiare qualcosa di assolutamente nuovo e inusitato per noi occidentali: il problema della povertà, l’indigenza, la mera sopravvivenza. La discesa nella barbarie è inevitabile a questi livelli. I media e i promotori finanziari delle banche ci tranquillizzano, dicendo che dobbiamo aspettare che le acque si calmino, che passi la tempesta. Ma qui non c’è nessuna tempesta, non si calmeranno più le acque, semplicemente perché si sta andando in un’unica direzione, quella del fallimento. Non si possono aspettare tempi migliori, perché tempi migliori non verranno mai. In questo senso è difficile dare un consiglio a chiunque (a meno che non sia molto ricco) abbia un patrimonio investito:  se vendesse quello che possiede venderebbe ad uno speculatore perdendo moltissimo, se continua a tenersi  titoli di stato , obbligazioni, azioni ecc. è comunque predestinato a perdere tutto o quasi, a seconda dei casi. Non ci sono ricette, ognuno deve capire quello che realmente vuole fare della sua vita, quello che veramente desidera. Ricordando che il desiderio più vero è spesso anche quello più nascosto. Occorre guardarsi bene allo specchio, non farsi illusioni, cercare la strada che limiti al massimo le perdite, e una volta deciso sul da farsi, andare fino in fondo. Sta per arrivare il momento delle scelte irrevocabili, delle scelte decisive, cerchiamo di non restare soli in questi istanti, prendiamo una posizione il più possibile condivisa dai nostri cari, e poi andiamo avanti, senza particolari ottimismi, che sarebbero fuori luogo, ma anche senza rimpianti, considerando che, comunque, non abbiamo più nulla da perdere.




venerdì 15 luglio 2011

CANCRO. IL BUSINESS DEI FARMACI

Quando un team di ricercatori comincia a immaginare una nuova cura antineoplastica, si avvia la cosiddetta fase preclinica, che consiste nello studio, in laboratorio e su modelli in vivo, delle proprietà chimiche e tossicologiche della sostanza. Non basta infatti che una cura sia efficace nei confronti del bersaglio previsto (e che quindi curi la malattia): bisogna anche che non sia tossica, altrimenti non sarà di nessuna utilità.

Una volta passata questa fase, che coinvolge diverse molecole spesso chimicamente simili tra loro, la migliore viene avviata alla cosiddetta sperimentazione clinica, ovvero viene testata sull’uomo. Dalla prima idea alla commercializzazione della cura passano in media dai 10 ai 12 anni, e sebbene molti pazienti (e anche molti medici!) desiderino accorciare questi tempi, ciò non è possibile.

Il farmaco uscito dal laboratorio viene avviato alla cosiddetta fase 1. Obiettivo: valutare per la prima volta se la sostanza è tossica nell’uomo e qual è la dose soglia oltre la quale è meglio non andare. Poiché lo scopo non è quello di curare la malattia, i volontari selezionati possono anche essere soggetti sani (quasi mai per i farmaci antitumorali) e poco numerosi (qualche decina).

Se la molecola ottiene la ‘patente di sicurezza’, passa alla fase 2. Lo scopo di questa tappa è ancora diverso: si vuole, per la prima volta, verificare se effettivamente la cura è attiva contro la malattia per la quale è stata inventata, per cui si selezionano pazienti (in genere non più di un centinaio) il più possibile simili tra loro per caratteristiche individuali e della patologia. In questo modo i dati ottenuti sono chiaramente interpretabili. Anche in questa fase si fa attenzione a eventuali effetti collaterali e tossici, e si stabilisce qual è la posologia ottimale (dosaggio e tempi della somministrazione).

Se anche questa fase trascorre senza incidenti di rilievo, e se il farmaco dimostra la sua attività, si passa alla fase 3: la nuova cura viene confrontata alla terapia standard già esistente per verificarne la reale efficacia; partecipano diversi ospedali in tutto il mondo e il numero dei pazienti reclutati aumenta (nell’ordine delle migliaia). Solo facendo crescere il numero di persone sottoposte alla sperimentazione (sempre però nell’ambito di un preciso protocollo) è possibile verificare se essa è veramente efficace e se esistono effetti collaterali rari, che difficilmente si possono scoprire finché la cura è somministrata a poche persone.

A questo punto tutta la documentazione viene portata dalla casa farmaceutica detiene il brevetto del nuovo farmaco all’ente regolatore, che la esamina e approva la messa in commercio. Ora la nuova cura è a disposizione di tutti, ma non viene abbandonata a se stessa: poiché possono comparire effetti collaterali rarissimi, nell’ordine di un caso su milioni di utilizzatori, è stata istituita la cosiddetta fase 4, chiamata anche sorveglianza postmarketing. Qualsiasi effetto collaterale, sia pur minimo e non notato nelle fasi precedenti, viene segnalato alle autorità che ne considerano l’importanza ed eventualmente cambiano le indicazioni o il foglietto illustrativo del farmaco, o, in casi veramente estremi, dispongono il ritiro della cura dal commercio.
In questi ultimi anni si è assistito ad un considerevole aumento dell' immissione sul mercato di nuovi farmaci antitumorali conosciuti con l' appellativo di "intelligenti", in quanto promettono selettività per il bersaglio terapeutico con conseguente aumento dell' efficacia e diminuzione della tossicità associata. L' approvazione della commercializzazione di un farmaco avviene da parte dell' EMEA, un organismo che risponde direttamente alla direzione generale dell' Industria e non, come sarebbe più logico, alla direzione generale della Sanità. Tutta la documentazione necessaria per la registrazione è preparata dalla stessa industria farmaceutica che detiene il brevetto per la commercializzazione del nuovo farmaco. L' approvazione di un nuovo farmaco non richiede studi di carattere comparativo nei confronti di farmaci già utilizzati nel trattamento della patologia di interesse. Da ultimo, l' intero processo di registrazione è contraddistinto dal segreto più assoluto, salvo pubblicazione di un documento riassuntivo. Il problema è che l' immissione sul mercato di un nuovo farmaco, indipendentemente dalla sua reale efficacia, è sempre e comunque associato ad un aumento di spesa. Esistono esempi di nuovi farmaci antitumorali il cui costo può arrivare a 30mila euro (circa 60 milioni di vecchie lire) per anno di trattamento. Una fiala di cetuximab da 100 mg. costa 199 euro, con cicli di trattamento che richiedono circa 350 mg. alla settimana, per un costo di oltre 600 euro; una fiala di bevacizumab da 100 mg. costa 1289 euro: l' utilizzo di 300 mg. ogni 14 giorni comporta una spesa di 3900 euro. Bevacizumab e cetuximab sono utilizzati per il trattamento del carcinoma del colon-retto con risultati terapeutici assai modesti. Ad esempio, il cetuximab aumenta la sopravvivenza media di circa due mesi. Nelle scorse settimane il NICE, l' organismo pubblico che decide la rimborsabilità di un farmaco in Inghilterra, ha sconsigliato l' utilizzo di queste molecole per lo sfavorevole rapporto costo-beneficio. Un ospedale inglese ha recentemente calcolato che un nuovo farmaco anti-tumorale ampiamente utilizzato per il trattamento del tumore al seno, il trastuzumab, salva in media 3 donne al costo di 2.8 milioni di euro, cifra 4 volte superiore a quella necessaria per salvare 16 donne portatrici di tumore con altri trattamenti. Appare quindi necessario che i nuovi farmaci antitumorali arrivino sul mercato quando esistano maggiori evidenze di efficacia. E' inoltre auspicabile che il costo dei nuovi farmaci sia più ragionevole, anche in considerazione dei vantaggi relativamente piccoli che tali farmaci garantiscono. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale è basato sul sacrosanto principio della solidarietà: spendere male, quindi, sottrae risorse che potrebbero essere utilizzate con maggior beneficio per gli ammalati.
I farmaci dei quali stiamo parlando sono i cosiddetti anticorpi monoclonali. Il loro effetto è considerato specifico, certamente meno tossico dei classici farmaci antitumorali, ma il loro costo ha creato non pochi problemi al Servizio Sanitario Nazionale e in particolare alle Aziende ospedaliere. A fronte dei pochi euro dei comuni citotossici si devono spendere per ogni ciclo di terapia parecchie migliaia di euro. La pressione per il loro impiego è molto forte: mass media, medici, società scientifiche, tutti stimolati dall'industria farmaceutica, richiedono a gran voce che si stabilisca un fondo speciale. Chiunque susciti qualche dubbio sull'impiego di significative risorse economiche per questo scopo viene tacciato di crudeltà ed è destinato alla impopolarità.

Ovviamente tutti attendiamo farmaci efficaci per i tumori: averli a disposizione vorrebbe dire, per quanto il costo sia elevato, risparmiare alla lunga in termini di ospedalizzazioni e cure palliative. Ma è proprio così chiaro il beneficio? Non stiamo soggiacendo ai miraggi di una biotecnologia che promette miracoli? In realtà se si guarda ai risultati non si rimane molto impressionati; spesso questi farmaci non vengono impiegati da soli, ma in associazione con i classici citotossici in disegni sperimentali che non sempre sono adeguati. I risultati sono misurati con parametri deboli, mentre mancano completamente dati che misurino la qualità di vita dei pazienti portatori di tumore. Mancano confronti adeguati, spesso riferiti a controlli storici anzichè a trattamenti standard studiati in contemporanea.

Venendo alle modalità con cui sono stati valutati i nuovi farmaci, occorre ricordare che le linee-guida delle agenzie regolatore richiedono per l'approvazione, oltre alle consuete indagini pre-cliniche e cliniche, studi di fase 3. Nel caso in cui si tratti di ricerche cosiddette di seconda o terza linea su pazienti resistenti alle terapie correnti è richiesta la dimostrazione di superiorità.

Contrariamente a quanto raccomandato da queste linee-guida i criteri con cui sono stati approvati i nuovi farmaci antitumorali, così come si desume dagli EPAR (European Product Assessment Report, i documenti ufficiali che giustificano le decisioni dell'EMEA, ente responsabile per la commercializzazione dei farmaci nei Paesi dell'Unione Europea) si possono riassumere in questo modo: per i dettagli rimandiamo a Apolone et al.; Brit. J. Cancer 2005, 93, 504-509.

Negli ultimi 10 anni, l'EMEA ha approvato 14 nuovi farmaci antitumorali per 27 indicazioni terapeutiche. Tuttavia solo per 14 indicazioni erano disponibili studi fase 3. Solo pochi studi riportavano parametri che fossero di reale interesse clinico: nel 89% dei casi si misuravano solo la massa del tumore e la progressione del tumore. Solo per quattro indicazioni esistevano studi per determinare la durata di vita, con risultati che riportavano un aumento di sopravvivenza da 0 a 3,7 mesi.

In conclusione i farmaci antitumorali vengono approvati e commercializzati con deboli evidenze di efficacia, senza confronti e in generale per indicazioni di nicchia. La disponibilità del farmaco accompagnata dalla promozione dell'industria ne estende poi rapidamente l'impiego “ off-label”. Non sempre viene rispettato l'obbligo di condurre ricerche nel periodo “post-marketing” per cui l'impiego del nuovo farmaco non viene rivalutato da parte delle autorità regolatorie. Gli oncologi utilizzano i farmaci nella speranza di ottenere risultati: ma anche in questo, come in molti altri casi in medicina, la loro decisione non è certamente basata sull'evidenza, ma su fattori soggettivi, una pratica che spesso sottrae risorse umane ed economiche al Servizio Sanitario Nazionale.
Non si terrebbe conto, insomma, del reale miglioramento della qualità della vita dei pazienti o della loro sopravvivenza, ma si cercherebbe solo la strada più breve per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione.
Le case farmaceutiche, infatti, hanno tutto l’interesse a velocizzare le procedure per recuperare gli ingenti investimenti in ricerca, e spesso sperimentano le nuove molecole allo stadio più precoce consentito, arrivando ad arruolare pazienti in condizioni molto particolari al solo scopo di poter richiedere lo status di “approvazione accelerata” o “sotto eccezionali circostanze” e disegnando lo studio nel modo più semplice possibile.
Fare in fretta sembra essere la parola d’ordine e, sotto le pressioni esercitate dagli investitori, spesso molti farmaci vengono immessi sul mercato “senza che sia stato compreso fino in fondo il reale meccanismo attraverso cui esercitano l’ azione clinica”.
Le linee guida adottate dall’EMEA permetterebbero, insomma, molte scappatoie ai danni della sicurezza e della salute pubblica e andrebbero riviste, come sottolineano i ricercatori del Mario Negri, che concludono: “La necessità dell’industria di guadagnare una fetta fiorente di mercato andrebbe bilanciata dal dovere di fornire farmaci efficaci senza porre un indebito carico sui servizi sanitari nazionali europei”.



mercoledì 13 luglio 2011

HIC MANEBIMUS OPTIME (“qui staremo benissimo”, Tito Livio)


A questa dotta citazione pronunciata dal ministro dell’Economia, rag. Tremonti, avremmo preferito la seguente: Stat magni nominis umbra (Lucano) (“resta l’ombra d’una grande fama”), ci sembra più adatta alla circostanza e alla parabola dell’uomo che ha elaborato una manovra finanziaria che solo un tributarista come lui poteva concepire.

Questa citazione latina (fa piacere comunque constatare che anche un ragioniere come il cav. Tremonti abbia studiato un po’ di latino) è stata appunto sciaguratamente pronunciata dal ministro dell’economia. Non sappiamo ancora se si tratti di una promessa o di una minaccia. Quella elaborata dal rag. Tremonti è la peggiore delle manovre possibili, e ci auguriamo con tutto il cuore che, una volta approvata per pura necessità, questo esecutivo abbia il buon gusto (ma ne dubitiamo fortemente) di lasciare il passo ad un governo di emergenza, di larghe intese, di unità nazionale, insomma lo si chiami come si vuole, ma si tenga presente che se l’attuale governo rimane in sella, ci ritroveremo molto presto nella situazione del venerdi e lunedi nero appena trascorsi. Quanto abbiamo precisato nei precedenti post, va qui ribadito: non siamo fuori pericolo, anzi. I rimbalzi della borsa non significano nulla. La volatilità è altissima, si pensi che il range delle fluttuazioni della borsa di Milano, nell’ambito della stessa giornata di oggi, è stata del 6%. Si aggiunga l’ennesimo declassamento, questa volta dell’Irlanda, i cui titoli di stato sono stati dichiarati “junk”, spazzatura. Se questo esecutivo non torna a casa il prossimo paese potremmo benissimo essere noi, prima ancora della Spagna. La scansione temporale e contenutistica della crisi in quattro fasi è tuttora valida, per adesso siamo ancora nella seconda, possiamo entrare a breve nella terza (si vedano i post precedenti). A questo proposito, tanto per prendere dimestichezza con un prodotto finanziario che si sta rilevando un importante indicatore del mercato, teniamo d’occhio, d’ora in poi, un derivato dal nome Credit Default Swap (CDS). Uno swap è un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato l'obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di copertura del rischio, e il credit default swap è in effetti come una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere sicuro del rimborso. Questi cds sono quotati in mercati over the counter, e se il costo dovesse balzare, mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni.

Pubblico volentieri il seguente articolo di S. Luciano, una lucidissima analisi politica ed economica della manovra che il Parlamento si appresta a votare. Sono elencati con precisione tutti i motivi che la rendono insopportabile quanto necessaria. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Per placare, almeno provvisoriamente, l’ondata di speculazione e di panico che ha pervaso i mercati di questi ultimi giorni era, come ho precisato nel precedete post, indispensabile licenziare la manovra con la massima sollecitudine, una manovra purchessia. Questo non vuol dire che sia una buona manovra: un provvedimento del genere deve possedere almeno due requisiti: essere economica anzitutto (cioè individuare gli incentivi alla crescita economica) e non ricadere sulle sole risorse sicure, quelle dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Così non è stato: si tratta di una manovra tutta sbilanciata sui tagli e questi ultimi colpiscono, con norme addirittura vessatorie, i ceti medio bassi. Le rendite di posizione e le grandi lobbies (politici, notai, avvocati, commercialisti ecc.) sono toccati solo molto marginalmente. Si aggiunga che il secondo requisito, quello delle dimissioni di Berlusconi subito dopo l’approvazione della manovra al fine di costituire un governo di unità nazionale, da quello che trapela dall’inquietante silenzio di Palazzo Grazioli, non avrebbe luogo. Si tratta di un passaggio fondamentale, perchè le borse, le piazze finanziarie, gli speculatori, le agenzie di rating hanno sviluppato un fiuto straordinario nell’individuare le debolezze politiche e soprattutto di leadership. Il Cavaliere è un leader allo stremo, politicamente il nostro è un paese in stallo politico, con una classe dirigente che rappresenta solo se stessa ed i propri interessi. Se questo esecutivo continuerà a resistere aggrappato agli scranni con i voti di qualche peone come Scilipoti, arriverà ai mercati l’ennesimo pessimo segnale. E ricomincerà la bufera finanziaria sui titoli di stato e sul nostro sistema bancario. Ci pensi bene Berlusconi, prima di completare la sua opera, e di rotolare insieme al suo paese nella polvere. 

Una manovra di destra o di sinistra? A giudicare dalle reazioni dei mercati, che hanno messo nel mirino l’Italia con i suoi titoli di Stato - e che sono notoriamente “di destra”, cioè guardano ai meri interessi economici, senza riguardo per il loro impatto sociale - la manovra finanziaria delineata dal governo sotto la guida del ministro dell’Economia Giulio Tremonti sarebbe decisamente di sinistra, cioè troppo morbida, troppo prudente, e inciderebbe poco o niente, almeno per l’anno in corso e per il prossimo, sui veri nodi del sistema.
A guardarla da vicino e con una lente d’ingrandimento neanche troppo convessa, la manovra risulta invece concettualmente di “destra”, perché quel poco che taglia va a tagliarlo dal reddito delle fasce medio-basse della popolazione. Quali sono, infatti, le tre voci principali su cui incide la norma? Innanzitutto il taglio dell’adeguamento automatico delle pensioni, che oltre i 1428 euro lordi mensili seguiranno solo parzialmente il crescere del costo della vita; poi l’incremento del bollo sui depositi-titoli, dagli attuali 34,20 ai 120 euro annuali sotto i 50 mila euro e a 380 euro per i depositi più consistenti. Infine, i tagli ai trasferimenti dallo Stato alle Regioni, oltre 8 miliardi di valore che gli enti locali non potranno che finanziare con imposte locali o col ripristino dei ticket, programmato infatti dal governo e poi cassato all’ultimo momento, forse per non assumersene la responsabilità politica ora.
Il clamore sollevato dalla norma “salva-Fininvest” inserita nella manovra all’ultimo minuto ha ridotto la polemica sulla natura di queste norme, ma è evidente che esse costituiscono un problema, neanche tanto piccolo, per i ceti medio-bassi, quelli che - appunto - posseggono 20-25 mila euro investiti in titoli di Stato, quelli che vivono con pensioni modeste, nell’ordine dei mille euro al mese, quelli che insomma non rappresentano l’elettorato tipico del centro-destra. A giudicare dalla reazione dei mercati, si diceva, l’insieme di queste norme è però assai carente. Non convince, non rassicura, non basta. Delude soprattutto la scelta di non intaccare la vasta sacca di spesa pubblica improduttiva, il cui ridimensionamento viene rimesso a un generico processo di “spending review” che i ministeri vengono incaricati di compiere il prossimo anno.
Come mai questa linea del governo? Forse una spiegazione univoca non c’è, come non si è potuto dire al Paese di chi sia stata la mano pasticciona che ha infilato la norma salva-Fininvest nel testo, vedendosi poi costretta a eliminarla. Forse tanta esitazione nei tagli e la scelta di punzecchiare quasi esclusivamente alcune fasce deboli è frutto del caos politico in cui la manovra è nata.
Il ministro Tremonti, quando ha difeso la sua linea di politica economica dall’accusa standard che le è stata rivolta, di aver operato tagli lineari per non voler scegliere, si è sempre vibratamente impegnato a ricordare, al contrario, con quanta determinazione sia stata da lui scelta la strada di finanziare gli ammortizzatori sociali, concentrando al loro sostegno le magre risorse finanziarie pubbliche disponibili, grazie ai quali effettivamente negli ultimi due anni milioni di lavoratori hanno potuto mantenere pressoché stabile il loro tenore di vita, rimpinguando con cassa integrazione e sussidi il salario normale che scendeva o cessava. In questo Tremonti ha ragione da vendere e il Paese dovrebbe essergliene grato.
Dove però neanche lui è riuscito a incidere è stata la trincea delle lobby più potenti, quella innanzitutto dell’alta burocrazia pubblica, che difende con unghie e denti la propria storica autonomia di spesa e di sperpero nei mille rivoli dell’apparato amministrativo. In questo senso, la manovra è stata “di destra” nei fatti, perché ha danneggiato i meno abbienti, ma soprattutto elettoralmente controproducente, perché ha fatto arrabbiare tanti per portare a casa poco. Le ragioni profonde di questo autogol politico sono però due, una tutta italiana, l’altra macroeconomica. La prima è questa: le condizioni della nostra finanza pubblica non sono gravi per la spesa corrente eccessiva, che lo è ma di poco, bensì per l’enorme accumulo di debito pubblico e per i costi finanziari che genera. Per correggere questa stortura occorrono politiche severe e durevoli negli anni, perché l’idea di intervenire col machete e raddrizzarla in due o tre anni comporterebbe scelte talmente impopolari - da una vera e propria tassa patrimoniale da stordire i tori a un incremento delle tasse - da risultare impraticabili per qualunque maggioranza di governo, di destra o di sinistra che fosse.
E questo è il punto: oggi il marketing della politica non concede tempi lunghi di “scambio di favori” tra ciascuna maggioranza e il suo elettorato. Nel quinquennio di legislatura che un gruppo di partiti “vince” se viene eletto al governo del Paese, deve starci anche la carota, non solo il bastone. Altrimenti saremo noi elettori per primi a non rivotare i nostri beniamini, delusi dalla loro irresolutezza.
Ed è quel che sta accadendo nell’elettorato di centrodestra e soprattutto leghista: passati tre anni dalla vittoria, constatato che nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale è stata mantenuta, l’elettorato volge le spalle a coloro che aveva scelto. È una democrazia di corto respiro, che si candida a una specie di periodica eutanasia…
La seconda ragione di questo autogol politico è invece di tipo macroeconomico. Ormai gli Stati nazionali hanno una sovranità limitata nella gestione dell’economia pubblica. Quel che decidono è non soltanto rimesso al vaglio di una pluralità di soggetti, istituzionali e non, che ne determinano il successo o il tracollo: Consiglio e Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario, agenzie di rating, ecc.; ma soprattutto è esposto ai contraccolpi dei mercati, perché l’aumento del differenziale d’interessi (spread) creatosi tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi negli ultimi giorni è tale da costare alle casse pubbliche più di quanto frutterà l’intera manovra finanziaria: quindi o quest’aumento rientrerà su parametri normali, o saremo punto e a capo, tutto da rifare. È come se la gestione della finanza pubblica, sicuramente in Europa ma in fondo anche negli Usa - Obama se ne sta accorgendo - fosse diventata una fatica di Sisifo di fronte allo strapotere del “Leviatano globale”. Un mostro generato dal liberismo estremo che ormai scorrazza senza freni nel mondo facendo forse anche qualcosa di buono, ma al prezzo di gravissimi danni.
S. Luciano,  fonte: trend- online.com






lunedì 11 luglio 2011

IL FANTASMA DELLA POVERTA'


Non avrei mai voluto scrivere questo post, ma le notizie che ci pervengono, oggi, 11 luglio 2011, dai mercati e soprattutto dalla Borsa di Milano mi obbligano a parlare di una materia che avrei con tutto il cuore voluto evitare. Dall’inizio della crisi (ma si può parlare ancora di sola crisi?), dall’estate del 2008, l’Italia non aveva mai vissuto momenti più difficili, non si era mai toccato un livello di allarme così preoccupante. In pochi giorni, in Piazza Affari, si sono bruciati 16 miliardi di euro, i titoli di stato italiani e l’intero sistema bancario italiano non erano mai stati sottoposti ad un simile fuoco di fila. Se la situazione non migliora nei prossimi giorni, (due o tre al massimo), il rischio del fallimento, del default è realmente concreto. La borsa di Milano non può sopportare perdite del 4% ancora a lungo, se non si corre ai ripari lo stato e il suo sistema bancario vanno incontro al crack. Vediamo di riassumere. Il governo ha licenziato una manovra finanziaria che finanziaria non è, dal momento che è fatta di soli tagli e che prevede una sola riforma fiscale. Una manovra fiscale, per essere efficace, deve anzitutto essere economica, e poi finanziaria. Per l’economia, per la crescita e lo sviluppo non si è fatto nulla. Tremonti risponde che non è in suo potere modificare l’assetto economico del paese: è vero, ma la politica deve fare la sua parte per incentivare l’economia, gli imprenditori faranno il resto. Una manovra di soli tagli, tutta sbilanciata, per non perdere consensi, sul 2013-14 non è solo una manovra inutile, è una manovra controproducente. Questo lo hanno capito bene i mercati,così come hanno ben compreso che Berlusconi è un leader  finito, ormai alle corde. Dalla sconfitta alle amministrative, a quella dei referendum, alla condanna per il lodo Mondadori: è un”anitra azzoppata” per dirla all’americana. E’ significativo che non prenda pubblicamente la parola da venerdì scorso. Invece di rassicurare i leader europei e i mercati, se ne sta rintanato a Palazzo Grazioli a leccarsi le ferite. Oggi Angela Merkel  ed il ministro delle finanze Schaeuble lo hanno incoraggiato a parlare, mostrando fiducia nella manovra, ma, al contempo, invitandolo a fare presto, perché i mercati non aspettano e sono pronti a farci crollare. Quello che è accaduto nella Borsa di Milano non è facile da spiegare, mi ci proverò. Ha cominciato l’agenzia di rating Standard & Poors a declassare il nostro out look (il nostro dato tendenziale) da “stabile” a “negativo”, poi, l’altra grande agenzia di rating Moody’s ha messo sotto osservazione il Tesoro dello Stato, le aziende partecipate dallo stato italiano, gli enti locali e praticamente quasi tutti i gruppi bancari italiani. Un altro chiaro segnale negativo. Poi, la situazione politica italiana, ormai prossima allo stallo, un governo tenuto in vita da personaggi come Scilipoti, un premier appannato, sempre più indebolito, un PDL dato dai sondaggi al 28%, lo stesso ministro dell’Economia, Tremonti, coinvolto nell’ennesimo scandalo di corruzione immobiliare. La classe politica italiana non riscuote all’estero  molte simpatie, ed è facile capire il perché: non possiamo permetterci di scherzare con il bunga bunga, non possiamo perdere mesi e anni dietro agli affari personali di Berlusconi sperando che non ci accada nulla. Siamo un paese totalmente discreditato, perché abbiamo una classe politica paragonabile, per livello di corruzione e di impreparazione, solo a quella greca. La stessa opposizione appare debole e divisa, non in grado di condurre il paese. In una situazione di crisi globale, sono elementi che pesano e fanno la differenza: la Spagna ha una leadership credibile, persino il Portogallo. Noi abbiamo gente come Brunetta. Aggiungeremo che abbiamo il terzo debito pubblico più alto del mondo, che il nostro PIL non solo non cresce più, ma è addirittura sotto lo zero, che vuol dire recessione. Non ci possiamo stupire più di tanto se la speculazione, in un mercato lasciato colpevolmente senza regole, colpisca laddove avverte la debolezza, il ventre molle dell’Europa. La Consob, un organismo poco più che simbolico, ha cercato di limitare le “short selling” le vendite allo scoperto, un espediente utilizzato da molti speculatori internazionali. Consistono semplicemente nel vendere quello che ancora non si possiede: si acquistano titoli senza perfezionare l’acquisizione, poi, non appena il prezzo di tali titoli cala paurosamente si acquistano veramente speculando sulla differenza. Funzionano pressappoco così i famigerati “hedge fund”. La stessa speculazione si è abbattuta sui titoli di stato italiani, facendo schizzare lo spread (il differenziale) dei titoli decennali italiani e quelli considerati come riferimento stabile, i bund tedeschi, a 300 punti, similmente alla Spagna. Fino a poche settimane fa il differenziale era a 160, 170 punti. In poco tempo si è raddoppiato. Tale spread è un marker molto importante, perchè indica il livello di rischio di un paese: per essere acquistati, i nostri titoli di stato devono applicare tassi di interesse sempre più elevati, per compensare il livello di rischio affrontato da chi li acquista. Si entra in questo modo in una spirale pericolosa, il sistema si avvita su se stesso. Sui titoli bancari piovono le vendite, in parte per la ricapitalizzazioni cui sono stati obbligati colossi come Unicredit, Intesa San Paolo ed MPS, in parte per la crisi di liquidità dovuta alle vendite esasperate da parte di imprese e privati che, presi dal panico, corrono a svendere i loro titoli. Senza contare che il sistema bancario italiano, parimenti a quello degli altri stati, è strettamente correlato al debito sovrano dello stato, al punto che, una volta fallito lo stato è lecito attendersi un default del suo sistema bancario. Si aggiunga che in questi giorni, per la prima volta, Barack Obama ha parlato chiaramente di “rischio default” anche da parte degli Stati Uniti, schiacciati da un debito estero e de un tasso di disoccupazione altissimi. Abbiamo riassunto in poche righe la situazione finanziaria nella quale versiamo in questo periodo: una classe politica indebolita ed incapace a reagire, un debito pubblico fuori controllo non compensato da un principio di crescita, i titoli di stato sotto attacco degli speculatori, schizzati oggi a livello spagnolo, domani a livello portoghese. Le banche in grossa crisi, sotto pressione continua, i piccoli gruppi sono quelli che rischiano di più, non avendo motivi di compensazione. Se le cose non cambiano in fretta, il primo segnale della disfatta sarà il fallimento delle prime piccole banche. Ma questo sarà solo l’inizio. Se la politica non interviene subito, con la decretazione d’urgenza, si rischia grosso. Non c’è più tempo per lunghi e penosi passaggi parlamentari: anche se si tratta di una manovra ridicola, ai mercati serve un segnale immediato. Secondo: Berlusconi deve assolutamente dimettersi. Non ci sono alternative, la sua leadership non esiste più. Trattandosi di una vera e propria emergenza, sarebbe bene costituire un governo di unità nazionale pronto a mettere mano ad eventuali contromisure nel caso di ulteriori attacchi alla nostra economia. Se non si compiranno questi due passi fondamentali, il rischio del fallimento diventa una prospettiva concreta. L’Italia è la terza economia dell’Europa, il suo default provocherebbe il crollo dell’architrave europea, e quindi la fine della moneta unica. Non è vero che siamo troppo grandi per fallire, possiamo fallire, e paesi come la Germania, l’Austria, la Danimarca, l’Olanda e la Finlandia possono anche permettersi il lusso di tornare alle loro valute nazionali. Noi no. In caso di fallimento dell’Italia, il nostro ritorno alla lira significherebbe una svalutazione alle stelle (altro che un euro: 1936,27 lire!), una inflazione fuori controllo, una caduta del potere di acquisto dei salari, speculazioni forsennate sulla nostra povera liretta. Una prospettiva del genere ci farebbe precipitare in una situazione da Repubblica di Weimar prima dell’avvento del nazismo. Non abbiamo più tempo: troppo è stato perduto in appartamenti di Montecarlo, in lodi Alfano e in Ruby Rubacuori. Berlusconi è finito come leader e, se posso permettermi, come uomo. Un uomo che racconta barzellette mentre la nave affonda ricorda molto da vicino l’orchestrina del Titanic. Deve andarsene. Si decreti la manovra così com’è, anche se è una manovra da operetta, e si dia vita, da subito, ad un governo di larghe intese: il fantasma della povertà, questa volta per davvero, è appena dietro l’angolo.

sabato 9 luglio 2011

A CESARE QUELLO CHE E' DI CESARE

Impossibile non commentare il gustosissimo episodio che ha visto protagonisti, contemporaneamente, il Ministro dell’Economia, rag. Giulio Tremonti, il Ministro del Lavoro Sacconi, il Ragioniere Generale dello Stato e, dulcis in fundo, il ministro di non si sa bene cosa Brunetta. Nel corso di una conferenza stampa che li vedeva protagonisti, durante l’esposizione della manovra, una volta presa la parola, Brunetta cominciava a snocciolare le sue acute analisi, allorchè, come folgorato da una rivelazione che ha del soprannaturale, Tremonti si rivolge prima al Ragioniere dello Stato, commentando non proprio positivamente l’intervento di Brunetta, e finalmente, dava a Cesare quello che è di Cesare, dando del “cretino” a Brunetta. Non solo. Non pago dell’epiteto che così bene connotava la personalità del suo collega di governo, rivolto ad un distratto Sacconi che ammetteva di non ascoltare neppure l’intervento di Brunetta, aveva modo di completare il suo pensiero aggiungendo “è proprio uno scemo”. Adesso, mi rendo conto che non si tratta di definizioni degne di un trattato di antropologia o di sociologia, ma,insomma, devo ammettere che, pur nell’estrema sintesi, illustrano e denotano perfettamente la condizione politica ed umana del ministro di non si sa bene cosa. I suoi colleghi di governo, presumo, sono arrivati da un pezzo alla medesima conclusione, ed il paese intero, non i soli statali, raggiunge delle percentuali bulgare nel considerare poco consono alla posizione che occupa il suddetto miniministro. Se lo hanno capito i deputati del PDL, se lo ha capito il paese intero, stufo delle sue iniziative mai portate a termine, degli annunci cui non fa seguito regolarmente nulla, del suo modo di rapportarsi ringhioso ed aggressivo, della sua totale inconcludenza, è possibile che Berlusconi ancora non abbia compreso che questo mattone gli sta sottraendo un numero considerevoli  di voti? Comincia a farsi strada l’ipotesi che il premier stia perdendo l’unica caratteristica che lo distingueva dagli altri politici, l’unica dote che lo ha mantenuto a galla fino ad ora: il fiuto politico e il tocco magico. Andare alle presentazioni di presunti libri del “peone” Scilipoti, un politico fuori da ogni possibile classificazione, è stato un altro grave svarione che concorre a far pervenire alla conclusione che il “tocco” del premier sia ormai alla fine.  Non essere più in grado di scegliere le compagnie da frequentare da quelle che è bene evitare, è il segno più evidente della irreversibile crisi di quest’uomo.
E poi, altro segno dei tempi, gli uomini della provvidenza. La Lega, che con il solito laconico Bossi sostiene che “senza la Lega faremmo la fine della Grecia”, o, peggio, la dichiarazione di un Tremonti arrivato ormai alle corde, incappato anch’egli in un caso di evidente tristissima corruzione, autore di una manovra fiscale, non finanziaria, che sostiene: “se cado io, cade l’Italia”. No, caro Tremonti, se cadi tu non cade l’Italia, l’Italia cade lo stesso perché con la classe politica che ci ritroviamo non è possibile il miracolo del risanamento. Ce lo dicono i mercati, che hanno compreso benissimo, ancor prima di noi italiani, che con un governo al tramonto ed una opposizione debole e inconsistente, non siamo in grado di risollevarci, e il differenziale tra titoli di stato e bund tedeschi è tragicamente destinato a salire. Questo significa che gli investitori pretendono interessi più alti per scommettere su di un paese che offre sempre meno garanzie. Tremonti, da buon tributarista qual è, ha fatto una manovra di soli tagli, alcuni addirittura grotteschi e controproducenti, perché non finalizzati al pareggio di bilancio. Pareggio che non si raggiungerà mai perché il nostro paese, oltre a possedere una classe politica particolarmente inetta e corrotta, ha il destino segnato da un deficit spaventoso cui corrisponde una sostanziale recessione economica. Le due cose messe assieme formano un cocktail micidiale, e nessuna manovra può sanare un binomio del genere. Un fiscalista come Tremonti non poteva fare di più, ma è anche vero che a sinistra non c’era di meglio. Ci vorrebbe un economista vero, che sappia alzare lo sguardo dai conticini del bilancio dello stato, e, attraverso una visione d’insieme della finanza e dell’economia italiana sappia produrre una vera manovra economica, ancor prima che finanziaria, se non addirittura fiscale, come ha fatto il rag. Tremonti. Questi non hanno ancora capito che i cimiteri pullulano di persone che ritenevano, in vita, di essere indispensabili.
Tuttavia, come accennato sopra, Tremonti ha compiuto un gesto, ha pronunciato delle parole che lo hanno emendato da tutte le sue malefatte finanziarie. Come non perdonare una manovra sbagliata, che fa ricadere i sacrifici sui soliti poveri cristi, ad un uomo che con due definizioni, una più calzante dell’altra, ha raggiunto un livello di precisione e di acutezza di analisi difficilmente superabili?  Questo gesto lo ha redento. Raramente psicologi, psichiatri, sociologi e antropologi, con tutto il loro bagaglio di conoscenze e di intuizioni, hanno saputo sintetizzare brillantemente in due parole una verità che è sotto gli occhi di tutti, tranne quelli del premier. Onore al merito, dunque, a Cesare è stato dato quello che gli spettava. Peccato che questa “voce dal sen fuggita” non sia stata un poco più tempestiva, avrebbe evitato al governo e al paese la dura prova della sopportazione dell’”energumeno tascabile”, secondo la felice stigmatizzazione di Massimo D’Alema.

LA CRISI IN QUATTRO FASI

Ritengo utile una precisazione ulteriore rispetto all’ultimo post (“Crisi: siamo entrati nella fase due”), per quanto concerne la stadiazione della crisi. Avevo parlato, allora, di tre possibili fasi: gli ultimi avvenimenti lasciano intravvedere la possibilità concreta di una diversa scansione in quattro fasi. Vediamo di riprendere brevemente il discorso. 

FASE 1
La prima fase, come tutti sappiamo, è stata innescata, in  un mercato deregolato e in mano agli speculatori e ai fantasisti della finanza, dai noti mutui subprime americani. Le banche concedevano prestiti a famiglie non in grado di onorarli per far acquisire un immobile ad immigrati senza uno stipendio regolare. Il crack della “Lehman & Brothers”, il primo colosso bancario a fallire, ha segnato, convenzionalmente l’inizio, a metà del 2008, della crisi economico finanziaria mondiale. La finanza creativa e la gestione inetta e corrotta di alcuni stati, in Europa, hanno fatto il resto. Una finanza senza regole che cerchi di moltiplicare i guadagni senza più essere ancorata all’economia reale, ha creato l’illusione che i soldi si potessero fare con i soldi. La realtà ci ha spiegato che i soldi si fanno con il lavoro.
FASE 2
La seconda fase della crisi è quella che viviamo attualmente: il fallimento degli stati. Cominciano ad andare in default uno dopo l’altro (Grecia, Portogallo e Irlanda, per adesso) perché la sola iniezione di liquidità garantita dalla BCE e misure draconiane di tagli alla spesa pubblica non possono da sole, risanare una situazione irrimediabilmente compromessa dall’economia reale che, in questi paesi, è già in recessione. La recessione è costituita dalla crescita inesistente, anzi dal segno negativo del PIL, che, se non risollevato, provoca inevitabilmente una condizione di stallo. I prestiti erogati dall’Unione Europea o dal Fondo Monetario Internazionale, non fanno che spostare in avanti un fallimento inevitabile e tecnicamente già in atto.
FASE 3
La fase tre della crisi potrebbe corrispondere ad un Euro a due velocità: un Euro1 dei paesi più stabili e un Euro2 per quelli periferici. Non si tratta di una ipotesi fantasiosa, la misura è già allo studio della Germania la cui economia è apparentemente rallentata dalla crisi dei debiti sovrani periferici. L’Euro 1 ha già un nome, sinistramente inquietante: UBER-EURO. Potrebbero rientrare in questa prima moneta i seguenti paesi: Germania, Austria, Olanda, Finlandia. Entrambe le monete sarebbero comunque gestite dalla BCE, ma con un euro1 rivalutato di almeno il 30% rispetto all’euro2. A questa seconda moneta aderirebbero tutti gli altri paesi, Francia compresa. Un ritorno della sola Grecia alla dracma è da escludersi a priori, avrebbe un costo troppo elevato per la Germania stessa. Questa fase costituirebbe comunque una grossa incognita sia per i paesi aderenti all’euro1 che per quelli aderenti al’euro2. La  Germania è stata la maggiore beneficiaria della moneta unica, ed è altamente probabile che la perdita  di contatto con i paesi dell’euro 2 non sarebbe vantaggiosa per i tedeschi, che, correndo in pratica da soli, non riuscirebbero a fronteggiare la speculazione dei mercati internazionali.
FASE 4
La fase quattro è quella del collasso finanziario globale. In un futuro non troppo lontano, una volta esperiti tutti i tentativi di evitare il fallimento dovuto in primo luogo alla deindustrializzazione dell’occidente a favore dell’oriente, terminato il tentativo di galleggiare con due monete europee, al fallimento degli Stati Uniti, i cui segnali cominciano ad arrivare, corrisponderebbe il collasso dell’Europa  che prevedrebbe, inevitabilmente,  il ritorno alle valute nazionali con le conseguenze catastrofiche che abbiamo in precedenza illustrato. Sarebbe la fine dell’occidente così come lo abbiamo conosciuto, e l’inizio di un nuovo Medioevo pieno di oscure incognite.

Un’ultima notazione, a margine. Abbiamo finalmente capito che le sorti economiche e finanziarie mondiali non possono essere lasciate in balia di tre agenzie americane di rating, manovrate da speculatori senza scrupoli, i cui nomi sono noti a tutti, anche se la stampa fatica non poco a divulgarli, quasi ne temesse le pericolose ritorsioni. Confidiamo nell’esperienza e nella capacità di Draghi, del presidente del FMI Lagarde, di Barroso e del presidente dell’eurogruppo Juncker  affinchè si limiti drasticamente il raggio di azione di tali agenzie, che non possono essere in grado di  assegnare un giudizio ad uno stato sovrano. Possono farlo sul sistema creditizio di un paese, mai sugli stati. In ultimo, la costituzione di una agenzia europea non sarebbe una idea da scartare. Peccato sia giunta piuttosto tardivamente, considerati i crolli giornalieri delle borse, quella italiana su tutte.

CONCLUSIONI
Ora, credo che sia chiaro per tutti che i mercati e soprattutto la Borsa italiana non potranno sopportare a lungo un crollo dopo l’altro, quello che si sta verificando non in questi mesi, ma in questi giorni. Piovono le vendite sui bancari e tutti, risparmiatori ed investitori italiani stanno perdendo ogni giorno qualcosa. Ma il problema è che la Consob, che dovrebbe vigilare appunto su questi crolli pilotati, è un organismo decorativo, praticamente privo di poteri. In un mercato globale l’Italia non può stabilire delle contromisure unilaterali e la conseguenza è quella che dobbiamo, nostro malgrado, assistere impotenti all'attacco alla nostra finanza da parte dei soliti tristi figuri. Quali sarebbero le regole da introdurre in un mercato che continua ad essere senza regole e fa ciò che vuole? Intanto, per esempio abolire o limitare le “short selling”, le vendite allo scoperto, vale a dire vendere azioni che non si posseggono ancora, per poi acquistarle quando il prezzo è vistosamente calato. Non possiamo scagliarci contro gli speculatori se poi una misura così elementare non viene introdotta. L'attacco da parte dei cosiddetti "hedge fund" fa, appunto, parte di questa strategia. Siamo alle porte di una settimana che, prevedibilmente, sarà ancora più rovinosa della precedente. Ormai siamo dietro la stessa Spagna, la debolezza del nostro esecutivo è stata fiutata dai mercati, che hanno compreso benissimo che un governo in declino, che ha licenziato una manovra tutta sbilanciata nel biennio 2013-14, solo per cercare di non perdere consensi, non è in grado di gestire la situazione. Le banche italiane sono troppo compromesse con il fallimento dello Stato, e i margini di azione sono sempre più ristretti.
Le quattro fasi della crisi sono state descritte: è vero che siamo troppo grandi per cadere, un nostro fallimento trascinerebbe l’intera Europa nel caos, ma proprio per questo è allo studio la fase tre, consistente nella creazione di una doppia moneta comunitaria. Non sappiamo quando arriveremo alla fase quattro: per la prima volta anche Obama ha parlato chiaramente, per gli USA,  di un rischio default. Non sappiamo  quali saranno i tempi e le modalità, ma una cosa ormai è certa: percorreremo la strada sino in fondo, passando attraverso le varie fasi, e, a questo punto, il collasso finale appare sempre più inevitabile.

martedì 5 luglio 2011

L'AVVELENATA

“Ma se io avessi previsto tutto questo…” cominciava così una ben più celebre “Avvelenata” di Francesco Guccini; senza paragonarmi al più erudito dei nostri cantautori, ho voglia di scrivere qualcosa di simile, anche se l’assenza del supporto musicale rischia di produrre un testo inerte, senza vita, senza l’accento graffiante ed incisivo che ha contraddistinto la famosa canzone di Guccini. Un testo senza musica rischia di non arrivare al cuore delle persone, rischia di non suscitare quelle bellissime emozioni che solo la musica sa regalare: ma fa lo stesso, mi ci proverò ugualmente.
Da quando ho iniziato la stesura ed il costante aggiornamento di questo blog, quasi un anno fa, non avevo la benché minima idea di dove sarei andato a parare, non c’era nessun piano, nessun programma precostituito. All’inizio, e almeno per qualche mese, andavo avanti istintivamente, inserendo qualche pezzo ogni tanto, senza alcuna periodicità, cogliendo al volo qualche notizia, qualche sensazione che destasse in me il desiderio di comunicare qualcosa. Adesso le cose non stanno molto diversamente: è mutata la scansione temporale dei post, che hanno assunto una regolarità ed una costanza molto più serrata, oggi sento l’obbligo vorrei dire morale di scrivere su quanto ritengo più importante, ma la cosa che è sostanzialmente cambiata è il rapporto con i lettori. Un rapporto quasi esclusivamente numerico. So che esistono, so che ci siete perché ben tre contatori (sebbene diversamente impostati) mi testimoniano della vostra presenza, ma nessuno ha mai lasciato un commento in fondo ai post. Qualcuno mi ha scritto all’indirizzo di posta indicato, qualcun altro mi ha detto a voce quello che pensava, ma si tratta comunque solo di quelli dei quali ho conoscenza diretta. Degli altri non so nulla. E allora, dopo questa breve introduzione possiamo attaccare:

·         A quelli che leggono i blog e magari sono d’accordo con quello che viene esposto, ma non si azzardano a scriverti una parola di incoraggiamento.

·         A quelli che non sono d’accordo con quello che hai scritto, ma non ti scrivono lo stesso, magari per paura di essere riconosciuti. Io posso scrivere sciocchezze, stupidaggini, asinerie, ma ci metto la firma e la faccia, scusate se è poco.

·         Agli ipocriti benpensanti, non importa a quale religione appartengano, che non riescono proprio a non giudicarti, ti valutano, ti soppesano, fanno acute analisi su come sei o come non sei, non hanno dubbi, solo certezze che si illudono provengano da una fede fasulla, quei farisei che hanno fatto di una fede viva un insieme di norme morte. Quanti ne ho visto ieri,al funerale di un amico, io,in fondo alla chiesa, in disparte, discorrere amabilmente dell’ultimo vestito acquistato in saldo.

·         Agli invidiosi, che si mangiano il fegato quando fai qualcosa con successo, denigrano quello che fai solo perché vorrebbero essere al tuo posto, e gongolano di gioia quando ti vedono rotolare nella polvere, e questi sono la maggior parte. Ma si confessano, si comunicano, sono in grazia di Dio, ma Dio che conosce bene i nostri cuori li giudica per quello che sono: “serpenti, razza di vipere!”

·         Alla nostra classe politica, inetta, corrotta, indifendibile, attaccata ai propri privilegi visceralmente, incapace di vedere, di sentire, buona a nulla, parassitaria, velleitaria, che sta trascinando un paese con potenzialità enormi nella voragine della rovina economica. Capace di licenziare una manovra finanziaria che farebbe arrossire il più spavaldo degli uomini: nessun taglio concreto alla casta di appartenenza, i sacrifici devono ricadere sempre e comunque sui più deboli. A loro auguro la miseria, la povertà, l’angoscia del desco vuoto e la desolazione della consapevolezza di non riuscire più a provvedere ai bisogni della propria famiglia, per loro non basta neppure un girone  dantesco. Ma i potenti di adesso non sfuggiranno alla giustizia di Dio, si troveranno anche loro sull’orlo dell’abisso, dopo una vita spesa nel coltivare i propri interessi, sottraendo risorse a coloro che ne avrebbero realmente bisogno, per loro è pronto un fuoco che non si estingue.
·         Agli sciacalli internazionali che con la loro smisurata ricchezza spostano  e modificano gli indici delle borse, i contenuti dei mercati internazionali, condizionano le sorti di intere nazioni, si troveranno nudi al momento di render conto di ciò che hanno fatto.

·         Ai medici insulsi, somari ed incapaci, dalle cui labbra pendono i malati ed i loro congiunti, sanno che da una sillaba, da una intonazione della loro voce dipendono le sorti dei loro pazienti. Si fanno lautamente pagare per abbreviare una lista di attesa, si sentono arbitri in terra della vita e della morte, hanno costruito ricchezze, patrimoni interi sulla loro fama, costruita su pubblicazioni fasulle o plagiate, su appoggi e complicità delle caste baronali, incapaci di tenere un bisturi in mano, ma circondati sempre da un alone di sacralità, di rispetto, di ammirazione. Quanti ne abbiamo incontrati nella nostra vita? Quanti nostri congiunti sono stati ammazzati da questa macelleria d’alto bordo? Non c’è pena sufficiente per queste iene che speculano sul dolore e sulla necessità.
·         A chi gioca con i tuoi sentimenti solo per appagare il suo narcisismo, non conosce un momento di verità, conduce una vita intera in mezzo alla simulazione e alla menzogna. Semina illusioni, forte di un fascino innato, un dono del cielo, e costella il proprio cammino di vittime subdolamente ingannate, utilizzate strumentalmente per la gioia di un minuto, la conferma del proprio carisma, il senso del possesso, la fascinazione della propria infallibilità. A costoro auguro una vecchiezza piena di acciacchi e malasorte, che abbiano il tempo per riflettere su quanti hanno illuso e poi buttato.

·         Ai venditori di speranza, coloro che hanno fatto dello spirito di religiosità, presente in ognuno di noi, un veicolo per il proprio arricchimento. Guru, santoni, coach, counselor, guide spirituali, maestri di vita e cialtroni di questa risma. Poggiando su di una forte personalità, una indubbia intelligenza al servizio del male, un fiuto tutto speciale per le persone più deboli e bisognose di attenzione, di un aiuto vero, disinteressato, concepiscono miscellanee di filosofie, teosofie, teologie, le più disparate (cristianesimo, induismo, yoga, filosofia zen, taoismo, animismo e sciamanesimo ecc. il tutto mescolato in un minestrone inestricabile senza capo né coda, utilizzato, di volta in volta, a seconda dei loro tristi scopi). Questi maestri di vita, che organizzano incontri, seminari, convegni, sempre a pagamento, predispongono i corsi più disparati rilasciando attestati che altro non sono che comuni pezzi di carta, profittano dello stato di bisogno, soprattutto psicologico, per indurre una sorta di dipendenza e sudditanza nei loro confronti, al solo scopo di continuare nell’opera di spennamento del pollo di turno. Per loro considero equo il trattamento riservato da Dante ai consiglieri fraudolenti.

·         Ai guaritori, medici  e non, che promettono miracolose remissioni da mali incurabili, somministrano bicarbonato di sodio agli ammalati di cancro e scempiaggini di questo tipo. Non so quanti di loro siano in buona fede: presumo pochi. Per chi, tra loro, è solo a caccia di quattrini, è difficile persino pensare ad una pena sufficientemente dura.

·         Ai preti di ogni religione, segnatamente quelli cattolici, incapaci di pietà e compassione, pronti a puntare il dito dal pulpito, dispensatori di assoluzioni, mondatori delle anime, quelli che stanno un gradino sopra i fedeli, perché la loro non è una differenza di funzione rispetto al laico, ma di grado. Amministrano i sacramenti, anche i più fantasiosi, come l’estrema unzione: duri di cuore, sempre pronti a giudicare, poco amore, poca pietà, molta durezza d’animo. A tutti quegli unti del Signore che non hanno ancora capito che, davanti a Dio, siamo tutti sullo stesso piano, non esistono prerogative particolari da parte di pochi sulle moltitudini. Quando qualcuno di loro inciampa in una esistenza che disonora l’abito che indossano, non c’è pena bastevole a castigarli.

·         E infine a me, alla mia superbia, alla mia albagia, alla mia ingratitudine, all'ipocondria ben nota, pronto a far la vittima quando se ne presenta l’occasione, permaloso, rancoroso, mai soddisfatto. Incapace di sorridere, incline ad un cupo pessimismo, come se la vita e la storia fossero prive di scopo e l’uomo non fosse altro che un lupo solitario pronto a sbranare i propri simili. Cerco di migliorare, continuamente, per correggere questo plumbeo nichilismo, e godere delle cose belle dell’esistenza, le più piccole, le più modeste, e, al contempo, le più importanti. Non è un percorso facile, ma da un anno a questa parte sto mettendo tutto me stesso in questa direzione. Giudichi chi mi conosce a fondo.

sabato 2 luglio 2011

CALME DI LUGLIO


Bene. Ed ora è venuto il momento di fare una pausa, di riprendere fiato, come dopo una lunga camminata. La crisi economica e finanziaria non ci dà tregua, leggere i giornali del settore è, di giorno in giorno, sempre più avvilente. Ma adesso basta. Fermiamoci un momento qui, a riflettere, ad osservare quello che ci circonda, oppure a non riflettere per niente, godiamoci qualche istante senza pensare. Usciamo di casa, prendiamo la strada che porta fuori città, e abbandoniamoci , finalmente, alla stagione che entra dentro di noi con il respiro, attraverso gli occhi, con i rumori, gli odori e i sapori dell’estate che s’inoltra.
Ricordo, quando mia madre era ancora in vita, la strada che si inerpicava sulle colline della mia città, era una strada stretta, angusta, non facile da percorrere, costeggiata da olivi e rododendri, orlata da orti e giardini curati e verdeggianti. Portava all’istituto che ospitava mia madre, e sebbene ogni volta, nei quattro anni che la vita si è protratta in lei, provassi la stretta angosciosa di entrare in quel luogo, ogni volta che ne uscivo sperimentavo un senso molto vicino alla liberazione, soprattutto nella stagione che adesso viviamo. Nelle giornate di luglio, in quei pomeriggi limpidi ed assolati, percorrevo con la moto quella strada a ritroso, e spesso mi fermavo, mettevo la moto sul cavalletto, e mi sporgevo sul muretto dal quale si poteva godere lo splendido panorama sulla città e sul mare, reso ancora più suggestivo dal silenzio di quei meriggi interminabili, nei quali il sole pareva non volere mai tramontare. L’aria era cristallina, il cielo si colorava di un azzurro speciale, specchiato da un mare calmo e turchino. Il vento era così sottile e profumato da procurare una sensazione simile all’ebbrezza, tutto, intorno parlava della stagione che cominciava, nell’assoluta immobilità di uomini e cose. Anche il tempo pareva rallentare nella calura secca ed abbagliante di quell’ora; le poche presenze nelle quali mi imbattevo rallentavano il passo ed abbassavano la voce, per non turbare la quieta serenità di quei luoghi. Ed io, seduto sul muretto, con gli occhi pieni di una vita venata di malinconia, cercavo di trovare chissà quale segreto sbirciando di nascosto nei giardini delle ville signorili che lambivano la strada con discrezione, respiravo profondamente i profumi deliziosi che esalavano dagli orti appena innaffiati, quell’odore che sprigiona l’erba appena bagnata in una giornata piena di sole. Solo allora, in quei momenti, e anche adesso, che sono tornato in quei luoghi, nel mese presente, comprendo in cosa consistono le “calme di luglio” di cui parla, in uno dei suoi libri più belli, un autore che abbiamo trascurato fino a dimenticarlo, Vittorio G. Rossi, un giornalista ed uno scrittore che aveva navigato il mondo, che ci ha lasciato una testimonianza incredibilmente affascinante dei luoghi e delle persone che ha incontrato nel suo girovagare. E’ l’unico scrittore che conosca che sia perfettamente riuscito a trasmettere, attraverso la parola scritta, una sensazione, un’emozione, i colori, i profumi, il vociare delle terre da lui visitate. Leggere i suoi libri significa partecipare pienamente, calarsi completamente in quei luoghi, nessuno prima e dopo di lui è riuscito a fare tanto. Ricordo a memoria la descrizione che, da buon ligure, riuscì a forgiare dei vini di Liguria:"sono fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell' alba nelle calme di luglio". Ecco cosa sono le “calme di luglio” (il titolo di uno dei suoi capolavori): c’è l’amore per la sua terra, ma c’è anche l’amore per la natura quando è una tenera madre, che sa essere a volte assai generosa, l’amore per i suoi simili quando riescono ad entrare in sintonia con i tempi, le rime ed i ritmi della stagione che regola le nostre esistenze. Le calme di luglio non sono  solo una pausa nell’alternarsi delle stagioni, non sono un quadro oleografico del panorama che si offre da un belvedere, sono il paradigma della nostra vita e della nostra morte, sono un paesaggio interiore, uno stato di grazia del nostro spirito, sono la proiezione sul mondo di quanto di bello, buono e giusto contiene la nostra anima. Non è vero che l’uomo è fatto solo di egoismo, volgarità e corruzione: se viviamo appieno, se entriamo in sintonia con le calme di luglio, se riusciamo a cogliere, almeno per un attimo, il battito del cuore del creato, sia pure attraverso un paesaggio immerso nell’azzurro dorato di una marina di luglio, allora è vero che la nostra anima, il nostro spirito non sono fatti per il degrado e il disfacimento della morte, allora è vero che qualcosa di eterno, di indistruttibile e incorruttibile persiste dentro di noi, che non siamo al mondo solo per condurre una vita piena di cose inutili, di carabattole senza senso, è vero piuttosto che la nostra anima rivela quello che di eterno ci ricondurrà, un giorno, al nostro principio e alla nostra vera vita. In quei pomeriggi, dopo aver sostato a lungo in quei luoghi, dopo una rapida passeggiata all’ombra degli oleandri, mi attardavo ancora un poco, alzando lo sguardo su, nel cielo, come a cercar qualcosa. In realtà non cercavo altro che di trattenere dentro di me quello che mi circondava, nel tentativo vano di conservare tutte quelle sensazioni e quelle percezioni che così bene ha descritto Vittorio G. Rossi. Anche oggi, 2 luglio, sono tornato in quei luoghi come a cercare qualcosa che mi appartiene, ma il tempo era infausto, il cielo greve di nubi, l’aria appesantita dall’umidità; non sono riuscito a ritrovare nulla di quel tempo. Ma pazienza, aspetterò il bel tempo e tornerò su quelle strade, con la stessa infantile serenità, l’identica fanciullesca ebbrezza. La vita è fatta anche di questi momenti tutti per noi, da non sciupare, da conservare, da non buttare mai. E’ il palpitare dell’eterno che rivive nei nostri cuori, che ci scalda l’anima e il pensiero, che ci fa sentire parte di un mondo meraviglioso, non qui , non adesso, ma che verrà, presto verrà anche per noi.

Oggi ho partecipato alle esequie di Claudio, l’amico di cui ho parlato nel post “A spasso per i Campi Elisi”. Qualcuno ha criticato aspramente questo mio intervento, considerandolo prematuro e inopportuno. Non poteva essere prematuro perché, checché ne dica il Prof. Veronesi, chiunque conosca vagamente la medicina sa che queste patologie hanno una malignità velocissima e conducono a morte in tempi assai brevi. Tutti quelli che hanno avuto la bontà di leggere questo post hanno certamente capito che non si trattava né di un epitaffio, né di un necrologio. Lo spirito con il quale l’ho scritto mi sembra limpido e sincero. Se qualcuno non lo ha capito me ne dispiace, ma ne devo trarre le dovute conseguenze. La mia non è stata una omelia, come quella pronunciata oggi dal sacerdote cattolico che ha celebrato il funerale. Ha detto le parole che ci aspettiamo da un prete cattolico, né più, né meno. Ad alcuni sono sembrate bellissime, ad altri, come il sottoscritto, un po’ meno. L’omelia che avrei pronunciato io, che prete non sono e tantomeno cattolico, sarebbe assomigliata molto a quello che ho scritto. La differenza, incolmabile ed ineliminabile, tra cattolici e protestanti, si misura anche dalla differenza profonda che corre tra le parole del prelato e quelle che, immodestamente, ho scritto io. Mi dispiace per la persona che ha giudicato prematuro il mio scritto. Quella persona crede nei miracoli, io no. Non credo nei miracoli in questo i mondo, credo nel miracolo della Giustizia di Dio, nel fatto che il Padre, nonostante le nostre infinite debolezze e lacune, ci accoglierà tra la sue braccia e ci darà ristoro, al termine del percorso terreno. E’  Dio che ci giustifica al cospetto del Padre, non le nostre azioni, la nostra cattiva fede e, soprattutto, la nostra ipocrisia. Questo è il miracolo vero, che si compie al termine delle nostre vite. Accetto, come dico sempre, tutte le critiche. Ma non posso che rimanere quello che sono: un credente fuori dalla chiesa.

venerdì 1 luglio 2011

LO STRANO CASO DI DOMINIQUE STRAUSS-KAHN

Sicuramente è un grande colpo di scena. E certamente se nelle prossime ore e nei prossimi giorni il tutto verrà confermato, l'Fmi ha perso il suo direttore per nulla.
Stando a quanto riferisce il New York Times, l'inchiesta che coinvolge l'ex direttore generale del Fondo monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn starebbe crollando a causa dei dubbi sulla credibilità della cameriera. Citando due fonti molto vicine all'inchiesta, il quotidiano americano scrive che la cameriera del Sofitel ha mentito nella sua richiesta di asilo e ha contatti con persone coinvolte in traffico di droga e riciclaggio di denaro sporco.
Il New York Times, che cita funzionari di polizia ben informati, sostiene che sebbene le prove forensi abbiano mostrato che c'è stato un incontro sessuale tra l'uomo politico francese e la cameriera, l'accusatrice ha ripetutamente mentito. Gli inquirenti hanno anche scoperto una serie di questioni riguardanti la richiesta di asilo della cameriera 32enne, che è un'immigrata guineiana, e il suo possibile collegamento con attività criminali, tra cui droga e il riciclaggio di denaro.
All'indomani dell'accusa di stupro, la donna avrebbe infatti avuto una conversazione telefonica con un uomo arrestato per possesso di oltre 180 chili di marijuana, con cui avrebbe discusso dei possibili benefici derivanti dalle accuse lanciate contro l'economista francese. Lo stesso uomo, negli ultimi due anni, avrebbe effettuato diversi versamenti in contanti sul conto della cameriera, per un totale di 100mila dollari.
Questa volta, e me ne vergogno come un ladro, non posso dire: “lo sapevo”. L’ho pensato dal primo momento in cui questa brutta storia è stata raccontata dai media di tutto il mondo. Uno degli uomini più potenti del pianeta violenta una cameriera non più giovanissima, non proprio bellissima. C’era da restare perplessi. Non già per la mancata avvenenza della presunta vittima, ma per il semplice fatto che, prima di allora, Dominique Strauss-Kahn non aveva dato segni di chiaro squilibrio mentale. Un uomo con le sue potenzialità, chiamato a ricoprire una carica tra le più delicate e fondamentali del globo, per compiere una simile, ripugnante azione, deve essere colto da un attacco psicotico. Insomma, qualcosa non tornava. Eppure, per pura vigliaccheria, lo confesso, non me la sono sentita di pubblicare dalle pagine di questo blog un’arringa difensiva per Strauss-kahn. Perché? Perché qualche anima bella e benpensante mi avrebbe accusato di maschilismo a prescindere, di pregiudizio razziale, e altre amenità del genere. Per pura vigliaccheria, lo ripeto, ho evitato un argomento, che pure avrei volentieri trattato, al solo scopo di non essere bersagliato dal fuoco di fila delle critiche, quelle sì pregiudiziali. La vicenda di Strauss-Kahn ci insegna due cose: la prima è che non bisogna aver paura di manifestare le proprie idee, se non sono in conflitto con il comune buon senso, e con il rispetto dovuto a qualsiasi essere umano, di qualunque condizione, razza e orientamento sessuale.  La seconda, che il sistema giudiziario degli Stati Uniti è semplicemente rivoltante. Sono addolorato di trovarmi per una volta pienamente d’accordo con quello che  Vittorio Feltri ha scritto in questi ultimi giorni: non perché si trattasse di Strauss-Kahn, un violentatore è un violentatore, non importa il ceto sociale al quale appartiene, ma per l’assoluta, totale, imperdonabile assenza di garantismo da parte di quel sistema giudiziario, che non ha esitato, ancor prima di avere tra le mani uno straccio di riscontro, a sbattere il mostro in prima pagina, lo ha effigiato, con un gusto brutalmente sadico, con le manette ai polsi, lo ha impietosamente ritratto con l’aria disfatta di chi non ha ancora ben compreso cosa gli sta capitando. In questo caso, e questo è imperdonabile per un sistema giudiziario, ha giocato sfavorevolmente la fama di Strauss-Kahn che, in passato, è scivolato diverse volte in vicende boccaccesche (oddio, nulla a paragone del nostro premier) senza cadere però mai nella violenza carnale. Una giustizia che si muove sulla base del pregiudizio, che non attende i primi riscontri scientifici ed ambientali, che appura dopo 48 giorni che probabilmente la cameriera in questione non era uno stinco di santa, è una giustizia dalla quale guardarsi e prendere le distanze. Ci lamentiamo, a ragione, del nostro sistema giudiziario. E’ vero, la nostra macchina della giustizia fa acqua da tutte le parti, i processi sono interminabili, ci sono tre gradi di giudizio, non esiste certezza della pena, tra buone condotte, patteggiamenti e affidamento ai “servizi sociali”, è tutto vero. Ma nel nostro paese non sarebbe mai accaduto quello che si è verificato nel caso di Dominique Struass-Kahn. Ci vergogniamo sempre un poco della fragilità della nostra politica, della nostra economia, della nostra giustizia. Bene, questa volta no, possiamo, una volta tanto, andare fieri della nostra giurisprudenza: sarà farraginosa ed antiquata, ma non sarebbe mai in grado di concepire una simile aberrazione giudiziaria. Per una volta, a vergognarsi, ci pensino gli americani.