lunedì 29 febbraio 2016

UNIONE EUROPEA: LA LOTTA DI TUTTI CONTRO TUTTI



Quando il 19 febbraio, dopo oltre 30 ore di negoziati tra il Regno Unito e gli altri 27 Stati membri dell'Ue, è stato raggiunto un accordo per scongiurare la Brexit, a dare per prima la notizia è stata la presidente della Lituania, Dalia Grybauskaitė: «Il dramma è finito», ha scritto su Twitter.
In realtà nella capitale europea tutti sanno bene che il dramma, quello vero, è appena iniziato.
E non riguarda la Brexit, che sarà comunque decisa dai cittadini britannici nel referendum del 23 giugno, ma l'Eurexit, la fine dell'Ue.
LO SPETTRO DELLA 'EUREXIT'. È infatti l'intero sistema a essere messo in crisi dai suoi stessi Stati membri, che ogni giorno attaccano le istituzioni europee, mettono in dubbio le decisioni prese e minano agli stessi Trattati istitutivi dell'Ue.
Così, per quanto le bordate del premier britannico David Cameron - «Io non amo Bruxelles, io amo il Regno Unito» - non aiutino, sono ben altri i problemi che affliggono l'Europa.
«La Brexit è solo lo specchio di quello che sta succedendo in tutti i 28 Paesi dell'Ue», dice a Lettera43.it l'europarlamentare tedesca Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi europei. È in corso uno sgretolamento quotidiano di quegli ideali rappresentati dalle 12 stelle della bandiera Ue: unità, solidarietà e armonia tra i popoli dell'Europa.
L'ITALIA E IL TAGLIO DEI FONDI ALL'EST. Basta guardare le decisioni prese dai vari Paesi in questa ultima settimana per capire perché a Bruxelles si cerchi di navigare a vista e tenere il timone, con l'amara consapevolezza di essere un governo alla deriva incapace di trovare una direzione comune e soprattutto di farla rispettare.
L'Austria mette un tetto di accoglienza per i profughi e pianifica la chiusure delle frontiere con l'Italia, l'Ungheria annuncia un referendum contro la relocation dei rifugiati, l'Italia propone il taglio dei fondi Ue ai Paesi dell'Est che non collaborano nella gestione della crisi, la Francia sgombera la tendopoli di Calais e il Belgio mette i controlli alle frontiere per paura di nuovi arrivi proprio attraverso il confine francese. Questi sono solo gli ultimi esempi di una Eurexit che molti Paesi non chiedono direttamente, ma alla fine contribuiscono a provocare.
Muri, referendum e tetti al numero dei rifugiati: la crisi tra i 28
Il tallone di Achille è l'agenda immigrazione proposta dalla Commissione Ue a maggio 2015 e approvata in sede di Consiglio Ue a settembre, per «ricollocare» negli altri Stati membri 120 mila rifugiati giunti in Italia e Grecia.
Una decisione davanti alla quale Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania si sono opposte, creando una prima spaccatura. La Finlandia si è astenuta.
A distanza di quattro mesi, il governo Orban non solo continua a fare muro per impedire il passaggio dei migranti, ma ha indetto un referendum per chiedere ai cittadini ungheresi se accettare o meno lo schema di relocation dei richiedenti asilo.
L'EFFETTO DOMINO DELL'AUSTRIA. L'Austria ha fatto persino di peggio: dopo aver annunciato di voler mettere un tetto al numero dei rifugiati, decisione definita «illegale» dalla Commissione Ue, ha iniziato a valutare l'opzione di controlli alla frontiera sul Brennero.
Il 25 febbraio il governo di Vienna ha inoltre organizzato una riunione con l'obiettivo di costruire «un'alleanza» per scatenare «un effetto domino della ragionevolezza con la protezione dei confini nazionali», ha spiegato il ministro dell'Interno Johanna Mikl-Leitner. Avendo però invitato solo i ministri di Albania, Bosnia, Bulgaria, Kosovo, Croazia, Serbia, Macedonia, Montenegro e Slovenia, ed escluso Grecia, Commissione Ue, presidenza di turno olandese e Germania, l'effetto è stato solo uno: alzare il livello dello scontro.
I media tedeschi hanno definito l'alleanza un «patto anti-Merkel», e l'esclusione della Grecia dal tavolo negoziale è «un atto non-amichevole», ha commentato il ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias, «perchè dà l'impressione che alcuni, in nostra assenza, stiano accelerando decisioni che ci riguardano direttamente».
LA GRECIA E LA CRISI UMANITARIA. Ad Atene si fanno i conti con gli innumerevoli richiami per una migliore implementazione del sistema di registrazione dei migranti attraverso gli hotspot, ma sono già 12 mila i migranti rimasti bloccati alle frontiere con la Grecia, e il Paese è sull'orlo di una crisi umanitaria.
Tanto che per la prima volta l'Ue ha disposto aiuti umanitari per un Paese membro, quello governato da Tsipras.
«La situazione sulla rotta dei Balcani occidentali è davvero critica», ha avvertito Avramopoulos al termine della riunione dei ministri dell'Interno Ue il 25 febbraio, dove è emersa l'ennesima spaccatura con i Paesi dell'Est, in particolare con i quattro ministri dei Visegradgroup - il polacco Mariusz Blaszczak, lo slovacco Robert Kalinak, l'ungherese Sandor Pinter, il ceco Milan Chovanec - che di aiutare Atene non ne vogliono proprio sapere.
LE COPERTE DELLA REPUBBLICA CECA. A rendere l'idea della lontanza e disgregazione tra i vari Stati Ue è la posizione di Chovanec:«La Repubblica Ceca, a dimostrazione della sua solidarietà, ha già inviato 5 mila coperte».
Che non serviranno certo a riscaldare gli oltre 111 mila migranti arrivati in Grecia dall'inizio del 2016 o a stemperare il clima di gelo che si respira tra tutti gli Stati Ue: «Servono risultati chiari e tangibili sul terreno nei prossimi 10 giorni, o c'è il rischio che l'intero sistema collassi», ha avvertito Avramopoulos.
Il 7 marzo ci sarà un nuovo vertice straordinario dei leader Ue sulla crisi dei profughi con la Turchia.
Il tutto mentre davanti al muro ungherese centinaia di profughi aspettano di poter passare la frontiera e andare in Germania.
Il vero problema da risolvere è il Trattato di Dublino
Ma per quelli che riescono a entrare non va certo meglio.
Il 25 febbraio un giudice del Tar di Lille ha datto il via libera per lo sgombero della tendopoli di Calais, la Giungla.
Un nome che rende bene le condizioni nelle quali per mesi hanno vissuto centinaia di immigrati in attesa di riuscire, invano, a passare attraverso il tunnel sotto la Manica e arrivare in Inghilterra.
Secondo le associazioni ora sono oltre 3.400 i migranti invitati a lasciare la zona meridionale della tendopoli più grande di Francia.
Così molti cercano ora di cambiare percorso e prendere la strada del Belgio.
LE FRIZIONI TRA BELGIO E FRANCIA. Ma questa volta sono le autorità belghe ad avere rafforzato i controlli alla frontiera con la Francia, proprio per evitare passaggi lungo il confine, provocando così il disappunto del ministro transalpino Bernard Cazeneuve.
Frontiere che mai come in questi mesi sono state controllate, sbarrate, mettendo a rischio uno dei pilastri fondativi dell'Ue stessa, la libera circolazione delle persone garantita dal Trattato di Schengen.
A farlo sono stati finora sette Stati membri, ma l'effetto domino che lo stesso ministro austriaco ha dichiarato di voler innescare non lascia intravedere un lieto fine.
IN ATTESA DELLA RIFORMA. Per risolvere alla radice il problema della crisi immigratoria e delle redistribuzione dei profughi, la Commissione da mesi promette di fare una revisione del regolamento di Dublino, secondo il quale i migranti devono restare nel primo Paese in cui mettono piede.
Ma la proposta arriverà solo dopo il vertice con la Turchia. Intanto, si continua a litigare e pensare come mandare via i profughi o uscire dall'Ue.
Così, se a scoperchiare il vaso di Pandora possono essere le concessioni in termini economici e sociali fatte ai britannici, in fila dietro Cameron ci sono tutti i leader Ue che mai come in questo momento si sentono più difensori del proprio Paese che dell'Ue.
E lo spettro della Franxit, già sventolato dai politici transalpini del Front National di Marine Le Pen, sarà solo la prossima tappa di una via crucis europea annunciata.

venerdì 26 febbraio 2016

A SCUOLA DI LINGUISTICA, A PROPOSITO DI “PETALOSO”

Ecco il famoso Matteo, il genio della semiotica dopo Umberto Eco


Dopo teneroso, abbraccioso, morbidoso arrivò il piccolo Matteo con "petaloso" e fu subito amore. Per primi, i complimenti dell'Accademia della Crusca, recapitati proprio il giorno dei funerali di Umberto Eco, che da semiologo diceva di preferire i neologismi giovanili ai vizi degli adulti. E che forse avrebbe aiutato Matteo a diffondere l'uso del suo "petaloso". Poi, l'ovazione dei social. E infine l'altro Matteo, il Premier Renzi, che ha dato del "petaloso" nientepopodimenoche al nuovo polo di ricerca che sorgerà nell'area dell'Expo! Mica male per un bambino delle scuole elementari! Quanti suoi coetanei per un'altra parola inventata si sono beccati un brutto voto? E invece oggi mezza Italia parla di lui, che con il suo "petaloso" ha interpretato lo spirito buonista (e cuccioloso) dell'Italia renziana... Ma se parliamo di nuove espressioni, la vera passione degli italiani sono le parole straniere. Nazionalisti e provinciali, con il vocabolario in mano diventiamo improvvisamente esterofili. E così i giornali sono pieni di spread, bail-in, spending review, fiscal compact e chi più ne ha più ne metta, fino alla famigerata stepchild adoption. Famigerata, sia chiaro, non perché è stata brutalmente espunta dalla legge sulle unioni civili, ma perché in molti non sanno neanche pronunciarla e farfugliano espressioni incomprensibili. O di pura fantasia, come la "stepchild association" di Scilipoti. D'altra parte, in Parlamento si parla anche di "uomini sessuali" in italiano, per modo di dire. E se pensavate che fosse solo una battuta di Checco Zalone, vi sbagliavate: i nostri senatori sono convinti che il termine esista davvero sullo Zanichelli.
Ma non c'è solo Scilipoti, il senatore ribaltonista (a proposito di neologismi), ad avere problemi con l'inglese. Matteo Renzi, degno erede del suo concittadino Dante, è arrivato addirittura a coniare espressioni nuove persino nella lingua di Shakespeare, come "our sea", la traduzione fin troppo letterale di "mare nostrum". O "shish", il termine a oggi inesistente sul quale probabilmente si stanno interrogando senza darsi pace i colleghi anglosassoni dell'Accademia della Crusca e i tutti i gentiluomini riuniti nei club del City. E che certamente spopola sul web tra gli adolescenti e non solo...
"Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola", diceva Emily Dickinson. Un monito che dovrebbe essere inciso a caratteri cubitali nelle Aule di Camera e Senato e forse anche in molti studi televisivi, dove le parole in libertà e gli strafalcioni risuonano uno dopo l'altro. E se Guido Quaranta, decano dei giornalisti parlamentari, nel 1992 ci scrisse addirittura un libro, "Scusatemi ho il patè d'animo", oggi una nuova edizione potrebbe avere un titolo diverso: magari quel "Sarò breve e circonciso", l'affermazione davvero poco rassicurante del grillino Davide Tripiedi.
Ma dopo l'inglese a farla da padroni sono gli animali. E da Esopo a Renzi il passo è breve. Vuoi vedere che un giorno o l'altro ai bambini invece de "La cicala e la formica" o "La volpe e l'uva" racconteremo le gesta di gufi e rosiconi? Gli parleremo di falchi e colombe, della pitonessa, del caimano, del cinghialone, dello squalo, del coniglio mannaro o del giaguaro da smacchiare? O ancora del canguro che zompetta industurbato per l'Aula del Senato, finché non lo "fa secco" (parole testuali del leghista Gian Marco Centinaio) un drappello di 500 koala (che poi sarebbero gli emendamenti nel nuovo gergo animalista)?Quando un famoso vocabolario italiano decise di spiegare la parola "craxismo" scoppiò un putiferio. Ma cosa era in confronto ai verbi costruiti sui cognomi (e le personalità?) dei leader politici? Come in Germania, dove "Merkeln" sta per "l'incapacità di prendere decisioni o esprimere opinioni nette". E per non essere da meno dei colleghi teutonici, Il Giornale ha proposto "Renzare", voce del verbo "vantarsi di aver realizzato riforme che non esistono".
Insomma, la fantasia dei politici non ha limiti. Tanto che qualche anno fa la solita Accademia della Crusca ha sentenziato: "La lingua della politica non ha cessato di inventare o riesumare o rinnovare parole". Volete altri esempi? Ribaltone, poltronismo, complottista, pentastellato, inciuciare, larghe intese, convergenze parallele, non-sfiducia... E allora ben venga "petaloso", un aggettivo che almeno è fresco e colorato proprio come lo sguardo di un bambino. Però, caro Matteo (parlo al bimbo inventore, non al Premier rottamatore) andando avanti tieni a mente la saggia riflessione di Gesualdo Bufalino: "La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello". E il grimaldello, si sa, apre tutte le porte.

giovedì 25 febbraio 2016

STANDBY ADOPTION



Siccome ben 199 senatori, cioè la stragrande maggioranza del Senato, sono favorevoli a tutta la legge Cirinnà, compresa la stepchild adoption, il molto democratico presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico (si fa per dire) ha deciso di stralciare, cioè di cancellare, la stepchild adoption dalla legge Cirinnà per compiacere i 121 senatori contrari. Nella democrazia alla rovescia, la minoranza mette sotto la maggioranza. E il governo pone la fiducia, nel silenzio complice del Quirinale e dei presidenti delle Camere, su una legge parlamentare su cui lo stesso Pd aveva lasciato libertà di coscienza, salvo ora imporre la coscienza (si fa sempre per dire) di Bagnasco, Alfano & C. con un voto blindato pro o contro il governo. Che, così, costringe chi non fa parte della maggioranza (M5S e Sel) a votare contro una legge a cui è favorevole. Se fino all’altroieri una minoranza usava la fiducia per costringere la maggioranza a votare leggi che non condivideva (Jobs Act, Italicum, nuovo Senato), ora lo fa per vietare alla maggioranza di approvare una legge che condivide. Siccome chi ha vinto le elezioni (Pd+Sel e 5Stelle, che nei sondaggi rappresentano due terzi degli elettori) vuole la stepchild, è naturale che la stepchild non passi, o passi dimezzata per ordine di chi le elezioni le ha perse (Lega e Pdl, ora sparpagliato tra FI, Ncd e pulviscoli vari che arrivano al massimo al 30% nei sondaggi) e di uno Stato estero.
Fino all’altroieri il Pd, a parte i soliti quattro catto, giurava che mai avrebbe accettato lo stralcio della stepchild. Ivan Scalfarotto, sottosegretario: “Chi oggi esulta per le unioni civili in Grecia esulterebbe se in Italia passasse una legge senza stepchild come quella greca?” (23.12).
Sergio Lo Giudice, senatore: “Stralciare la stepchild è un’ipotesi priva di fondamento: la legge sarebbe massacrata dalle sentenze europee dal primo giorno” (7.12). Renzi: “No allo stralcio della stepchild adoption: nasce come proposta della Leopolda e l’abbiamo appoggiata sin da allora” (29.12).
Monica Cirinnà: “La stepchild ci sarà” (30.12). Federico Fornaro, sinistra Pd: “Chi chiede lo stralcio vuole che l’Italia resti l’unico paese europeo senza una legge sulle unioni civili” (4.1). Pier Luigi Bersani, ex segretario: “No allo stralcio delle adozioni” (14.1). Paola Campana: “Nessuno stralcio, non si abbassa l’asticella sui diritti dei bambini” (14.1). Luigi Zanda, capogruppo al Senato: “Non si parli di stralcio della stepchild: il testo ha già subìto almeno 4 revisioni” (16.1). Giuseppe Lumia: “Non ci sarà nessuno stralcio. Il testo che contiene la stepchild adoption è equilibrato e in grado di avere il più largo consenso dell’aula” (4.2). Matteo Orfini, presidente Pd: “Tirare dritto con il testo Cirinnà. Non prendo in considerazione l’ipotesi che la legge non passi con anche la stepchild” (7.2). Ri-Zanda: “Avanti senza alcuno stralcio, passerà anche la stepchild” (8.2). Anna Finocchiaro, senatrice: “Ok stepchild. Da stralcio nessuna deterrenza a maternità surrogata” (9.2). Ri-Renzi ad Alfano: “La posizione del Pd non è per stralciare la stepchild” (14.2). Ettore Rosato, capogruppo alla Camera: “Si smetta di parlare di stralci: è in gioco un punto delicatissimo come la tutela dei minori” (15.2).
Roberto Speranza, sinistra Pd: “Non è immaginabile togliere la stepchild adoption” (17.2). Ri-Zanda: “Il gruppo Pd al Senato punta a portare avanti il ddl Cirinnà senza stralcio della stepchild adoption” (17.2). Ri-Cirinnà: “Se la legge cambia e diventa una schifezza, tolgo la firma e lascio la politica” (17.2). Luciano Pizzetti, sottosegretario alle Riforme: “La parola stralcio è una bestemmia” (18.2). Francesco Verducci, a nome dei 21 senatori “giovani turchi” Pd: “Chi parla di stralcio sa che renderebbe impossibile l’unità del Pd” (18.2).
Poi è bastato il fischio di padron Matteo col contrordine compagni, e tutti a cuccia: sì allo stralcio della stepchild adoption, evvai, evviva, che bello, è quello che abbiamo sempre sognato, com’è umano Renzi! In Vaticano hanno persino riaperto il Carnevale in piena Quaresima. Ma dove sono Scalfarotto, Zanda, Rosato, Speranza, Finocchiaro e Orfini con tutti i giovani turchi? E la Cirinnà, avrà già lasciato la politica? Si teme un rapimento, una rendition di massa modello Abu Omar. Forse Renzi li tiene segregati nelle segrete di Palazzo Chigi a pane e acqua con le omelie di Adinolfi dagli altoparlanti? Chi ha notizie faccia sapere. Intanto organizziamo le ricerche con i cani da valanga.
Ci piacerebbe tanto avere con noi l’impavido Francesco Merlo che, quando il M5S decise (come il Pd) la libertà di coscienza pur sposando in toto la legge, fremeva di sdegno su Repubblica contro “la giravolta di Grillo” che “si allea con Quagliariello in nomine Dei… nei tortuosi corridoi politici degli atti indecenti e nell’Italia delle sacrestie e dei campanili” contro “la civiltà europea della faticosa ma necessaria legge Cirinnà… la legge più moderna e più radicale che il Parlamento italiano possa approvare in materia di diritti civili, la sola che ci possa agganciare all’Europa”. Poi osservava sconsolato: “già si parla di ‘stralcio’, ‘emendamento’, di un altro ‘super canguro’, che è il lessico del rinvio, la più crudele pena inflitta all’Italia, condannata all’eternità dell’indolenza… alla morbidezza del peggio, al capriccio perverso dell’andreottismo, al rinvio come via italiana al vaffanculo”.
Ecco, ora che tutte queste belle cose le fa Renzi, servirebbe tanto la verve del Merlo. E invece niente, desaparecido anche lui. O forse, più semplicemente, stralciato.
Marco Travaglio

mercoledì 24 febbraio 2016

LA VERITA’, FINALMENTE, SU EXPO: PERSI ALMENO 32,6 MILIONI, NON CI SONO NEPPURE I SOLDI PER CHIUDERE



Il candidato sindaco di Milano del Pd, Giuseppe Sala, ha un bel dire che non c’è nessun buco Expo. La società che ha gestito l’esposizione universale meneghina ha chiuso il 2015 con un rosso di 32,6 milioni di euro. A smentire Sala è lo stesso Sala. O meglio, il consiglio di amministrazione di Expo 2015 da lui guidato, che lo scorso 18 gennaio ha messo nero su bianco la cifra in una relazione che è stata discussa dai soci il 9 febbraio scorso. Dieci giorni dopo la data inizialmente prevista, il 29 gennaio a ridosso delle primarie del Pd che hanno incoronato Sala candidato sindaco di Milano, poi spostata su indicazione del ministero dell’Economia.
Nel documento si legge anche che “in considerazione delle spese strutturali previste nei primi mesi del 2016 (quantificabili in 4 milioni mensili), è probabile una ricaduta nelle previsioni dell’articolo 2447 del codice civile durante il mese di marzo”. Il che significa, in altre parole, che secondo i calcoli del consiglio guidato dallo stesso Sala, da febbraio 2016 le disponibilità liquide di Expo 2015 si sono esaurite, ma non le spese. E andando avanti così, è sempre la stima del cda, è prevedibile che entro il mese prossimo la società arrivi ad accumulare perdite superiori a un terzo del suo capitale. Una situazione in cui la legge impone l’abbattimento del capitale stesso e il suo contemporaneo aumento per riportarlo al minimo legale.
La scivolosità della situazione non è sfuggita al collegio sindacale di Expo 2015 che, nel corso dell’assemblea che due settimane fa ha deliberato la messa in liquidazione della società, ha chiesto “chiarezza in relazione alla necessità di risorse per la liquidazione” stessa. Tanto più che anche Sala ha confermato che “le risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane”  e che “è importante rendere chiara la situazione al nominato organo di liquidazione”. Anche perché i liquidatori freschi di nomina – il prorettore della Bocconi Alberto Grando, Elena Vasco (Camera di Commercio), Maria Martoccia (ministero Finanze) e i confermati Domenico Ajello (Regione Lombardia) e Michele Saponara (Città Metropolitana) per i quali è stato fissato un compenso complessivo di 150mila euro – hanno 90 giorni per elaborare un progetto di  liquidazione. Per la scadenza, però, stando alle stime del cda, Expo 2015 avrà una carenza di liquidità di oltre 80 milioni di euro.
Nel frattempo, però, è imminente una finalizzazione degli accordi con Arexpo sulla gestione delle aree fino a giugno 2016, quando i terreni passeranno nella società in cui sta facendo il suo ingresso il Tesoro. Le indicazioni dei soci di Expo 2015 ai liquidatori sono inequivocabili, in quanto auspicano “il compimento di una attività di rivitalizzazione di parti del sito Expo 2015 nella fase transitoria dello smantellamento del sito stesso, attuato preservando i valori del sito medesimo, secondo principi di sinergia fra le società Expo 2015 S.p.A. e Arexpo S.p.A., nel rispetto delle funzioni proprie di ciascuna delle due società”. I liquidatori, quindi, sono invitati ad individuare, tra i principali criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione, quelli preordinati alla realizzazione “di eventuali sinergie e collaborazioni tra Expo e Arexpo S.p.A;  anche con riferimento alla fase convenzionalmente denominata Fast Post Expo“. Cioè  l’evento previsto in concomitanza con la ventunesima Triennale Internazionale di Milano, tra aprile e settembre, che dovrebbe utilizzare l’area del Cardo.
Il punto non è secondario. Secondo i calcoli del vecchio cda di expo, infatti, per il 2016 la società ha bisogno di 58,3 milioni di euro: 39,6 per lo smantellamento e 18,7 per la chiusura dell’azienda. La somma andrebbe chiesta pro quota ai soci (pubblici) di Expo. Ma grazie al Fast Post Expo può essere ridotta di 19,5 milioni con il “ribaltamento dei costi sostenuti ad Arexpo”. E così agli azionisti di Expo toccherebbe sborsare “solo” 38,8 milioni: al ministero dell’Economia toccherebbero 15,5 milioni, alla Regione e al Comune 7,8 a testa, mentre la Provincia e alla Camera di Commercio ne dovrebbero versare 3,9 ciascuna. Resta da capire quanto costerà l’operazione sul lato Arexpo i cui soci, dopo l’ingresso del Tesoro, saranno ancora una volta lo Stato, la Regione e il Comune, oltre alla Fondazione Fiera Milano pur destinata a diluirsi fortemente.