lunedì 22 febbraio 2016

PER MIO MARITO, E PER IL RAGAZZO CHE ERA



Quando leggerete queste parole io sarò in viaggio verso la Nuova Zelanda, per incontrare mio marito Rob.
Ho aspettato quasi nove mesi per vederlo. Per dirgli che lo amo, per camminare a piedi nudi nel giardino della sua vecchia casa di famiglia, per passare quanto più tempo possibile con lui.
Ma questo non è l'incontro che vi aspettereste.

Lui non sarà lì ad aspettarmi all'aeroporto. Non passeggeremo sulla spiaggia prendendo scherzosamente in giro le beccacce di mare che volano tutt'intorno, non ci terremo per mano sotto l'immenso cielo blu di Auckland, un cielo che sembra essere più grande che in qualunque altro posto del mondo.
Come un arcobaleno nella luce del sole, lui è qui ma non c'è perché, nove mesi fa, Rob si è tolto la vita dopo anni di sofferenza a causa di una grave forma di depressione.

Rob è morto a Auckland, così io ho avuto un sacco di tempo per riflettere dall'ultima volta che gli ho fatto visita al cimitero, un luogo che adesso ha una croce in più col suo nome e un piccolo vaso di Kōwhai che resterà accanto alla sua tomba finché io e sua madre non ci decideremo a mettere una lapide, insieme.
Il nome di mio marito non dovrebbe essere su una croce.
Dovrebbe essere scritto su una panchina di un un parco, ma tra quarant'anni, in ricordo di un luogo dove amavamo sederci a guardare il fiume, seguendo una rassicurante routine.

Nello sforzo di trovare un significato, un senso nella morte di Rob, ho letto moltissime cose sulla salute mentale, per cercare di capire la mente di un suicida. Forse è perché, in qualche modo, mi sembra di poter alleviare con la ragione e con la logica l'assoluta ingiustizia della sua morte.
Ci provo, anche se non ci sarà mai una chiusura definitiva. Lo so dalle testimonianze di quanti frequentano il mio gruppo di supporto: persone che hanno perso figli, genitori, fratelli e coniugi.
Le sole persone a cui potremmo chiedere sono proprio quelle che hanno deciso di raggiungere un luogo fuori dalla nostra portata, portandosi dietro anche le parole.

Ma ci sono tante cose che so. Non tutte le persone affette da una malattia mentale sviluppano istinti suicidi, ma la stragrande maggioranza di quanti si sono tolti la vita aveva problemi mentali.
So anche che più del 50% degli adulti con malattie mentali ha iniziato a soffrire in giovane età.
Rob veniva da un'amorevole famiglia borghese e, per sua stessa ammissione, anche lui rientrava in questa statistica. A trent'anni, quando ha ricevuto il giusto aiuto psichiatrico, ha capito di aver iniziato a soffrire di depressione quando era molto giovane, a circa dieci anni addirittura.

Tuttavia, non conosceva un modo per parlare del suo disturbo perché era proprio lui il primo a non comprenderlo e nessuno aveva i mezzi, la conoscenza e gli strumenti necessari per affrontarlo.
Negli ultimi anni della sua vita, ha passato molto tempo a cercare di comprendere il motivo della sua trasformazione: da bambino tranquillo ed educato era diventato un adolescente da incubo, che faceva sempre l'opposto di quello che gli veniva detto.
Nei momenti di maggiore vulnerabilità, Bob parlava del bullissimo che aveva subìto quando era ancora un ragazzino intelligente e sereno, e diceva che perfino dopo aver compiuto 30 anni continuava a pensare a quel periodo, a quello che provava.
"E' normale?" mi chiedeva. Io non sapevo come rispondere, così facevo una cosa sola, l'unica che potevo fare: lo tenevo stretto a me. Considerando gli enormi progressi fatti nel trattamento delle malattie mentali circa 25 anni dopo, mi chiedo perché le cose non sono ancora arrivate ad un punto che permetta di agire in modo efficace quando si tratta di identificare, supportare e aiutare i bambini con problemi mentali.
Per la maggior parte di noi è ancora molto difficile riconoscere la differenza tra un adolescente che si comporta male e un adolescente che combatte con un disturbo. Per i bambini sotto i 14 anni, è ancora più dura perché non hanno neanche acquisito il linguaggio necessario a descrivere quello che sentono. I genitori si sentono terribilmente incapaci perché non sanno come identificare quello che succede, come autare i loro ragazzi e affrontarli senza limitarsi a ricorrere a misure punitive.
Anche se la prevenzione per la salute mentale degli adulti è insufficientemente sovvenzionata, non ha senso promettere milioni per un rimedio a lungo termine. È un aiuto necessario, ma si tratta quasi di una lotta contro il tempo.
Ma se pensiamo che potremmo dimezzare il numero di soggetti con malattie mentali fornendo loro il giusto supporto quando sono ancora bambini, perché non diamo a questo tipo di aiuto la stessa priorità?
Immaginate il numero di persone che potreste salvare da una vita di sofferenza. Alcune di loro sono così stanche del buio e della disperazione, così esauste di sentirsi spacciate, da credere che l'unica soluzione sia togliersi la vita.

Immaginate l'impatto che questo potrebbe avere sull'intera società: insegnare a queste persone come chiedere aiuto fin da giovani, che non esiste la "normalità". Far capire loro come affrontare la vita quando ci mette di fronte alle sfide.
Ancora meglio: smettiamo di immaginare e iniziamo a fare.
Per me è immorale non fare nulla per aiutare questi bambini e i loro genitori, considerando quello che sappiamo oggi sulla differenza che può fare un intervento tempestivo, quando si tratta della salute mentale di un bambino.

Anzi, se pensiamo al fatto che i bambini di oggi possiedono il potenziale per rappresentare quanto di meglio l'umanità ha da offrire, se pensiamo che loro sono il nostro futuro, è un obbligo fare tutto quello che è in nostro potere.