martedì 30 dicembre 2014

LA PAGLIACCIATA DEL JOBS ACT



La riforma del mercato del lavoro che, chissà perché, in Italia ha preso il nome di Jobs Act, non è una porcheria perché permette ai datori di lavoro di licenziare con maggior facilità, è molto peggio.
Per quanto una persona razionale faccia sforzi fuori dal comune, davvero gli risulta impossibile comprendere come  i maggiori esponenti delle forze politiche che hanno concorso all’approvazione di una legge così importante immediatamente dopo il voto abbiano visioni assolutamente contrapposte non su aspetti marginali, ma addirittura rispetto a chi debba essere applicata questa riforma.
Dato che non è assolutamente ammissibile che chi ha proposto la legge e poi, dopo infinite discussioni, l’ha anche approvata, non sapesse se dovesse essere applicata anche ai lavoratori pubblici, che, ricordo, non sono quattro gatti, bensì milioni e milioni, beh! Non può altro che essere andata così:
Allora, il Governo doveva fare una riforma del mercato del lavoro, ce l’aveva chiesta l’Europa, ma non importa, facciamo pure finta che fosse un’idea di Renzi. L’attuale esecutivo, ricordo, è formato dal Partito Democratico, dal Nuovo Centro Destra e da Scelta Civica.
Allora il 99,9% dei dipendenti pubblici che si reca alle urne vota per il PD, mentre qualche lavoratore dipendente del settore privato ed alcuni autonomi (pochi per la verità) votano Ncd e SC.
Ed allora dato che il Jobs Act è una riforma che, nell’accezione comune, “toglie tutele” ai lavoratori, se fosse applicato anche ai dipendenti pubblici il PD perderebbe dei voti, mentre se fosse applicato soltanto al settore privato sarebbero l’Ncd e SC a perdere voti perché verrebbe interpretata come l’ennesima beffa nei confronti dei privati e l’ennesimo privilegio per il pubblico impiego.
Occorreva trovare un compromesso, ma era praticamente impossibile, era come trovare una terza via nella scelta fra testa o croce.
Ma voi cari lettori, come me d’altronde, sottovalutate l’infinita fantasia della quale sono dotati i politici italiani, anzi più che di fantasia si dovrebbe parlare di faccia di bronzo. Sono proprio incapaci di provare vergogna e non si fermano davanti a nulla pur di continuare a sedersi su quelle poltrone.
ED ECCO QUINDI LA SOLUZIONE
Noi tutti, Partito Democratico, Nuovo Centro Destra e Scelta Civica approviamo il Jobs Act, ma appena votato il PD può dire che si applica solo ai lavoratori del settore privato, e non ai dipendenti pubblici, mentre l’Ncd e SC sosterranno che invece è valido per tutti i dipendenti.
E Renzi?
Da che parte sta?
Renzi, novello Ponzio Pilato, annuncia in pompa magna: “Sarà il Parlamento a decidere”
E poi c’è chi dice che il Parlamento in Italia non conta nulla!  (source)

lunedì 22 dicembre 2014

LETTERA DALL'INFERNO



da Repubblica, 29 novembre 2014

Caro Augias, ho 64 anni, nell’agosto del 2011 mi è stata diagnosticata la Sla. Scrivo grazie ad un computer a comandi oculari. Da metà del 2013 sono immobilizzato, con un tubo che collega, 24 ore al giorno, il mio naso ad un respiratore meccanico. Non avendo più il riflesso difensivo della tosse mangio e bevo con il terrore che qualcosa vada di traverso — mi è già successo: una situazione terribile di soffocamento. Ad onta della mia condizione, non penso al suicidio, anzi, facendo leva sulle mie residue risorse intellettuali, sulla vicinanza di alcune care amicizie e, soprattutto, sugli affetti familiari, riesco tuttora a trovare un senso alla mia esperienza umana. Però, sempre che non intervenga prima una fatale crisi respiratoria, so di essere condannato a perdere le mie funzioni vocali. A tale evento ho deciso di collegare il punto finale della mia vita. Appunto perché la vita è una unica, irripetibile esperienza, deve poter essere vissuta senza che diventi un’insopportabile prigione. C’è, insomma, un diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito a tutti. Chiedo: perché costringermi ad andare in Svizzera invece di poterlo fare vicino ai miei affetti, nella mia terra, nella mia patria? Al momento la sola alternativa che ho sarebbe lasciarmi morire di fame e di sete. È accettabile, umano, pietoso costringere una persona e i suoi cari ad un tale fardello di prolungata, indicibile sofferenza?

Walter Piludu, Cagliari


La risposta netta è no. Non è ammissibile che un uomo lucido, consapevole della sua condizione, padrone della sua volontà, però prigioniero di un corpo che a quella volontà non è più in grado di rispondere, debba patire una lunga e tremenda agonia solo perché il suo Paese non riesce a tutelarne la dignità. In una parte della lettera che ho dovuto tagliare il signor Piludu dice di sapere che sull’eutanasia incombono numerosi aspetti «ognuno degno di rispetto, di ordine filosofico, religioso, medico, legale». Aggiunge anche, con grande senso di responsabilità, di non sapere se giunto al punto che oggi lucidamente indica, non potrebbe «cambiare idea o perdere la forza necessaria». Ma proprio questo è il punto: sapere che se si confermasse nella sua decisione avrebbe la libertà di farlo senza patimenti è già un sollievo. Ed è questo il momento che oggi il suo Paese, il nostro, gli nega provocandogli un’angoscia aggiuntiva a quella della malattia. Il signor Piludu in anni lontani è stato presidente della Provincia di Cagliari il che dà più forza alle sue parole quando scrive: «L’essenza, vorrei dire la nobiltà, della politica sta nel coraggio di assumere decisioni in grado, a volte in tempi imprevedibilmente rapidi, di rendere migliore la vita delle persone e della società». La nobiltà della politica, appunto.

Corrado Augias

giovedì 18 dicembre 2014

E SE MATTEO SALVINI (OGNI TANTO) AVESSE RAGIONE?



Visto come stanno andando le cose in questo luogo di pianto che è l’Italia, verrebbe voglia di dare ascolto a Matteo l’altro, il Salvini. Il quale, al pari del Matteo Renzi, dice cose ampiamente condivisibili. Magari uno non le condivide in linea teorica, ma finisce per essere d’accordo, soprattutto dopo certe giornatacce schifose in cui tutto va male perché essere italiani che cercano di sopravvivere e lavorare nel proprio paese è una lotta. La differenza più rilevante tra i due Mattei è che, mentre Matteo Rosso (si fa per dire) in quanto a dichiarazioni fa concorrenza a Miss Universo (lui vuole il bene dell’umanità e la fine delle guerre e si stupisce che nel mondo esista tanta cattiveria), Matteo Verde si atteggia a Hulk dei poveri che sradicherà corruzione e lassismo in un sol colpo, portando indietro al boom dei favolosi anni Sessanta. Matteo Rosso e Matteo Verde parlano sempre al futuro, perché il futuro è un tempo facile da gestire: puoi spararla grossa senza impegno, perché il futuro, si sa, è terra incerta. Anzi, il futuro attualmente è fatto di sabbie mobili.
VECCHIO INCONTINENTE – Matteo Salvini dice che Roma avrebbe bisogno di un sindaco leghista. Sottinteso: perché i leghisti sono incorruttibili e di specchiata virtù. Chissà chi ha in mente. Magari il Trota, che ha dato prova di correttezza e onestà, oltre che di competenza. Da deputato europeo che incassa lo stipendio dice che dovremmo uscire dall’euro e in questo forse non ha tutti i torti: magari uscire uscire no, ma perché quando si avvicina la fine dell’anno dobbiamo sempre sorbirci le pantomime di Angela Merkel, che a Natale si trasforma nel Grinch? Tsipras in fondo non nutre maggiore simpatia nei confronti di chi attualmente regge con somma odiosità i destini del Vecchio Continente, che è diventato lagnoso ed egoista come un Vecchio Incontinente. Spiace che Salvini non abbia colto al balzo la retrocessione operata ai danni dell’Italia da Standard & Poors per dire che, già che ci siamo, oltre a tornare alla lira non dobbiamo dar retta a questa gente. In fondo il 5 febbraio 2013 addirittura Obama aveva denunciato la famigerata agenzia di rating perché emana gride a suo piacimento, certo non per aiutare i paesi in difficoltà, anzi.
LIAISON – Certo le liaisons dangereuses tra Matteo Verde e certe frange destrorse dell’estrema destra d’Oltralpe fanno un po’ riflettere. Invece le relazioni pericolose all’interno del nostro governo no? Il fatto è che la Lega ha ripreso ad avanzare e stavolta non ha bisogno di parlare solo a una parte del paese. Può tranquillamente parlare con tutti e parlerà sempre più con tutti, perché usa un linguaggio e concetti ampiamente condivisibili, appunto. Magari meno da Miss Universo di quelli che ci ammannisce il Pd, ma molto più subdoli e invasivi. La Lega parla con noi non quando siamo ben vestiti, profumati, benestanti, pii e di mente aperta, ma quando siamo brutti, sporchi, cattivi e arrabbiati perché abbiamo appena fatto la coda in posta, pagato le tasse, subito un sopruso, combattuto con la burocrazia, vissuto per l’ennesima volta la difficoltà di essere italiani.
MOMENTO SALVINI – Qui i casi sono tre: o la Lega ha saputo rinnovarsi, o cavalcare il disagio in maniera aspecifica paga oppure la disperazione degli italiani è tale che non riescono più a dissimulare quella parte oscura che la Lega ha la sincerità di non nascondere. Certo, è irresponsabile seguire le ragioni più becere, ma è umano ogni tanto essere d’accordo con Salvini. Giusto magari no, ma umano sì. E poi perché dovremmo dire che non è giusto? Che senso ha demonizzare? Ognuno di noi ogni tanto, soprattutto in tempi come questi, ha il diritto di avere il suo Momento Salvini. Poi non è obbligatorio che, dopo che si è sbottati, si debba dar seguito ai propri pensieri. Neanche Salvini lo fa. A volte non si dà retta nemmeno lui. In questo non è diverso dall’altro Matteo: parla e parla e non sempre si ascolta. A proposito di uomini politici francesi, ce n’era uno che diceva che “bisogna ascoltare molto e parlare poco per governare bene uno Stato.” Era il Cardinale Richelieu. (source)

sabato 13 dicembre 2014

CHE COSA VUOL DIRE TROVARSI UN GRADINO SOPRA LA SPAZZATURA (e perchè nessuno ne parla)



Quanto accaduto negli ultimi sette giorni non rappresenta una novita per chi sta scrivendo, il downgrade sul rating italiano era atteso da qualche mese. Trovarsi all’ultima soglia dell’investment grade (BBB-) fa emergere nuovi preoccupanti evoluzioni per il futuro della crisi italiana. Da considerarsi senza parole invece l’esternazione dell’attuale Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha commentato la diminuzione del livello di rating con “non la consideriamo una bocciatura”. Ognuno di voi si è fatto ormai un’idea sulla bontà e consistenza del Governo Renzi e dei suoi rappresentanti. Il Paese, sfortunatamente o volutamente, si trova sotto l’assedio mediatico dell’ultimo fatto di cronaca nera, il delitto di Santa Croce Camerina, che si avvia a diventare un nuovo Cogne 2 La Vendetta, e questo aiuta a spostare l’attenzione e devia la concentrazione dell’opinione pubblica. I talk show nazionali non hanno dato lo spazio dovuto alla vicenda del downgrade. Non penso per negligenza, ma per necessità. Necessità nazionale. Di certo è molto probabile che il Partito Democratico si troverà a dover affrontare e gestire the road of ruin in caso di sempre più probabile declassamento a speculative investment del debito pubblico italiano, quello che volgarmente ed erroneamente viene definito il livello spazzatura.
Ora su questo punto è opportuno fare il seguente approfondimento. Le emissioni di debito si dividono in due grandi categorie secondo le agenzie di rating, il debito da investimento (appunto investment grade) ed il debito speculativo (speculative grade). Il primo indica il debito di un emittente, sia esso nazione o private corporation, caratterizzato da diversi livelli di affidabilità e capacità di rimborso dei debiti contratti. I livelli di affidabilità rappresentano i tanto denigrati rating letterali, AAA, AA, A, BBB. La seconda categoria indica invece il debito di un emittente caratterizzato da vari livelli di vulnerabilità nella capacità di essere solvibile nei confronti delle obbligazioni assunte, tali livelli sono rappresentati dalle lettere BBB, BB, B, CCC, CC, C, D, dove quest’ultima significa default ovvero incapacità di rimborsare parzialmente o integralmente le proprie obbligazioni. L’Italia si trova per l’appunto nell’ultimo scalino della fascia di investment grade. La probabilità che nei prossimi sei mesi passeremo nella fascia speculative è significativamente molto elevata vista il continuo deterioramento delle principali variabili macro. Che cosa succede a tal punto ? Sul piano formale per il paese in questione non vi sono grandi ripercussioni. Sul piano sostanziale, per un paese come l’Italia, significa l’inzio della road of ruin.
Saranno infatti i portfolio managers dei fondi comuni di investimento a dare avvio alle danze. Questi ultimi infatti amministrano i vostri risparmi sulla base di un mandato di gestione che può ad esempio prevedere l’investimento delle masse raccolte esclusivamente in strumenti finanziari con rating di investment grade. Il gestore sarà pertanto obbligato a vendere il titolo di stato italiano che aveva in portafoglio in quanto non soddisferà più una condizione vincolante. Solo i fondi in cui il gestore ha una delega quasi totale possono evitare di comportarsi in questo modo. La fuga obbligata dal titolo di stato inizierà a deprimere le quotazioni, che a loro volta innalzeranno lo spread ed il tasso di interesse che l’Italia dovrà offrire per rifinanziare il proprio debito. A quel punto vedremo in azione, si spera, lo scudo anti-spread della BCE che impedirà di fatto il verificarsi di tensioni sul debito sovrano di un paese all’interno dell’Eurozona al pari di quanto accaduto nel 2011. Avete visto quanta difficoltà ha il governo per reperire un miliardo per rifinanziare questo o per dare supporto a quello, immaginate pertanto che i miliardi che improvvisamente serviranno saranno dieci e perchè no venti. Di certo il tampone che metterà l’autorità sovranazionale (con le OMT) sarà provvisorio, ed un paese come il nostro non si può permettere di comportarsi come l’Argentina nel 2001.
Difficoltà di funding durante le nuove emissioni di debito sarebbero percepite dagli operatori istituzionali dei mercati finanziari come un “prendi i soldi e scappa” prima di ritrovarsi con la ristrutturazione forzata del debito. Ne sono sempre più convinto, il 2015 sarà l’anno del terrore per il piccolo risparmiatore, perchè ci avvieremo verso the road of ruin proprio come hanno fatto altri paesi prima di noi, caratterizzati da immobilismo politico ed una impossiblità di governare causata da un eccesso di democrazia. A quel punto quando arriverà la Troika come curatore fallimentare e nuovo dittatore finanziario rimpiangeremo Monti & Company, perchè a pagarla saranno rispettivamente: detentori di titoli di stato (possibile cut-off del 25%), piccoli risparmiatori con il prelievo sui depositi, italiani benestanti con l’introduzione della welath tax, dipendenti pubblici e statali (con un taglio trasversale del 20% dell’attuale forza lavoro), congelamento delle tredicesime, istituzione del salario massimo, vendita di cespiti di stato di particolare prestigio e valore (partecipazioni societarie e patrimonio demaniale), dipendenti di banca (perchè le banche sottocapitalizzate sarano obbligate a fondersi), dirigenti di enti locali e simili (ridimensionati o licenziati in tronco con contestuale estinzione dell’ente), medici, ospedali ed operatori sanitari, perchè il welfare sanitario pubblico sarà l’area dipartimentale maggiormente soggetta a tagli.
Eugenio Benetazzo - eugeniobenetazzo.com

martedì 9 dicembre 2014

IL MALINCONICO ADDIO DI GIORGIO I



Il lungo e tormentato passo d’addio del Grande Vecchio delle Due Repubbliche è destinato a lasciare orme profonde e indelebili sull’arida superficie della politica italiana, segnata da una crisi morale e istituzionale devastante. Un deserto attraversato da tempeste finanziarie mondiali, da guerre di religione che ormai si affacciano davanti alle coste della Sicilia e i livelli occupazionali recedono drammaticamente ai minimi storici. Nell’attesa che sul primo (pieno) e sul secondo (a tempo) doppio mandato presidenziale di Giorgio Napolitano arrivi il giudizio dei tanti editorialisti e costituzionalisti “à la carte” che fin qui hanno condonato al monarca rosso quanto rimproverato invece aspramente ai suoi tanti predecessori (da Cossiga a Scalfaro), la prima domanda da porsi è su cosa lascia in eredità ai suoi autorevoli orfani (in primis Scalfari), e soprattutto al Paese, l’inquilino in uscita dal Quirinale. A distanza di venti mesi da quel 20 aprile 2013, quando a Re Giorgio fu chiesto dai Partiti morenti e dai Poteri marciti di restare sul trono scaduto, il quadro politico e istituzionale appena accennato non è, di fatto, migliorato. Anzi. Da mesi le “urgenti” riforme reclamate a gran voce dal capo dello Stato sono bloccate alle Camere nonostante l’Alta corte a suo tempo avesse a suo dichiarato incostituzionale il Porcellum. La legge elettorale (detta Italicum) che dovrebbe rimpiazzarlo è stata ribattezzata dal suo promotore Calderoli “il Merdellum”, senza che neppure la co-relatrice del provvedimento Anna Finocchiaro, a quanto si legge tra i papabili “in rosa” al Quirinale, battesse ciglio. Insomma, una porcata bis. L’abolizione del Senato è un altro pasticcio finito sul binario morto di palazzo Madama. Una falsa rivoluzione, per porre fine al bicameralismo, che sin dalla prima bozza ha fatto rizzare i capelli in testa ai bravi e onesti costituzionalisti. Insomma, l’ennesima schifezza istituzionale. Nelle Province abolite si continua ad assumere. E, per fortuna, non si parla più della Riforma della pubblica amministrazione per sbaraccare quel che resta di buono (e sano) anche in quel sistema obsoleto. E ancora. I conti pubblici non sono migliorati; e il rosso di bilancio si avvia a nuovi record (negativi). Il Pil stagna, i consumi si deprimono ulteriormente, la povertà affama i più deboli. Anche il tanto decantato “Sblocca Italia” varato dal parolaio Renzi, fortemente voluto da Re Giorgio a capo di un governo ad incerte “maggioranze variabili” (mai visto neppure ai tempi di Andreotti), non ha avuto gli effetti sperati sul rilancio delle Grandi Opere. Insomma, una catastrofe economico-sociale. La “Caporetto della disoccupazione” (copy la Voce.info), del resto, è sotto gli occhi tutti. Meno di quelli del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che nel frattempo incassa l’ennesimo voto di fiducia sul decreto Jobs act, nel silenzio imbarazzato del Quirinale. In passato, soprattutto nell’era dei governi Berlusconi e Letta, Napolitano ha sempre tuonato contro il suo deprecabile uso, che - di fatto -, esautora la dialettica parlamentare.  Nel giro di nove mesi il governo del parolaio Renzi è già ricorso 29 volte - 16 alla Camera e 13 al Senato -, al voto di fiducia su un totale di 55 leggi licenziate dal Parlamento (52,73%). “Un primato assoluto rispetto ai suoi predecessori”, secondo le stime diffuse dall’associazione Openpolis, vedi tabella allegata). Dunque, venerdì scorso, non appena l’Istat ha rilasciato i nuovi dati sull’occupazione, il ministro Poletti straparlava ancora di nuovi posti di lavoro mentre i dati Istat dello scorso 28 novembre raccontano una disfatta per chi cerca un posto di lavoro: l’occupazione è diminuita di 55mila unità rispetto a settembre e la disoccupazione è aumentata del 2,7% (9,2% rispetto a ottobre 2013). Ovviamente per i giovani (15-24 anni) i dati sono molto più negativi: tra settembre e ottobre l’occupazione scende dell’1,7% (-2,3% rispetto a un anno fa) e la disoccupazione sale dello 0,6% (+5,6 per cento rispetto a un anno fa).  Di là dagli incensamenti nauseanti a mezzo stampa, chissà se a spingere lo stesso capo dello Stato alla rinuncia di fine anno, oltre alla stanchezza fisica, non sia stata proprio la consapevolezza, la delusione e l’amarezza per aver fallito la missione (impossibile) che gli era stata affidata al momento del bis. “Sono stato quasi costretto ad accettare la candidatura a una rielezione o a una nuova elezione a Presidente della Repubblica, essendo profondamente convinto di dover lasciare…», confessò pochi giorni dopo la rielezione Napolitano al suo amico Eugenio Scalfari. Per subito aggiungere, un tantino criptico: “Abbiamo vissuto un momento terribile. Abbiamo assistito a qualcosa cui non avevamo assistito (…). Ho detto di sì per senso delle istituzioni. Ho ritenuto che si trattasse di salvaguardare la continuità istituzionale».  Era forse lo stesso scenario “da paura” che nell’autunno del 2011, con l’Europa che reclamava la sua testa, aveva indotto il capo dello Stato a convocare al Colle il premier Silvio Berlusconi per indurlo a dimettersi una volta approvata la legge di stabilità che fece gridare al golpe il Cavaliere? O no? Già, Silvio, l’ultimo leader del reame costituzionale “alla Napolitano” ad entrare a palazzo Chigi “a pieno titolo”, cioè legittimato da un ampio voto popolare.  Alle elezioni dell’aprile 2008 la coalizione capitanata dal Polo delle libertà del redivivo Cavaliere otteneva il 47% dei consensi e ampie maggioranze in entrambe le Camere. E non “per grazia ricevuta” di Re Giorgio. O senza alcun passaggio parlamentare (fiducia&sfiducia), com’è accaduto in seguito per il”tecnico” e senatore a vita Mario Monti (2011-13), Enrico Letta 2013- febbraio 2014) e Matteo Renzi. Eppure le cronache dei mesi che precedono la rielezione di Napolitano a distanza di qualche settimana dalla vittoria del centro sinistra alle elezioni - addirittura anticipate in febbraio da Re Giorgio con vittoria zoppa del centro-sinistra di Bersani senza maggioranza al Senato -, non raccontano nulla di veramente pauroso. Sul piano dell’allarme economico si registrava soltanto il declassamento del rating dell’Italia (BBB-) da parte dell’agenzia Fitch. Mentre si riaccendeva lo scontro tra politica-giustizia dopo la condanna in primo grado del Cavaliere per il caso Unipol. Ben altri, a ben guardare nelle storie quirinalizie, sono stati davvero i “momenti terribili” che secondo Napolitano l’avrebbero accompagnato nella sua ultima, lunga e avventurosa azione politica. Un percorso esemplare iniziato nel dopoguerra a Napoli nelle fila del Pci di Togliatti. (Il Pd di oggi, guidato da Renzi, in cui la soave Elena Boschi può permettersi il lusso di affermare che “Fanfani era meglio di Berlinguer”. Un partito di “anime morte” (fuga in massa degli iscritti) che alle ultime regionali ha disertato in massa le urne).  Basta ricordare solo la nomina di Oscar Luigi Scalfaro nell’Annus horribilis 1992. Mentre il Parlamento stava votando il successore di Cossiga e le prime inchieste di tangentopoli lambivano le segreterie dei partiti (Dc e Psi), a Capaci la mafia uccideva il giudice Falcone e sua moglie. A seguire le bombe stragiste di Roma e Firenze con il dubbio che si sia aperta una trattativa tra lo Stato e la Mafia. Tant’è, per la storia. Non è però una “fuga” dalla realtà, una resa incondizionata, il passo d’addio del capo dello Stato. Re Giorgio II si è reso conto che a volte la rettitudine privata, la moral suasion di cui ha pure abusato, non sempre possono ispirare l’azione del monarca pur “illuminato”. Per dirla con Platone, non basta un capo di Stato ricco di saggezza per piegare alla ragione quel che resta delle forze politiche e un Parlamento senza una vera maggioranza di governo. Un esecutivo e il suo premier che tirano a campare nell’attesa di rimpiazzare Napolitano con un direttore d’orchestra sul podio del Quirinale meno autorevole e invasivo di Giorgio II. E, magari, dotato di qualche esperienza musicale nella banda comunale di Rignano sull’Arno. (source)