mercoledì 28 settembre 2016

EUTANASIA: LA SITUAZIONE IN ITALIA E ALL'ESTERO



Gli ultimi giorni della sua vita Kylie Monaghan non vuole trascorrerli fissando il soffitto in un letto d'ospedale. Non vuole aspettare che arrivi la morte circondata dalle persone care, che soffrono per le sue sofferenze, rendendo tutto più doloroso. Non vuole diventare un peso per se stessa e per gli altri, per questo chiede le venga concessa una scelta: la scelta di morire.
La trentacinquenne australiana sta lottando affinché venga legalizzata nel suo Stato l'eutanasia volontaria, da quando le è stato diagnosticato un cancro terminale, che ha intaccato cervello, fegato e ossa. Se il tumore al cervello dovesse crescere ulteriormente sarà costretta a letto a causa delle vertigini ed è stata questa prospettiva a spingerla a battersi, affinché quel giorno le venga concesso di andarsene in pace e dignità.
La prima diagnosi Kylie l'ha ricevuta nel 2010, a 29 anni. Era nel suo a letto a leggere un libro, quando ha sentito un nodulo al seno. In lacrime è corsa dall'allora fidanzato Darryl, che ha tentato di tranquillizzarla: "Probabilmente non c'è niente di cui preoccuparsi". Il giorno dopo l'oncologo ha però dissipato le loro loro speranze. Kylie e Darryl hanno ascoltato la diagnosi, promettendosi che avrebbero superato tutto insieme.
Da lì è cominciata per la ragazza una nuova fase della sua vita. Ha iniziato a percepire il tempo scorrere sempre più rapido e a sentire la necessità di goderne quanto più possibile, senza rimandare i progetti e inserendo sempre più spunte alla sua lista degli ultimi desideri.
“Ho sposato Daryll, pubblicato un romanzo, viaggiato in Nuova Zelanda. Abbiamo comprato casa e un Harley Davidson”, si legge sul Daily Mail. Così tutte le voci della lista sono state infine cancellate, mentre il suo tumore si diffondeva in altre parti del corpo.
Kylie ha deciso di rendere nota la sua storia, per prestare il volto alla campagna a favore dell'eutanasia volontaria. Un disegno di legge in proposito è attualmente in discussione al parlamento dell'Australia Meridionale: “Ho intenzione di far conoscere le mie ragioni a tutti i politici, così si renderanno conto che non stanno discutendo di un disegno di legge per una persona che non esiste. Stanno discutendo della mia vita e delle mie scelte”.

Eutanasia, dichiarazioni anticipate di fine vita, suicidio assistito.
Termini delicatissimi, spesso usati per errore come sinonimi, che hanno come trait de union «l’agonia di coloro che aspettano di vedersi riconosciuto il diritto di scegliere la propria morte», dice Mina Welby, moglie di Piergiorgio, attivista radicale scomparso nel 2006 per distrofia muscolare.
DIATRIBE ETICO-POLITICHE. Un universo intricato fatto di dolore e leggi abortite, lungaggini burocratiche, diatribe etico-politiche e convenzioni internazionali mai ratificate.
In mezzo si trova l’opinione pubblica, confusa da dichiarazioni roboanti e da lunghi silenzi.
Ma qual è il reale stato delle cose e quale la posizione attuale dell'Italia e degli altri Paesi europei in merito?
1. Eutanasia: il 'falso mito' della Svizzera
Il binomio Svizzera-eutanasia è simbolo perfetto degli errori di comunicazione che si susseguono sul tema.
«In Svizzera non è il medico a uccidere il paziente», dice Mina Welby, «ma è il malato stesso a somministrarsi il farmaco che lo farà morire. O meglio, che lo farà smettere di soffrire».
L'eutanasia propriamente detta è infatti l’atto attraverso cui un medico somministra a un paziente in fin di vita, consenziente, un farmaco che interrompe le funzioni vitali del corpo. Realtà ben diversa il suicidio assistito, forma di «dolce morte» in cui il medico ha l'unico ruolo di assicurarsi che il paziente non abbia alcuna speranza in una vita migliore.
IMPLICAZIONI DIVERSE. Le implicazioni etiche - e giuridiche- sono ben diverse. «Un medico non può diventare killer del suo paziente», dice Paolo Becchi, docente di giurisprudenza all'Università Statale di Genova e studioso di bioetica. «Con l'assistenza a chi decide per il suicidio, invece, non si fa altro che affiancare il malato nel portare avanti una sua decisione».
Entrambi sono attualmente illegali in Italia, punibili con il carcere fino a 15 anni secondo gli articoli 575, 579, 580 e 593 del codice penale.
Articoli incostituzionali, secondo Becchi, in quanto negano il diritto all'autodeterminazione; contraddizione che potrebbe essere risolta «consegnando a Bruxelles la ratifica della convenzione di Oviedo (promossa dall'Unione Europea nel 1997, ndr), che si esprime chiaramente in merito al diritto del malato di recedere da trattamenti sanitari che non condivide».
L'ART.32 DELLA COSTITUZIONE. Profondamente diverso il discorso in merito alla dichiarazione anticipata di volontà sui trattamenti sanitari, comunemente definita testamento biologico.
Questa pratica, traduzione sommaria dell'inglese living will, consiste nella stesura di un documento in cui il paziente, ancora nel pieno possesso delle sue capacità mentali, indica espressamente a quali terapie ricorrere e quali trattamenti rifiutare.
È un’espressione di quella «libertà di disporre del proprio corpo garantita dalla Costituzione italiana nell'articolo 32», di fatto traducibile nel «rifiuto di alcuni trattamenti sanitari», come ricorda Titti Di Salvo, deputata del Pd firmataria di una delle proposte di legge attualmente in parlamento.
Una pratica quindi già permessa secondo la teoria giurisprudenziale ma, per Becchi, «ostacolata dalla mancanza di un reale interesse, sia da parte della classe politica che la ritiene troppo scottante, che da parte dell'opinione pubblica perché troppo lontana dagli interessi basici di un Paese messo in ginocchio dalla crisi economica».
2. Il testamento biologico in Italia: verso la stesura degli emendamenti
«L’unica risposta inaccettabile del parlamento sarebbe il silenzio»: questo diceva nel 2006 l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Pergiorgio Welby, che in una lettera aveva chiesto a lui, e alle Camere, di dare una prospettiva e una risposta legislativa a chi si trovava imbrigliato in una condizione di vita indecorosa.
Oggi i lavori parlamentari sono avviati. Ad analizzare i temi in questione sono la commissione Giustizia e Affari Sociali in seduta comune per l'eutanasia e il fine vita e la commissione Affari Sociali per il testamento biologico.
CONCLUSE LE AUDIZIONI. «La divisione dei due temi, per quanto collegati», spiega Di Salvo, «è nata dall'esperienza della scorsa legislatura» per la difficoltà ad affrontare un tema delicato come quello dell'eutanasia che «polarizza la discussione politica, rendendo difficile una sintesi equilibrata delle opinioni».
Una scelta di opportunità, che ha portato il percorso parlamentare del testamento biologico a essere a uno stadio ben più avanzato di quello dell'eutanasia; dopo l'incardinamento, avvenuto a marzo, la Commissione ha concluso lo scorso 28 aprile le audizioni e il prossimo passo è la scrittura degli emendamenti.
Il testo sulla Dat (dichiarazione anticipata di trattamento) comprende i casi più disparati, dalla possibilità di rifiutare cure identificabili come accanimento terapeutico fino al trapianto di organi.
PROBABILE VOTO SEGRETO. La fase attuale della proposta di legge è delicatissima, «vi si pongono i pilastri dell'equilibrio che poi dovrà reggere in Aula», al momento del voto, probabilmente segreto.
I punti più discussi, spiega la deputata, riguardano il vincolo del testamento biologico e i poteri del fiduciario, la persona cioè che in caso di sopraggiunta incapacità di esprimersi del malato diventa il suo tutore legale.
Ugualmente al centro della discussione l'alleanza medico-paziente che, secondo quanto recepito dalle commissioni in fase di audizioni, potrebbe dare al primo un potere vincolante nei confronti del fiduciario e soprattutto la possibilità di esprimere una valutazione sulla base dei progressi scientifici intercorsi tra la data di firma della Dat e il momento della scelta effettiva.
3. L'eutanasia in Italia: quattro proposte di legge sul tavolo
Le proposte di legge sull'eutanasia sono invece quattro: quella di iniziativa popolare promossa dal movimento Eutanasia Legale, quella di Sel, di Alternativa Libera-Possibile e infine quella a firma di Di Salvo.
«Sono estremamente favorevole alla legalizzazione dell'eutanasia e a una legiferazione in merito», dice la deputata, «ma so quanto questo tema può essere ostico e sottoposto a fortissime pressioni da parte delle convinzioni personali di ognuno».
Un tema secondo alcuni di scarso interesse politico dal momento che, come racconta la Welby «una volta incardinato in Commissione, gli hanno dedicato mezz’ora e nulla più, come se non contasse niente».
IL 60% DEGLI ITALIANI A FAVORE. Secondo lei, però, questa legge è necessaria, anche perché voluta da più del 60% degli italiani, stando ai dati Istat.
La proposta di Eutanasia Legale è divisa in quattro articoli, «concisi e impossibili da equivocare», che mettono insieme il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, la punibilità per i medici che non rispettano la volontà del paziente, la depenalizzazione degli articoli che prevedono l’accusa di «omicidio del consenziente» per il medico che pratica l’eutanasia e la possibilità per il malato di stilare un documento simile alla Dat in cui specifica la sua volontà di ricorrere all’eutanasia.
4. La situazione in Europa: il Paese più all'avanguardia è l'Olanda
La Francia ha approvato da poco una legge sul testamento biologico, ma non è l'unica nazione europea, assieme alla Svizzera, a essere dotata di leggi in merito.
L’Olanda ha la legge più avanzata e dettagliata, che prevede – per i pazienti e per i potenziali tali - di stilare una «direttiva sull'eutanasia» che esprima il loro volere in caso di malattia terminale.
Sullo stato di salute devono inoltre esprimersi due diversi medici, che non abbiano mai avuto contatti personali con il malato.
SULLE ORME DELLA GERMANIA. Il Bundestag tedesco è stato uno dei primi parlamenti ad approvare, nel 2009, una legge sul testamento biologico estremamente simile a quella al vaglio in Italia.
Testi pressoché analoghi sono presenti in Inghilterra e Galles (dove è stato promulgato il Mental Capacity Act, nel 2005 ), in Belgio e, fuori dai confini dell'Unione, in molti Stati degli Usa, in Australia e, dal novembre 2015, anche in Canada dove è stata approvata una legge sulle disposizioni di fine vita.

lunedì 26 settembre 2016

UNIVERSITA' ITALIANA: OVUNQUE EMERGE CORRUZIONE



Qualche giorno fa sul Corriere, Sergio Rizzo ha dedicato un articoletto  sulla parentopoli universitaria.  I rettori e presidi che danno le cattedre ai propri figli,nuore, parenti –o parenti di altri rettori.   “In una università meridionale, in  una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca – che non c’entra niente col diritto – e in una facoltà letteraria è stata aperta una cattedra di diritto pubblico (che non c’entra niente con la  letteratura)”: al solo scopo di dare le due cattedre (e stipendi relativi: da 100 mila in sù)  “  ai figli di due professori di altre università”.  Perché così  gli esimi presidi e rettori aggirano la legge, varata dalla ministra Gelmini 5 anni orsono, che vietava a parenti di insegnare nella stessa facoltà.
La causa di quella legge, qualcuno ricorderà, fu il caso del rettore della Sapienza, nonché preside della facoltà di Medicina –il celebre Luigi Frati –  che nella sua facoltà ha dato tre cattedre a suo figlio cardiologo, sua figlia, e sua moglie. La moglie s’intende è laureata in lettere, e niente sa di salute e malattia. Ma  ecco pronta la soluzione: per lei è aperta la cattedra di Storia della Medicina, così anche una letterata ha il suo stipendio. E la figlia di Frati, laureata in Giurisprudenza? Niente paura: diventa docente di Medicina  Legale. Naturalmente le due impapocchiatrici di “specialità” in cui sono state improvvisate  hanno rubato il posto ad assistenti meritevoli,  che una cattedra in Italia non l’avranno mai.
A Tor Vergata, il preside di Medicina, Renato Lauro ha regalato la cattedra di Endocrinologia (che prima teneva lui) al figlio David Lauro, facendolo professore ordinario; e poi ha fatto  professore associato di malattie dell’apparato respiratorio Paola Rogliati,  sua nuora, nonché  moglie del suddetto figlio. All’Università di Bari c’era “il corridoio Tatarano, dove c’erano le stanze del professore di Diritto privato Giovanni Tatarano e dei suoi figli Marco e Maria Chiara. C’era la dinastia dei Massari: nove, per l’esattezza. E dei Girone: cinque, considerando anche il genero. Nel saggio L’università truccata Roberto Perotti aveva contato 42 parenti su 176 docenti di Economia , sempre a Bari”.
Sergio Rizzo rievoca  la  vecchia denuncia (vecchia: del ’96) del prefetto  Achille Serra, brevemente nominato da Berlusconi capo di una “autorità anticorruzione” , che in un dossier sulla Scuola Universitaria di Alta formazione Europea “Jean Monnet” di Caserta  (sic) documentava “i  rapporti di parentela, affinità o coniugio   che legano nel 50% dei casi il corpo docente (82 persone) con personalità del mondo politico, forense o accademico».
Bene. Ma la gentile discrezione di giornalista mainstream gli impedisce di ricordare che il figlio di Napolitano, Giulio,  ha avuto il beneficio della cattedra di diritto amministrativo (così sta vicino a casa, da papà) – una docenza “guadagnata” con un concorso che fu ritenuto truccato da un altro concorrente  – pieno, lui, di pubblicazioni scientifiche apparse sulle riviste scientifiche – a cui diede ragione il Consiglio di Stato, che sulla ‘pubblicazione’ che il Figlio esibì per vincere o’ concuorzo, ebbe a scrivere: “La monografia del dott. Napolitano “Servizi pubblici e rapporti di utenza” risulta prodotta in esemplare stampato in proprio dall’autore, onde la stessa difetta del requisito minimo per essere definita pubblicazione valutabile agli effetti del concorso de quo”. Nessuna rivista scientifica aveva pubblicato il Figlio, che s’era pubblicato  l’articolo da solo …Ed  aveva vinto o concuorzo lui, non lo scienziato del diritto.   Si fa’ così  a prendere cattedre in Italia.
Magari un giornalista meno discreto poteva anche ricordare l’attuale presidente della  Repubblica, Sergio Mattarella: non  solo per decenni ‘docente’ a Palermo di una materia inventata apposta per lui  – diritto elettorale! – onde dargli la sinecura  dello stipendio unito all’assenteismo cattedratico più totale (e infatti appena poté si mise in aspettativa per fare il parlamentare a tempo pieno, nella Cosca De Mita, ed incarichi ministeriali), ma ha anche un figlio, Bernardo Giorgio,  insediato  professore ordinario di diritto amministrativo all’Università di Siena (sì, anche Siena ha la sua università…) ,  nonché dicente alla LUISS (così resta vicino a papà) e messo dalla ministra Marianna Madia a capo dell’Ufficio legislativo del suo ministero, Funzione Pubblica, presso la presidenza del Consiglio dei Ministri. Con un bel cumulo di emolumenti.
Il nuovo capo dell’anticorruzione Cantore, commenta: è questo che spiega la fuga dei cervelli.  Ovvia intuizione, complimenti. C’è di peggio: con questa occupazione tramite parentado, i politici e i presidi e rettori loro complici (e probabilmente che devono le loro carriere all’ammanicamento   col politicume),  tutto il livello della scienza, della cultura, del sapere in Italia è degradato al livello intellettuale e  morale di questi raccomandati:  bassissimo.
Forse non è un caso che   anche Giovanni Malagò, notorio presidente del CONI, sia stato accusato di aver rubacchiato la laurea in Economia. Accusa da cui il tizio si difende così: «È tutto prescritto, non ho mai corrotto nessuno, i pm infatti non hanno dimostrato niente. E comunque poi quegli esami li ho sostenuti di nuovo». La nuova, l’ha presa non a Roma  ma a Siena: vedi sopra.
Disertati dagli studenti
Le poche università italiane    che appaiono fra le prime 400 in Europa sono, Milano, Milano Bicocca e Trieste,  si situano tra il 251 mo e il 257 posto della speciale classifica stilata da Times (THE, Times of Higher Education); Torino e Bologna affondano attorno al trecentesimo posto. Nessuna università italiana è fr le prime 200.   Lo scadimento   che questi parassiti occupando gli atenei hanno portato agli studi è   talmente evidente, che  stanno perdendo a precipizio iscrizioni: da un anno all’altro meno 70 mila giovani si iscrivono a corsi universitari –  del resto, specie nel Sud,  si iscrivevano per il pezzo di carta necessario a ‘o’ concuorzo’, ma ora anche i concorsi pubblici, affollatissimi, sono diventati statisticamente impraticabili per accaparrarsi ‘il posto’  – e quindi perché farsi degli anni sotto la nuora di Frati,  o il figlio di Mattarella o di Napolitano? Da cui si impara  cosa? Qualche imparaticcio che loro stessi hanno studiacchiato,  probabilmente scopiazzando lezioni altrui.
Ovviamente  questi docenti , presidi e rettori sono una causa determinante per l’arretramento dell’Italia, della preparazione degli italiani a posti dirigenziali. Ma il danno alla cultura generale, allo stesso livello mentale  del paese, è più che economico. E’ un  incalcolabile deterioramento del clima intellettuale nazionale.
Se   si guarda alla Francia, alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti – e persino alla Spagna –  si vede che i docenti universitari sono “gli intellettuali” che partecipano ai  dibattiti pubblici su questioni cruciali,   che vengono intervistati sia come esporti, sia in qualche modo come maitres à penser.   In Italia, a parte i porti pagatissimi columnist mainstream  (per esmeio Galli Della Loggia), avete mai sentito un parere pubblico  di questii cattedratici del Sud? Fanno tutti il pesce in barile. Il che significherà qualcosa.  Non pubblicano mai nulla sulle riviste scientifiche internazionali: meditate gente.
Il che ha influenza, a cascata, sulle altre professioni intellettuale: anche i giornalisti hanno la laurea, guadagnata da questi impapocchiatori di docenze.   Pressapochismo e disonestà, provincialismo e  ottusità indifferenza alla verità, magari discendono da quei “docenti” pressappochisti e provinciali.
Non dimentichiamo la lezione (im)morale che ne traggono  studenti, assistenti, giornalisti, politi, amministratori, insegnanti di rango inferiore. In tutto il resto del mondo, i cattedratici sono guardati come gli apici del sapere competente, ed essi stessi se ne sentono investiti: coscienti del loro prestigio, rifiuterebbero di metterlo in forse con mezzucci,   auto pubblicazioni e simili. Sarebbero derisi dai colleghi internazionali, alla cui ammirazione aspirano, con cui competono sulle pubblicazioni più rinomate.
I rettori e presidi italiani, ovviamente, non hanno alcun prestigio  da difendere. Né hanno alcun rispetto di sé, visto che  si concepiscono come distributori di cattedre a  figli e nuore proprie e altrui, del tutto indifferenti a qualunque criterio di eccellenza.  Ma che dico? Il livello d ei nostri giudici costituzionali  ne riflette la natura: non a caso,  sono quelli che  continuamente eleggono”Presidente” della Corte Costituzionale quello di loro che fra sei mesi andrà in pensione,  onde possa mettersi a riposo col massimo dell’emolumento (450 mila, se nopn spaglio), l’auto bli, la segreteria, i benefit… Un trucchetto da magliari di cui, come Custodi della Costituzione, dovrebbero semplicemente vergognarsi.
Ma non si vergognano. Come non si vergogna il rettore Frati (anzi si vanta), come non si è vergognato Napolitano,  da eurodeputato, di falsare i biglietti aerei per Bruxelles. Qui non si vergogna nesusno.
Il bilancioè è tristissimo. Berlusocni e Bossi col suo Trota, hanno fatto tramontare  la speranza che nel Nord ci fosse una “classe dirigente”  di riserva, capace di prendere il comando  del governo italiano : anche lì, la decadenza culturale fu evidente.  Nel resto dal paese, avete quella Tiziaina – che si è vergognata, ma  “dopo” quando doveva vergognarsi “prima” – e tutti i media a compiangerla  come un’eroina. Che dire?
Che cosa dovrebbe infatti impedire a un dirigente statale di rubare? Cosa obbligare un cattedratico ad essere competente e studiare, anzi essere eccellente?  Cosa? L’amor di patria? Non fatemi ridere  che ho le labbra  screpolate.  Il timor di Dio? Per favore,l’abbiamo superato, oggi siamo liberi da questi tabù. Il rispetto di sé? Il senso della propria dignità?
Non resta che ripetere le parole dell’amico Andrea Mazzalai, economista alternativo,  proprio a  proposito della parentopoli universitaria: “Stiamo vivendo una crisi antropologia devastante – La crisi economico/finanziaria è solo pura conseguenza”.
Questo popolo si autodistrugge. Volontariamente. Aspira a divenure nulla,sparire dalla storia e dall’umanità stessa.

venerdì 16 settembre 2016

ENZO TORTORA, UN CASO INFINITO



Enzo Tortora, stella di prima grandezza del giornalismo e dell'intrattenimento televisivo, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l'opinione pubblica: la sua storia impossibile diventerà un modo di dire, usurpato da fior di mascalzoni che, appena inchiodati, puntualmente proclamano: «Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora».
POCHE FIRME AL SUO FIANCO. Non è quello che avrebbe voluto la vittima del «più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese», come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca.
Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli pur tra qualche caduta di stile - proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il crucifige, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera, fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione.
DARGLI ADDOSSO È FACILE. Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”.
Era una buona compagnia: dare addosso a Tortora è facile, la stampa si scatena, moltissimi opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, dimostreranno carognesca superficialità: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto».
E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi 'commissari torturatori'. È difficile, in quella temperie, considerare Tortora innocente, e scriverlo. Si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono.
Il calvario: 1.768 giorni dall'arresto alla morte
Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando Tortorà verrà riabilitato, saranno visti piangere come lui, insieme a lui.
Il calvario di Enzo Tortora dura 1.768 giorni, dal quello dell'arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8).
LA VOCE DI UNA RETATA IMMINENTE. Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell'impotenza sembrano non avere mai fine.
Alla viglia dell'arresto di Tortora, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente, con tanto di nome forte, uno della televisione. uno grosso.
Chi? «Uno che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto».
L'ARRESTO DAVANTI AI GIORNALISTI. Quella giusta è la“T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, attacca e non ci pensa più.
Lo andranno a prendere poche ore dopo. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e sfatta.
Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: «Tortora ha confessato». Quando, dove?
L'accusa: una partita di droga che il presentatore si sarebbe intascato
Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Un antipatico.
Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle.
Scriveva su la Nazione del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n'è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella.
Quando la madre Silvia si reca in chiesa, trova sempre lo stesso bigliettino, grondante carità cristiana: «Tuo figlio spaccia la droga».
UNA MESCHINITÀ INFANTILE. E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto Applausi e sputi.
Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta.
Un bel giorno Tortora si scoccia: «Se lei continua ad insistere», risponde, «passerò la faccenda all'ufficio legale della Rai».
I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800 mila lire più per pietà che per altro.
CENTRINI? NO, COCAINA. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari.
Sarebbe la prima prova d'accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati «a scrivere è un altro Barbaro», un omonimo.
Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto ''o Giappone', sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l'agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è 'Tortosa' non 'Tortora', e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora.
Il prefisso è 0823, «Provate a chiamà, dottore...». Cinque mesi ci mettono, i giudici, a 'provare'.
Gli accusatori: da un serial killer all'altro
Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ha tentato senza successo di annientare i parenti: padre, madre e fidanzata.
«Schizoide e paranoico» per i medici, bocca della verità per i giudici.
È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero cittadino.
IL PIÙ APPARISCENTE È MELLUSO. Non migliore è Pasquale Barra, detto 'o ‘animale', serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è morto in carcere, sotto regime privilegiato, con uno speciale programma di protezione.
Il più appariscente però è Gianni Melluso, detto 'il bello' o 'cha cha cha', aspetto di cialtronesca, volgare ricercatezza, da cantante da crociera.
Già libero, è tornato in galera qualche anno fa per sfruttamento della prostituzione.
Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, puntualmente messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino.
«L'HO DISTRUTTO A MALINCUORE». Dirà Melluso, ma solo nel 2010, in una intervista all'Espresso: «Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla, l'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie».
Replicherà Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi».
Un altro che lo accusa di spacciare negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti: anche lui, a giochi fatti, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo.
Il primo grado: condanna a 10 anni e 50 milioni di multa
Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo.
Accusa risibile, che infatti suscita ironia allo stesso supercriminale: nel carcere dell'Asinara, dove sconta l'ergastolo, 'don Rafaé' incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare.
Il breve dialogo che ne consegue, è surreale: «Dunque, io sarei il suo luogotenente». Poi porge la destra: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente».
NESSUN RISCONTRO BANCARIO. La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cosa che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l'altro discordanti fra loro, costruiscono il loro castello accusatorio.
I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito 'il Maradona del diritto', e Felice Di Persia.
Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191).
LE INSINUAZIONI DEL PM MARMO. Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa, ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento europeo.
Il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine, in sei tomi, uno dei quali appositamente su Tortora, per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l'inversione dell'onere della prova.
Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: «Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria».
L'appello: la Corte di Napoli smonta il castello accusatorio
Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile.
Già eletto a Strasburgo per i Radicali, prontamente si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare.
Nel frattempo è cambiato, ha maturato una consapevolezza nuova, l'impegno totale in favore dei carcerati: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito».
LUI PERÒ È GIÀ MINATO. Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere, fino alla fine.
«Io sono innocente», dice ai giudici. «Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi».
Gli credono, finalmente.
Il 15 settembre 1986 la Corte d'Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato.
POCHE, MEMORABILI PAROLE. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, «Dove eravamo rimasti?».
Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella.
Lo hanno spezzato. Racconterà la figlia Silvia: «Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia, incontrandomi mi disse: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no».
I giudici coinvolti: «Ma di cosa ci dovremmo vergognare?»
Già malato terminale, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire.
Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, nato sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65%, i sì sono l'80%, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca.
Nel frattempo la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette.
L'ULTIMA INTERVISTA. L'ultima intervista, al programma Il Testimone di Giuliano Ferrara (che poi rimedierà una querela da tre giudici), è atroce.
Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: «Mi disse allora: 'Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei...'. E io dissi: 'Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo...'». Poi non riesce più a parlare, stava già morendo.
«Ma di che cosa ci dovremmo scusare, noi?», ha ringhiato ancora di recente uno dei giudici coinvolti - e premiati - in questo splatter giudiziario.
«CHE NON SIA UN'ILLUSIONE». Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti, che recentemente le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare.
Resta l'impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Pannella.
Se volete andare a trovare Tortora, sta al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Qualcuno ha infilato l'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: «Uno che ti chiede scusa». Sotto l'urna, che dietro il vetro sembra ricordare a tutti un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: «Che non sia un'illusione».