domenica 30 marzo 2014

PERCHE' STIAMO PERDENDO LA BATTAGLIA CONTRO IL CANCRO

Nel 1971 il Presidente Nixon firmò il National Cancer Act, un ambizioso progetto con cui si delineava la strategia della  “guerra al cancro”, guerra che gli Stati Uniti erano decisi a combattere ed ovviamente a vincere .Erano gli anni in cui l’uomo era arrivato sulla luna , la fiducia nelle potenzialità della scienza era pressochè illimitata e sembrava che con poderosi finanziamenti ogni traguardo potesse essere raggiunto. Erano anche gli anni in cui prendeva corpo l’idea che il cancro fosse una malattia “genetica” e che  nascesse da una singola cellula in qualche modo “impazzita”.
Si pensava che per un “incidente  genetico” casuale  avvenissero una serie di mutazioni a carico del DNA tali da comportare una proliferazione incontrollata ed una sorta di “immortalizzazione” delle cellule figlie.
L’idea era quindi che una sorta di selezione darwiniana conferisse vantaggi in termini di sopravvivenza e capacità di metastatizzare alle  cellule figlie via via sempre  più aggressive e maligne rispetto a quelle di origine con un processo irreversibile che portava infine a morte l’organismo ospite.
Il cancro era ritenuto una malattia dell’età adulta in cui, proprio per l’aumento della speranza di vita, era sempre più probabile che insorgessero mutazioni casuali: in qualche modo il cancro era visto quasi come un  prezzo da pagare al nostro modo di vita ed in definitiva allo sviluppo.
Se l’origine del cancro risiedeva in un danno a carico del DNA era logico quindi pensare di risolvere il problema cercando di svelare tutti i segreti del genoma  e sperimentare terapie che colpissero la cellula nel suo centro vitale, il DNA appunto.
Gli investimenti che furono fatti negli USA ed in seguito anche in altri paesi del mondo occidentale furono a dir poco esorbitanti, ma, come ha scritto nel 2005 in una esemplare lettera aperta un grande oncologo  americano S. Epstein, “dopo trent’anni di reclamizzate ed ingannevoli promesse di successi, la triste realtà è infine affiorata: stiamo infatti perdendo la guerra al cancro, in un modo che può essere soltanto descritto come una sconfitta. L’incidenza dei tumori – in particolare della mammella, dei testicoli, della tiroide, nonché i mielomi e i linfomi, in particolare nei bambini – che non possono essere messi in relazione con il fumo di sigaretta, hanno raggiunto proporzioni epidemiche, ora evidenti in un uomo su due e in oltre una donna su tre”.
Queste che sembravano pessimistiche considerazioni di qualche medico isolato hanno in realtà trovato autorevoli conferme in un articolo dall’emblematico titolo “ Ripensare la guerra al cancro” comparso a dicembre 2013 nella prestigiosa rivista Lancet (www.thelancet.com). Perchè l’obiettivo non è stato raggiunto? Dove abbiamo sbagliato?
Evidentemente concentrare tutte le risorse sulla  ricerca di terapie, bene e spesso rivelatesi inefficaci  o sulla diagnosi precoce non è stata la strada vincente.
In effetti nuove emergenti teorie sulle modalità con cui il nostro genoma si relaziona con l’ambiente ci fanno capire come anche la nostra visione del problema cancro – e non solo- sia stata estremamente riduttiva e di come quindi dobbiamo radicalmente cambiare il nostro punto di vista se solo vogliamo sperare di uscire da questo empasse.
Si è sempre pensato al genoma come a qualcosa di predestinato ed immutabile, ma le conoscenze che da oltre un decennio provengono dall’epigenetica ci dicono che le cose non stanno così. Il genoma  è qualcosa che continuamente si modella e si adatta a seconda dei segnali - fisici, chimici, biologici - con cui entra in contatto. Come una orchestra deve interpretare uno spartito musicale facendo suonare ad ogni  musicante il proprio strumento, così l’informazione contenuta nel DNA viene continuamente trascritta attraverso meccanismi biochimici che comprendono  metilazione, micro RNA, assetto istonico che vanno appunto sotto il nome di  epigenoma.  L’epigenetica ci ha svelato che è l’ambiente che “modella” ciò che  siamo, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia....
L’origine del cancro non risiede quindi solo in una mutazione casualmente insorta nel DNA di una qualche nostra cellula, ma anche in centinaia di migliaia di modificazioni epigenetiche indotte dalla miriade di agenti fisici e sostanze chimiche tossiche e pericolose con cui veniamo in contatto ancor prima di nascere e che alla fine  finiscono per danneggiare in modo irreversibile lo stesso DNA.
L’articolo di Lancet  sostiene che  per vincere la guerra contro il cancro abbiamo bisogno di una nuova e diversa visione del campo di battaglia: per coloro che da decenni si battono per una riduzione  dell’esposizione delle popolazioni agli agenti inquinanti e cancerogeni questa nuova visione del problema ha un unico nome: Prevenzione Primaria che non può essere ridotta solo alle indicazioni riguardanti gli “stili di vita”, ma che deve intervenire energicamente sulla tutela degli ambienti di vita e di lavoro, come ci indicano drammaticamente anche i dati recenti della cronaca italiana.

Dott.ssa Patrizia Gentilini, medico oncologo

venerdì 28 marzo 2014

LO SHOCK SALUTARE PER NON ANDARE A SBATTERE



Siamo abituati ad utilizzare il termine shock o a sentire menzionato questo termine nella maggior parte delle volte con una connotazione negativa. Per definizione si usa nel linguaggio quotidiano quando si è sottoposti ad una condizione di stress improvviso e molto intenso. Nonostante i grandi proclami e la sovraesposizione mediatica che lo hanno preceduto sino alla sua insediatura non convenzionale, il Governo di Matteo Renzi è privo di effetto shock. L'Italia ha bisogno proprio di questo, tutto il resto è pura conversazione per consentire lo svolgimento dei vari talk show su scala nazionale. La stessa Europa, per quanto odiata con diversi livelli di risentimento dal tessuto sociale si aspetta, o meglio si aspettava questo da Superman Renzi. Shock che purtroppo non solo non è arrivato, ma nemmeno sembra essere in gestazione. Gli 80 euro mensili promessi in busta paga entro la fine del prossimo maggio potranno creare enfasi per qualche settimana come tema di discussione, tuttavia anche qualora effettivamente arriveranno non cambieranno l'outlook del Paese. Chi pensa che questa improvvisa ma modesta quantità di reddito netto disponibile possa rimettere in moto il volano interno dei consumi dubito che conosca con genuinità il sentiment delle famiglie e delle imprese.

Oggi di denaro e liquidità ve ne è letteralmente un oceano, purtroppo questa massa di risorse finanziarie non viene messa in circolazione da chi potrebbe per due motivazioni determinanti, entrambe endogene: per primo lo stato di polizia e vessazione fiscale che i precedenti governi hanno voluto instaurare - Monti & Letta - che induce anche chi potrebbe e vorrebbe spendere a rinunciare, preferendo magari effettuare alcune spese rilevanti al di fuori dei nostri confini: pensiamo a chi va in Austria o in Svizzera per prenotare le vacanze esotiche all'estero in modo da non comunicare il proprio codice fiscale all'intermediario che riceve il pagamento. La seconda motivazione è legata invece alla percezione del rischio e ad uno stato mentale di allerta per il futuro: in buona sostanza siamo tutti abbastanza convinti che i prossimi anni saranno peggiori degli attuali e questo ci spinge per ragioni di prudenza a risparmiare il più possibile nell'attesa di tempi ancora più cupi. Solo un effetto shock endogeno (ovvero prodotto dall'interno) potrebbe mutare questo momento di recessione, depressione e costrizione economica. A riguardo per provare a comprendere che cosa potrebbe essere un effetto shock voglio riportarvi al notissimo scherzo telefonico perpetrato dalla redazione radiofonica della Zanzara.

Durante quellla finta telefonata del 17 Febbraio scorso, l'ignaro economista, Fabrizio Barca, ex Ministro della Coesione Territoriale durante il Governo Monti ed oggi dirigente presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze, propose al suo interlocutore, un imitatore che si spacciava per Nichi Vendola, il Governatore della Puglia, quale soluzione per il rilancio del paese una mega patrimoniale da 400 miliardi come strategia di uscita dalla crisi economica.. All'uomo medio della strada questo suona come una follia o l'ennesimo salasso a carico dei contribuenti: tuttavia consente di produrre un effetto shock all'economia in termini istantanei. Ora personalmente non condivido la patrimoniale, ma condivido la necessità di ricreare quanto prima un effetto shock inaspettato dalla portata economica ingente. Durante il resto della finta telefonata, inoltre, l'ex ministro sollevava come a distanza di qualche mese ci si sarebbe resi conto dell'inconsistenza delle proposte di Renzi e del fatto che quando il Paese ne avrebbe preso atto, il clima generale sarebbe notevolmente peggiorato. A riguardo vi invito a fare questa riflessione: avete mai sentito in più di un mese dall'insediamento parlare almeno una volta il ministro più importante dell'attuale governo ovverno Padoan ? L'avete mai visto in un talk show esprimersi sul programma del governo ?

Per me il tutto rappresenta una insolita anomalia rispetto ai precedenti esecutivi: non mi stupirei se le estorte esternazioni di Barca venissero riconsiderate tra qualche mese dalla stampa nazionale. Un possibile effetto shock, ad esempio, che adesso si potrebbe produrre prenderebbe di mira la sfera del pubblico impiego nelle amministrazioni pubbliche: i dipendenti dello Stato devono poter essere licenziati, senza possibilità di ricollocamento, al pari di quelli del settore privato. Sono proprio loro che oggi rappresentano la supercasta degli intoccabili. Solo la piccola e media impresa privata in compagnia di investitori esteri può rimettere in moto l'occupazione e questo può verificarsi solo con una corporate tax rate al massimo del 20% e la ridefinizione di un nuovo mercato del lavoro, più dinamico ed innovativo, in cui si possa assumere e licenziare senza ostracismi o senza cause di reintegro o vertenze legali con i sindacati. Di questo ne avevo già fatto menzione ancora in Neurolandia nel 2012, pamphlet recentemente citato da Mario Giordano nel suo ultimo libro, Non vale una lira. Ovviamento quanto sopra rappresenta forse più un sogno che una possibilità concretamente operativa: deltronde in Italia chi tocca i lavoratori pubblici muore. Ma se non si inizia attraverso una misura scioccante a implementare una strategia in quella direzione allora sarà il Paese ad affrontare una lenta e inesorabile morte, prima industriale e dopo economica.
Eugenio Benetazzo – eugeniobenetazzo.com

giovedì 27 marzo 2014

JOBS ACT: #LASVOLTABUONACONTROILMURO

Anche in Italia, come nel Regno Unito con Blair e in Germania con Schroeder, solo un governo di sinistra può fare una politica di destra.










IN COSA CONSISTE IL JOBS ACT
Il 12 marzo il consiglio dei ministri ha approvato la prima parte del Jobs act, la riforma del lavoro illustrata per la prima volta l’8 gennaio da Matteo Renzi. La prima mossa del governo è stata l’approvazione di un decreto legge per il rilancio dell’occupazione.
Ecco cosa prevede il decreto proposto dallo stesso Renzi e dal ministro del lavoro Giuliano Poletti:
  • Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato senza causale, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del totale degli assunti.
  • I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di otto volte in tre anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.
  • Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.
  • I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi apprendisti non sarà obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso formativo. La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento.
  • È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile. Sarà sostituito da un modulo da compilare su internet.
Il decreto è stato duramente criticato da alcuni sindacati. Soprattutto dalla Cgil e in parte anche dalla Fiom.
Il 12 marzo il consiglio dei ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al governo che affronta gli altri temi contenuti nel Jobs act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il lavoro, dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle forme contrattuali alla tutela per le donne in maternità.
Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito in legge delega dal parlamento e il governo dovrà dare attuazione alla norma in un tempo stabilito dalla legge stessa.

LA CRITICA
L'impianto principale del provvedimento poggia infatti su un'ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro: innanzitutto il periodo entro il quale è possibile rinnovare contratti a termine viene allungato a ben otto volte in tre anni. In secondo luogo vengono eliminate le tutele dell'articolo 18 per tutti i neo-assunti per i primi tre anni, mentre vengono modificati anche gli apprendistati, per i quali viene eliminato l'obbligo di formazione così come l'impegno ad assumere a tempo determinato una parte degli apprendisti.
Infine il Jobs Act prevede anche un riordino degli ammortizzatori sociali: il tanto decantato sussidio di disoccupazione andrà infatti a sostituire e cancellare tutte le altre forme di sostegno, determinando di fatto un taglio degli ammortizzatori sociali complessivamente disponibili. Insomma: sempre maggiore precarizzazione, riduzione dei salari e di ogni garanzia sono alla base dell'idea del Jobs Act, che andrà a colpire innanzitutto le fasce più giovani di lavoratori.
La disponibilità ad accettare contratti e condizioni progressivamente peggiori è stata in questi anni sempre sbandierata come soluzione per rimettere in moto il mondo del lavoro. Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato proprio il contrario, e cioè che la ricetta della precarietà non funziona.
L'obiettivo celato dietro questo tipo di politiche è in realtà quello di creare un mondo del lavoro sempre più frammentato e disciplinabile che metta a disposizione manodopera a basso costo e facilmente ricattabile.

UNA ULTERIORE RIFLESSIONE
Anche Matteo Renzi, come chi lo ha preceduto, sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda. Perciò, nonostante nel solo 2013 si siano persi 413mila posti di lavoro (dati Istat), il primo pezzo del tanto annunciato Jobs Act è una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di quattro-cinque mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni. Come ciò si concili con il promesso contratto unico a tutele crescenti rimane un mistero. Ed è difficile che l’ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, ovvero la competitività delle nostre imprese a livello nazionale. È, infatti, un forte scoraggiamento a investire sulla forza lavoro, specie su quella in ingresso, dato che l’orizzonte temporale della “prova” si allunga a dismisura e assume ancora più di prima un carattere neppure tanto sottilmente minaccioso, o ricattatorio, dato che rinnovi o mancati rinnovi possono avvenire in tempi cortissimi.
Nella stessa direzione va la modifica dell’apprendistato, un vero e proprio ritorno indietro, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di questo tipo – una delle buone innovazioni introdotte da Elsa Fornero. La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale (ciò che probabilmente aprirà a nuove sanzioni UE).
CONSEGUENZE PER GIOVANI E DONNE
Se questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito, che oltretutto difficilmente consentirà di maturare diritti a una indennità di disoccupazione decente, tra un rinnovo e l’altro. Senza che si crei un solo posto di lavoro in più e probabilmente senza fermare l’emorragia di quelli in atto – moltissimi dei quali stabili, a tempo indeterminato – in corso ormai da anni.
Per le donne, poi, vi saranno costi aggiuntivi. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che
molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale.
Chissà se, come ha fatto la ministra Boschi per la questione delle norme antidiscriminatorie nella legge elettorale, le ministre considereranno anche questa penalizzazione aggiuntiva per le donne all’interno di norme già di per sé negative, un piccolo scotto del tutto marginale da pagare sull’altare delle riforme “epocali”. (Chiara Saraceno – lavoce.info)

sabato 22 marzo 2014

HANNO UNA FACCIA COME IL ...

L'amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, promette l'addio in caso di diminuzione degli emolumenti. E dice che lo fa per la «tanta gente brava sotto di me che va pagata» 

 

 

 Ci dev’essere stata la rivoluzione in Italia senza che ce ne accorgessimo. Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, che guadagna 873mila euro lordi per il suo incarico, ha detto che se il governo dovesse tagliargli lo stipendio (873.666 mila euro lordi nel 2012) lui se ne andrebbe. E altrettanto – ha aggiunto – farebbero tutti gli altri manager pubblici perché così funziona il mercato, perché è sbagliato legare i loro compensi a quelli della classe politica e perché all’estero si guadagna molto di più. Il confronto tra i guadagni dei manager pubblici in Italia e nel Regno unito in questa infografica di Repubblica:

Mentre il Corriere confronta gli stipendi dei boiardi di Stato:

 

MAURO MORETTI, L’INTERVISTA AL CORRIERE - In un’intervista firmata da Antonella Baccaro sul Corriere della Sera Moretti si difende e dice la sua:

Non le chiedo di smentire, ma di spiegare.
«Cosa? Ma se io guadagno meno di Santoro». Che c’entra? «Senta sono cose che ho già detto altre volte: nulla di nuovo».
Ma il clima è cambiato: in un’azienda pubblica i sacrifici vengono richiesti a tutti.
«Io li ho già fatti. Il mio stipendio è già stato tagliato del 50%». Non le pare uno stipendio adeguato il suo? «Non mi sono mai lamentato però faccio notare che prendo la metà del mio predecessore che ha lasciato due miliardi di perdite mentre io le Ferrovie le ho riportate in utile: 450 milioni di utile».
Sarebbe d’accordo se una buona parte dello stipendio fosse legato ai risultati buoni o cattivi che siano?
«Io sono contrario ai tagli lineari e questi sono lineari. Punto».
Quindi conferma che se il suo stipendio verrà tagliato, andrà via?
«Guardi, sono talmente vecchio che non mi importa, non dico queste cose per me. Qui c’è tanta gente brava sotto di me che va pagata. Altrimenti va altrove. L’azienda va gestita al meglio altrimenti le perdite che si accumulano ricadono sui cittadini». source

  “SE MORETTI AVESSE IL CORAGGIO E LA DIGNITÀ DI ANDARSENE, TROVEREBBE MILIONI DI ITALIANI PRONTI AD ACCOMPAGNARLO A CASA. SONO TUTTI I VIAGGIATORI COSTRETTI A VIAGGIARE CON TANTI DISAGI SUI TRENI DELLE FERROVIE ITALIANE, COSTRETTI A SUBIRE RITARDI INGIUSTIFICATI, A VIAGGIARE SU TRENI VECCHI, A USARE STAZIONI DECREPITE E POCO SICURE, SENZA NESSUN RISPETTO PER LA LORO DIGNITÀ. SPETTA A LORO, INFATTI, IL DIRITTO DI GIUDICARE COME LE FERROVIE DELLO STATO SONO GESTITE”

Ecco la situazione degli stipendi dei manager pubblici italiani rispetto all'Europa

 

giovedì 20 marzo 2014

CHI PAGAVA LA CASA FIORENTINA DI MATTEO RENZI?



WSI) - Matteo Renzi ha vissuto per quasi tre anni un un appartamento vicino a Palazzo Vecchio, in via degli Alfani 8. Ma a pagare l’affitto è stato l’amico Marco Carrai.

Per questo la procura di Firenze, come riportano alcuni quotidiani, ha aperto un fascicolo esplorativo, a seguito di un esposto, per fare luce sui rapporti tra l’ex sindaco e l’imprenditore e verificare se tra i due ci sia stato uno scambio di favori.

Al momento non ci sono né ipotesi di reato né indagati e il procuratore aggiunto Giuliano Giambartolomei affiderà le indagini a un pm per verificare che l’interesse pubblico non sia stato danneggiato.

Il presidente del Consiglio ha vissuto nella casa per 34 mesi, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio di quest’anno e lì aveva trasferito la sua residenza da Pontassieve (dove vive la moglie coi tre figli) per potere votare nella città che governava.

Aveva scelto l’appartamento in via degli Alfani 8 dopo avere lasciato una mansarda dietro Palazzo Vecchio perché l’affitto – da mille euro al mese – era troppo costoso.

Il proprietario della casa, scrive il Corriere della Sera, è Alessandro Dini, consigliere di amministrazione della Rototype, azienda il cui sito web è curato da da un’agenzia di comunicazione – Dotmedia – che vede tra i soci anche il cognato di Renzi.

Marco Carrai, consigliere del premier vicino a Comunione e Liberazione che in passato ha guidato Firenze Parcheggi, oggi è presidente di Aeroporti Firenze e di Fondazione Open (ex fondazione Big Bang che ha gestito le campagne elettorali di Renzi).

La società C&T Crossmedia di cui è socio si è aggiudicata un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet. Ma Carrai in questi giorni è finito nel mirino anche per la vicenda che vede coinvolta Francesca Campana Comparini, sua fidanzata che sposerà a settembre.

La ragazza, 26enne laureata in filosofia, è tra i curatori della mostra su Jackson Pollock e Michelangelo, la più importante e prestigiosa a Firenze nel 2014. Si svolgerà a Palazzo Vecchio ed è costata al Comune 375mila euro. I due consiglieri fiorentini di opposizione De Zordo (Per un’altra città) e Grassi (Sel) hanno chiesto al al vicesindaco reggente Nardella: "Se una ragazza di 26 anni, laureata in Filosofia e senza alcuna esperienza curatoriale, riceve l’incarico di curare la principale mostra di un grande comune italiano, è perché conosce qualcuno o perché conosce qualcosa?".

Secondo quando pubblicato dal Fatto, Comparini ha soltanto un titolo contro i 62 di un altro curatore della mostra, Sergio Risaliti. E l’unico saggio che ha pubblicato è per il catalogo della mostra di Zhang Huan, commissionato dal Comune di Firenze. source