Un' «invenzione di successo», un
bizzarro «magma informe». Questo è il non profit italiano, un gigantesco
pasticcio in cui convivono realtà del tutto diverse e non omogenee. Accomunate
da una specie di accordo tacito per cui «il mondo dei buoni» non si può e non
si deve né toccare né criticare, e da una legislazione confusa ma anche
piuttosto vantaggiosa.
Un magma che si regge su una specie
di «alone di benemerenza», per cui l'utilità sociale e la «contiguità con
l'interesse generale» che tipicamente si può applicare a una cooperativa che
assiste i disabili viene magicamente estesa anche a un ristorante che opera
come «associazione ricreativa», a un centro fitness, a una clinica gestita da
un ente religioso oppure a soggetti politici come i sindacati e Confindustria.
Questo è il messaggio - provocatorio, ma molto realista - di «Contro il non
profit», il libro appena uscito con Laterza di Giovanni Moro.
Un testo, quello del sociologo (una
vita da sempre impegnata nel mondo del «sociale») che ha l'ambizione pacata di
abbattere anni di retorica. Ed avviare un ripensamento critico di una realtà
«costruita» da convenzioni e leggi che assimilano cose che non sono uguali e
che non dovrebbero essere assimilabili.
Giovanni Moro, classe 1958, è stato
tra i fondatori di Cittadinanzattiva e presiede Fondaca, un centro studi sui
temi della cittadinanza. È diventato un avversario, vuole distruggere il non
profit? «Ovviamente no - risponde - solo che nessuno ha mai sollevato
l'interrogativo su come sia possibile definire un settore con la sola categoria
del "non"».
Il libro sostiene che quella del non
profit sia stata una invenzione, una cattiva invenzione, se si guarda come si
sarebbe necessario al valore sociale di ciò che si desidera tutelare. «Il non
profit, dunque - continua - non esiste, come realtà omogenea e utilità sociale
e significato.
Anche se genericamente si afferma
che in questo settore in Italia siano attive 300mila organizzazioni e
istituzioni senza fine di lucro, con centinaia di migliaia di dipendenti e 4
milioni di volontari. Quando i dipendenti retribuiti, nella migliore delle
ipotesi, sono 47mila».
Difficile contestare l'analisi di
Moro. Oggi sono considerati alla stessa stregua cose molte diverse come le
cooperative sociali, i sindacati, la Croce Rossa, gli enti lirici, le
fondazioni bancarie che controllano banche e i fondi assicurativi e
previdenziali che maneggiano miliardi, le cliniche di proprietà di religiosi
dove un posto letto costa carissimo, le università non statali. Ma anche
ristoranti e palestre, camuffati da circoli ricreativi, o circoli di scacchi e
musicali. «Tutti accomunati da questo "alone di benemerenza"»,
chiarisce il sociologo.
Ci sono «tante strutture che
meritano solo di essere lasciate in pace», ma i rilevanti vantaggi legali e
fiscali previsti per il settore «devono essere conferiti sulla base delle
attività svolte, sulla contiguità all'interesse generale, e non sulla base
delle forme societarie. Perché una polisportiva in periferia non è come il
Tennis Club Parioli o un club di canottaggio per vip. E una mensa dei poveri
non può essere paragonata a un ente che raccoglie fondi, spendendo l'85% di
quel che incassa per finanziare la raccolta stessa».
La verità è che la confusione di
definizioni e di norme che caratterizzano il non profit, «per molti addetti ai
lavori è stata un buon affare». Con in più, spiega Moro, «un fenomeno deteriore
che si è diffuso moltissimo in Italia: l'esternalizzazione di servizi pubblici
verso cosiddette imprese non profit. Oggi una fetta elevatissima del sistema
del welfare e della sua spesa è gestita in convenzione, un'esagerazione
abnorme. Una scelta che non fa bene né agli utenti dei servizi, come ha
dimostrato il caso del campo rifugiati di Lampedusa, né alla società».
Insomma, «bisogna smontare la finzione
del non profit», è la conclusione. Come? Vere proposte non ci sono, ma dalla
lettura del libro emerge la necessità di costruire un sistema di benefici e
vantaggi «in progressione», con un nuovo sistema di classificazione (imprese,
enti quasi-pubblici, organizzazioni della produzione e del lavoro, istituzioni
di supporto, enti di ricerca, organizzazioni del capitale sociale,
organizzazioni di attuazione costituzionale) che deve appunto premiare la
contiguità all'interesse generale.
E va certamente ridisegnata la legge
«Zamagni» del 1997 sulle Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità
sociale), che ha un taglio assistenzialistico, ed è obsoleta, scritta «per un
mondo che non c'è più».
Roberto Giovannini “La Stampa”