lunedì 3 marzo 2014

OCCHIO ALLE ONLUS E NO PROFIT



Un' «invenzione di successo», un bizzarro «magma informe». Questo è il non profit italiano, un gigantesco pasticcio in cui convivono realtà del tutto diverse e non omogenee. Accomunate da una specie di accordo tacito per cui «il mondo dei buoni» non si può e non si deve né toccare né criticare, e da una legislazione confusa ma anche piuttosto vantaggiosa.
Un magma che si regge su una specie di «alone di benemerenza», per cui l'utilità sociale e la «contiguità con l'interesse generale» che tipicamente si può applicare a una cooperativa che assiste i disabili viene magicamente estesa anche a un ristorante che opera come «associazione ricreativa», a un centro fitness, a una clinica gestita da un ente religioso oppure a soggetti politici come i sindacati e Confindustria. Questo è il messaggio - provocatorio, ma molto realista - di «Contro il non profit», il libro appena uscito con Laterza di Giovanni Moro.
Un testo, quello del sociologo (una vita da sempre impegnata nel mondo del «sociale») che ha l'ambizione pacata di abbattere anni di retorica. Ed avviare un ripensamento critico di una realtà «costruita» da convenzioni e leggi che assimilano cose che non sono uguali e che non dovrebbero essere assimilabili.
Giovanni Moro, classe 1958, è stato tra i fondatori di Cittadinanzattiva e presiede Fondaca, un centro studi sui temi della cittadinanza. È diventato un avversario, vuole distruggere il non profit? «Ovviamente no - risponde - solo che nessuno ha mai sollevato l'interrogativo su come sia possibile definire un settore con la sola categoria del "non"».
Il libro sostiene che quella del non profit sia stata una invenzione, una cattiva invenzione, se si guarda come si sarebbe necessario al valore sociale di ciò che si desidera tutelare. «Il non profit, dunque - continua - non esiste, come realtà omogenea e utilità sociale e significato.
Anche se genericamente si afferma che in questo settore in Italia siano attive 300mila organizzazioni e istituzioni senza fine di lucro, con centinaia di migliaia di dipendenti e 4 milioni di volontari. Quando i dipendenti retribuiti, nella migliore delle ipotesi, sono 47mila».
Difficile contestare l'analisi di Moro. Oggi sono considerati alla stessa stregua cose molte diverse come le cooperative sociali, i sindacati, la Croce Rossa, gli enti lirici, le fondazioni bancarie che controllano banche e i fondi assicurativi e previdenziali che maneggiano miliardi, le cliniche di proprietà di religiosi dove un posto letto costa carissimo, le università non statali. Ma anche ristoranti e palestre, camuffati da circoli ricreativi, o circoli di scacchi e musicali. «Tutti accomunati da questo "alone di benemerenza"», chiarisce il sociologo.
Ci sono «tante strutture che meritano solo di essere lasciate in pace», ma i rilevanti vantaggi legali e fiscali previsti per il settore «devono essere conferiti sulla base delle attività svolte, sulla contiguità all'interesse generale, e non sulla base delle forme societarie. Perché una polisportiva in periferia non è come il Tennis Club Parioli o un club di canottaggio per vip. E una mensa dei poveri non può essere paragonata a un ente che raccoglie fondi, spendendo l'85% di quel che incassa per finanziare la raccolta stessa».
La verità è che la confusione di definizioni e di norme che caratterizzano il non profit, «per molti addetti ai lavori è stata un buon affare». Con in più, spiega Moro, «un fenomeno deteriore che si è diffuso moltissimo in Italia: l'esternalizzazione di servizi pubblici verso cosiddette imprese non profit. Oggi una fetta elevatissima del sistema del welfare e della sua spesa è gestita in convenzione, un'esagerazione abnorme. Una scelta che non fa bene né agli utenti dei servizi, come ha dimostrato il caso del campo rifugiati di Lampedusa, né alla società».
Insomma, «bisogna smontare la finzione del non profit», è la conclusione. Come? Vere proposte non ci sono, ma dalla lettura del libro emerge la necessità di costruire un sistema di benefici e vantaggi «in progressione», con un nuovo sistema di classificazione (imprese, enti quasi-pubblici, organizzazioni della produzione e del lavoro, istituzioni di supporto, enti di ricerca, organizzazioni del capitale sociale, organizzazioni di attuazione costituzionale) che deve appunto premiare la contiguità all'interesse generale.
E va certamente ridisegnata la legge «Zamagni» del 1997 sulle Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale), che ha un taglio assistenzialistico, ed è obsoleta, scritta «per un mondo che non c'è più».
Roberto Giovannini “La Stampa”