giovedì 27 marzo 2014

JOBS ACT: #LASVOLTABUONACONTROILMURO

Anche in Italia, come nel Regno Unito con Blair e in Germania con Schroeder, solo un governo di sinistra può fare una politica di destra.










IN COSA CONSISTE IL JOBS ACT
Il 12 marzo il consiglio dei ministri ha approvato la prima parte del Jobs act, la riforma del lavoro illustrata per la prima volta l’8 gennaio da Matteo Renzi. La prima mossa del governo è stata l’approvazione di un decreto legge per il rilancio dell’occupazione.
Ecco cosa prevede il decreto proposto dallo stesso Renzi e dal ministro del lavoro Giuliano Poletti:
  • Viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato senza causale, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione. La forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20 per cento del totale degli assunti.
  • I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di otto volte in tre anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.
  • Salta l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.
  • I contratti di apprendistato avranno meno vincoli. Per esempio per assumere nuovi apprendisti non sarà obbligatorio confermare i precedenti apprendisti alla fine del percorso formativo. La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35 per cento della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento.
  • È prevista inoltre l’abolizione del Durc (Documento unico di regolarità contributiva), il documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile. Sarà sostituito da un modulo da compilare su internet.
Il decreto è stato duramente criticato da alcuni sindacati. Soprattutto dalla Cgil e in parte anche dalla Fiom.
Il 12 marzo il consiglio dei ministri ha approvato anche un disegno di legge delega al governo che affronta gli altri temi contenuti nel Jobs act: dagli ammortizzatori sociali ai servizi per il lavoro, dall’introduzione di un sussidio di disoccupazione al salario minimo, dalla riduzione delle forme contrattuali alla tutela per le donne in maternità.
Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito in legge delega dal parlamento e il governo dovrà dare attuazione alla norma in un tempo stabilito dalla legge stessa.

LA CRITICA
L'impianto principale del provvedimento poggia infatti su un'ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro: innanzitutto il periodo entro il quale è possibile rinnovare contratti a termine viene allungato a ben otto volte in tre anni. In secondo luogo vengono eliminate le tutele dell'articolo 18 per tutti i neo-assunti per i primi tre anni, mentre vengono modificati anche gli apprendistati, per i quali viene eliminato l'obbligo di formazione così come l'impegno ad assumere a tempo determinato una parte degli apprendisti.
Infine il Jobs Act prevede anche un riordino degli ammortizzatori sociali: il tanto decantato sussidio di disoccupazione andrà infatti a sostituire e cancellare tutte le altre forme di sostegno, determinando di fatto un taglio degli ammortizzatori sociali complessivamente disponibili. Insomma: sempre maggiore precarizzazione, riduzione dei salari e di ogni garanzia sono alla base dell'idea del Jobs Act, che andrà a colpire innanzitutto le fasce più giovani di lavoratori.
La disponibilità ad accettare contratti e condizioni progressivamente peggiori è stata in questi anni sempre sbandierata come soluzione per rimettere in moto il mondo del lavoro. Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato proprio il contrario, e cioè che la ricetta della precarietà non funziona.
L'obiettivo celato dietro questo tipo di politiche è in realtà quello di creare un mondo del lavoro sempre più frammentato e disciplinabile che metta a disposizione manodopera a basso costo e facilmente ricattabile.

UNA ULTERIORE RIFLESSIONE
Anche Matteo Renzi, come chi lo ha preceduto, sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda. Perciò, nonostante nel solo 2013 si siano persi 413mila posti di lavoro (dati Istat), il primo pezzo del tanto annunciato Jobs Act è una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di quattro-cinque mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni. Come ciò si concili con il promesso contratto unico a tutele crescenti rimane un mistero. Ed è difficile che l’ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, ovvero la competitività delle nostre imprese a livello nazionale. È, infatti, un forte scoraggiamento a investire sulla forza lavoro, specie su quella in ingresso, dato che l’orizzonte temporale della “prova” si allunga a dismisura e assume ancora più di prima un carattere neppure tanto sottilmente minaccioso, o ricattatorio, dato che rinnovi o mancati rinnovi possono avvenire in tempi cortissimi.
Nella stessa direzione va la modifica dell’apprendistato, un vero e proprio ritorno indietro, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di questo tipo – una delle buone innovazioni introdotte da Elsa Fornero. La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale (ciò che probabilmente aprirà a nuove sanzioni UE).
CONSEGUENZE PER GIOVANI E DONNE
Se questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito, che oltretutto difficilmente consentirà di maturare diritti a una indennità di disoccupazione decente, tra un rinnovo e l’altro. Senza che si crei un solo posto di lavoro in più e probabilmente senza fermare l’emorragia di quelli in atto – moltissimi dei quali stabili, a tempo indeterminato – in corso ormai da anni.
Per le donne, poi, vi saranno costi aggiuntivi. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che
molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale.
Chissà se, come ha fatto la ministra Boschi per la questione delle norme antidiscriminatorie nella legge elettorale, le ministre considereranno anche questa penalizzazione aggiuntiva per le donne all’interno di norme già di per sé negative, un piccolo scotto del tutto marginale da pagare sull’altare delle riforme “epocali”. (Chiara Saraceno – lavoce.info)