mercoledì 31 agosto 2016

IL FENOMENO DEI VOLONTARI DI PROFESSIONE



Si può parlare di “volontari di professione”? Lo fa Ilvo Diamanti in una riflessione che prende le mosse dalla grande mobilitazione in seguito al terremoto. Diamanti, che è un autorevole studioso dei fenomeni sociali, forse usa questa espressione volendole conferire un significato paradossale. Fin dall’inizio del suo intervento, infatti, avverte che nel discorso comune il termine volontariato si usa senza precisazioni per indicare “un fenomeno distinto e molteplice”, ed elenca poi le principali forme a cui, in modo appunto indistinto, ci si riferisce.
Tra queste ci sono i “volontari di professione”, cioè coloro che operano nelle cosiddette “imprese sociali”, che “dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali”. In questo modo, però, Diamanti rischia di contribuire alla confusione di cui ha appena parlato. I volontari sono, come peraltro li definisce l’Istat, quelli che svolgono "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Gratuite: è questo che contraddistingue il volontariato dalle altre forme di impegno all’interno di quel variegato ambito definito “Terzo settore” o “economia sociale”. Le imprese sociali con il volontariato c’entrano poco o nulla, anche se spesso alla loro attività contribuiscono anche volontari. Anche se si definiscono “non profit”, non operano affatto gratuitamente, e i loro dipendenti sono retribuiti (quasi sempre molto poco e spesso scandalosamente poco).
Diamanti parla del rischio di dipendenza “da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche”. Ma in effetti non sembra affatto quello il rischio più rilevante. Che è, invece, quello di essere uno strumento per la privatizzazione dei servizi pubblici, dall’assistenza (che già per più del 50% è appaltata dai Comuni a questo tipo di imprese) all’istruzione e alla sanità. I servizi che dovrebbero essere garantiti dal settore pubblico come diritti di cittadinanza sono sempre più affidati a un Terzo settore dove dilaga il precariato e la sottoretribuzione e dove i diritti del lavoro – quelli ancora rimasti – sono di frequente elusi o ignorati.
Quei servizi dovrebbero essere gestiti dal settore pubblico che è per definizione non profit. Le imprese sociali, invece, i profitti puntano a farli, con il solo limite di non poter remunerare il capitale, limite che è facile trasformare in una foglia di fico dietro la quale i soldi prendono le direzioni volute.
La nuova legge delega approvata nel maggio scorso, poi, ha aperto un’ulteriore breccia, accelerando sulla via della privatizzazione del welfare. Ha scritto Giulio Marcon, deputato di Sinistra italiana: “La legge infatti apre la possibilità anche alle imprese profit (pure con alcuni limiti nella distribuzione degli utili) di gestire servizi nella sanità e nell’istruzione, utilizzando le agevolazioni del non profit, ma facendo profitti. La legge introduce per questa tipologia di organizzazioni la “remunerazione del capitale investito”, al pari delle tradizionali società commerciali. Si accentua così ancora di più il business della sanità e dell’istruzione, travestito da “finalità sociali”.
Il Terzo settore sembra dare una risposta agli obiettivi di tanti giovani che cercano un lavoro che non sia solo un mezzo di sopravvivenza, ma abbia anche un senso etico e sociale. Purtroppo questa spinta altruistica, risorsa preziosa della società, viene utilizzata nell’ambito dell’ideologia dominante, che vede in tutto ciò che è pubblico un nemico da abbattere e da ridurre in confini il più possibile ristretti. Il non profit, a dispetto di tanti suoi sostenitori in perfetta buona fede, è il cavallo di Troia proprio per introdurre il profitto nella gestione dei servizi essenziali, e nello stesso tempo un segmento del mercato del lavoro tra i meno garantiti e retribuiti. Non è la prima volta – e certo non sarà l’ultima – che idee all’apparenza lodevoli subiscono un’eterogenesi dei fini che le trasforma in un fenomeno da combattere. Chi pensa che il pubblico non debba abdicare al ruolo maturato in oltre un secolo, farebbe bene a riflettere sul sostegno che, anche da molti di loro, è stato dato finora a questo fenomeno.

martedì 30 agosto 2016

QUANDO CROLLA IL SENSO DEL PUDORE



È caratteristica squisitamente umana cercare senso e significato al dolore e alla morte. Solo tramite questo lento lavorio si può affrontare l'immane tragedia di un terremoto. Affrontare non è certo superare. Quel dolore per le vite spezzate non si dimentica. Si porta dentro tutta la vita come la paura. Quanto più siamo sbigottiti, addolorati e feriti da quello che è accaduto, tanto più cerchiamo di dargli un significato, di tracciarne un senso che vada oltre il sentimento di fatalità e di insopportabile impotenza. È il sacrosanto tentativo perlomeno di attenuare, emendare e limitare la nostra fragilità.
Anche chi non stava lì fisicamente riflette col cuore ferito e ricolmo di dolore seppure per pochi giorni, a differenza di chi lo farà per il resto della vita, cerca il significato. Nel farlo, tira fuori il peggio e il meglio di se stesso a secondo dei suoi paradigmi culturali e della volontà/capacità di agirli o metterli in discussione.
Di fronte alla tragedia, per esempio, la cultura del risentimento nichilista trae linfa straordinaria e vive di riflessi immediati. Il rancore e la voglia di vendetta reagiscono cercando colpevoli da violentare con la stessa ferocia di un terremoto, ma questa volta dalla 'parte giusta'. E così l'evento nella sua funesta brutalità è visto come il giusto castigo divino per i peccati più vari (comprese le unioni civili); o ancora è strumento per dimostrare complotti frutto della mente di chi li immagina; è il destino che punisce chi è divenuto famoso per ingurgitare carne all'amatriciana; o infine è la conseguenza per chi offre alloggio agli immigrati invece di pensare ai veri italiani. La cultura del risentimento non tiene in alcun conto l'umanità concreta e dolente, perché è sempre alla ricerca di capri espiatori, e per quanto appaia assurda, non fa che spargere veleno nelle relazioni umane, proprio nei momenti di più acuta sofferenza. È qui più che altrove che scorrazzano branchi di sciacalli.

Il risentimento non va però confuso con l'indignazione che è esplosa al pari della solidarietà. L'indignazione contro chi poteva prevenire e non l'ha fatto, nonostante i terremoti precedenti e la consapevolezza dei rischi sismici. Questa dimensione critica è stata arginata, respinta, censurata da tanti cronisti, che la reputavano poco consona al momento di dolore. Ho assistito a trasmissioni radiofoniche che mentre imponevano agli ascoltatori di non 'fare polemiche', davano la parola a rappresentanti istituzionali che erano ricolmi di cordoglio, promettevano impegno, rassicuravano sugli aiuti e plaudivano i volontari e la solidarietà. Esattamente come all'Aquila pochi anni fa. Facce diverse, stessi discorsi.
Mi permetto di interpretare la rabbia come il sintomo del crollo della speranza. Dopo le lezioni inascoltate dei terremoti precedenti, dopo le migliaia di morti che erano evitabili (come ha dimostrato l'esempio positivo di Norcia fra gli altri), dopo le oscene promesse che hanno ingrassato gli speculatori, dopo le ristrutturazioni farlocche con sabbia e polistirolo, dopo le ripetute previsioni scientifiche che a nulla sono servite, di fronte a tanto dolore, un moto di indignazione e rabbia è comprensibile. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarne la portata. Con Amatrice muore la speranza in un'intera classe dirigente. Non si tratta tanto di gettare fango su Renzi o Zingaretti o Alfano o Mattarella; le loro passerelle tristi suscitano più pena che rabbia. Non si tratta di personalizzare le responsabilità. Il crollo della speranza è la conseguenza di una cultura che caratterizza i vertici istituzionali e che si disvela nella assoluta incapacità di prevenire ciò che era già stato scritto, documentato e accertato.
La classe dirigente non è un'entità monolitica, ma un variegato e scomposto agglomerato di apparati di potere fragile che può essere politico, tecnico, sociale, economico. La classe politica nelle sue articolazioni svela la sua essenza incompetente di fronte a qualunque problema che vada oltre l'immediata tornata elettorale o il tamponare momentaneamente l'ennesima emergenza. Per quanto ogni nuovo rappresentante politico si dia una veste di verginità rispetto a chi lo ha preceduto, dietro le immediate promesse, si disvela una totale impreparazione a un pensiero strategico e complesso: lo abbiamo visto con la crisi siriana, lo vediamo con gli immigrati, lo subiamo con la crisi economica e oggi con la tragedia dei disastri che solo in parte sono naturali. Le illusioni che il cambiamento possa avvenire dentro e tramite i palazzi del potere possono essere più pericolose di chi quel potere lo gestisce da decenni. Perché ci riducono a spettatori passivi, a deleganti in attesa.
I Capi della Protezione Civile, destinati a riparare le emergenze più che a proteggere, sono totalmente impotenti di fronte a disastri da loro stessi annunciati e nulla possono di fronte al loro datore di lavoro, la Presidenza del Consiglio da cui dipende la loro stessa esistenza. I Capi degli Ordini Professionali, dagli Architetti agli Ingegneri, che pontificano oggi sui miracoli possibili della tecnica riescono a eclissarsi fra una tragedia e l'altra, con la speranza di qualche consulenza in più che forse arriverà ma solo per tamponare lo scandalo di turno.
Gli imprenditori dell'edilizia, i professionisti dei ribassi al trenta per cento, hanno dato l'ennesima prova, proprio nelle ristrutturazioni di scuole e campanili nella zona colpita, di come l'incompetenza si trasformi in speculazione aperta e assassina con la collusione di fatto dei poteri locali. E che dire degli scienziati del nostro Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che dopo la condanna per aver tranquillizzato la popolazione aquilana il giorno prima del terremoto, si sono rinchiusi in un sacrosanto silenzio e affermano che le loro previsioni non sono di alcuna utilità pratica?
La speranza che questi vertici possano sviluppare prevenzioni e cambiamenti è crollata. Eppure altre speranze sorgono forti appena lo sguardo viene volto altrove. Quando si incontra l'esempio delle vittime che sono diventate soccorritori quella stessa notte (come accadde all'Aquila), dei volontari che hanno combattuto contro la fatica e il rischio di morire per salvare vite umane, delle migliaia di persone che hanno organizzato e inviato aiuti, di tutti coloro che non hanno esitato a versare somme importanti per ricostruire ciò che è crollato, soprattutto il senso e la storia di quelle antiche comunità, ecco quando si incontrano questi esempi la speranza risorge perlomeno come sentimento. Ma da sentimento va trasformato in significato perché questa volta sappiamo, grazie all'esempio dell'Aquila, che anche questa straordinaria ondata di solidarietà verrà dispersa, se non si trasforma in cultura.
La prevenzione è un'opera strategica, complessa, che necessita di tecnici competenti e onesti, finanziamenti corposi e di lungo periodo, collaborazione e partecipazione attiva dei cittadini, visione e senso della vita, solidarietà e impegno disinteressati. La prevenzione può essere il frutto di una rivoluzione culturale che modifichi il rapporto fra stato e società civile. Nessuna delega per costruire e prevenire può essere lasciata in bianco, nessun euro versato può essere speso senza controllo. Non possiamo più avere una relazione di dipendenza nei confronti di una leadership statuale a cui delegare per poi lamentarsi; abbiamo invece bisogno di essere parte attiva, responsabile, consapevole se vogliamo uno stato che si ponga al servizio della società civile, che risponda alle committenze dirette di chi in quei luoghi ci vive, ci studia, ci lavora.
Oggi tutto ciò appare come un'utopia. Ma se vediamo la dignità di quelle popolazioni colpite a morte dalla natura impietosa e dalla sciagurata politica, se ne valorizziamo la loro gratitudine, se ci sintonizziamo con la loro volontà di ricostruire; se pensiamo che ogni tragedia annunciata ci riguarda tutti e che il bene comune comprende l'interesse individuale ma non sempre è vero il contrario; se pensiamo che tutto ciò sarebbe evitabile o comunque limitabile senza essere giapponesi; se in ogni atto di compravendita si chiedesse il certificato antisismico e non solo quello energetico (!); se ognuno di noi prima di abbattere un tramezzo si domandasse quali conseguenze potrebbe avere; se pensiamo ai nostri figli e alle friabili mura delle loro scuole, allora questo cambiamento appare imperativo. Attuare un'opera di prevenzione cambierebbe il nostro rapporto con la natura e le relazioni fra esseri umani. Non si tratta di un cambiamento politico, ma di un radicale e portentoso cambiamento culturale. La solidarietà dimostra che questo cambiamento ha un enorme potenziale. Ma fra il potenziale e la sua attuazione c'è un abisso da colmare. Come? Non so dare una risposta. Però so che possiamo impegnarci per trovarla insieme. Solo così potremo onorare la memoria di chi oggi è mancato e dare un senso a quello che è successo.

lunedì 29 agosto 2016

IN ATTESA DEL PROSSIMO



L’Italia è un paese ad elevato rischio sismico, nel precedente millennio si stimano siano avvenuti oltre 1300 sismi con connotazione distruttiva in tutta Europa, di tutti questi oltre 500 hanno interessato il nostro paese facendone per questo il più rischioso in assoluto in tutta Europa. Terremoti con magnitudo superiore a 6.0 se ne contano a raffica uno dietro l’altro solo nella seconda metà del secolo che abbiamo alle spalle: Irpinia nel 1962 (il sisma definito signore perchè danneggiò in via principale gli edifici, causando solo pochi morti), Belice nel 1968, Friuli nel 1976, Val Nerina nel 1979, ancora l’Irpinia nel 1980 (oltre tremila morti), Abruzzo nel 1984, Basilicata nel 1990, Umbria nel 1997, Molise nel 2002, L’Aquila nel 2009, Emilia nel 2012. Da non dimenticare sul piano storico, il più devastante, sempre per noi italiani ossia quello di Messina nel 1908. Senza essere dei grandi analisti appare chiaro che il territorio del nostro paese è oggetto di terremoti con frequenza e periodicità piuttosto costante, pertanto pur piangendo e soffrendo per i territori e le popolazioni che sono state colpite nella giornata di mercoledi, tutti gli altri italiani si dovrebbero chiedere quando potrà essere il prossimo e soprattutto dove potrebbe colpire. In questi termini infatti scopriamo che appena il 5% della popolazione italiana (1 su 20) è consapevole di vivere in un paese ad elevato rischio sismico e magari anche in una zona particolarmente sismica.
In tal senso il territorio nazionale è mappato in quattro zone con diversa rischiosità specifica. In rete stanno girando da ore commenti e considerazioni di geologi che citano i casi di Giappone e California, quali stati virtuosi nella prevenzione dei rischi sismici grazie a tecnologie di costruzione edile volte a fronteggiare questi fenomeni. In Giappone un sisma di magnitudo 6.0 non avrebbe prodotto danni di alcuni tipo, tanto meno perdita di vita umane: sono ormai da svariati decenni che si è investito in tal senso ossia nella consapevolezza che per la nazione orientale la voce terremoto rappresenta una vulnerabilità sistemica che deve essere sterilizzata il più possibile, non solo per l’incolumità della propria popolazione ma anche per i costi che si sostengono successivamente qualora si deve intervenire a posteriore nella copertura dei danni subiti. Come abbiamo visto l’Italia detiene il primato in Europa come primo paese maggiormente a rischio sismico, ciò nonostante non ricordo in passato governi tanto di destra quando di sinistra che siano intervenuti con enfasi prodromica in tal senso. Vi racconto un aneddotto: nel 2011 subito dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima partecipai ad una tavola rotonda organizzata dal Rotary sul referendum che si sarebbe poi svolto in Italia per il ripristino del nucleare qualche mese dopo. Chiese di parlare al panel del relatori il portavoce di un’associazione di categoria il quale espresse, non perplessità, ma il più diniego assoluto nei confronti del nucleare, sottolineando i rischi per il nostro paese qualora si dovesse verificare un incidente di portata simile a quello giapponese.
Rispose con tono quasi sprezzante il presidente di quel circolo (ricordo che era un ingegnere civile) all’intervento di questo partecipante dicendo che se si dovesse verificare un terremoto di portata simile a quello che colpì il Giappone in quell’anno, lui avrebbe voluto trovarsi proprio dentro una centrale nucleare italiana perchè a quel punto circa il 90% del parco immobili italiano sarebbe collassato a terra polverizzandosi e praticamente tutta la popolazione sarebbe morta sepolta sotto le macerie della propria abitazione. Di questa vulnerabilità ne sta parlando in queste ore molto più la stampa internazionale che quella nostrana convenzionale: il messaggio che trapela tra le righe è piuttosto ben evidente. Fate attenzione al Bel Paese (di un tempo): se acquistate una abitazione per vacanze o per lavoro, accertatevi quando è stata costruita, in che zona sismica si trova e che requisiti antisismici effettivamente può vantare. Ricordate questa coppia di numeri 80/80 che vi aiuta a tenere a mente come l’ottanta percento degli immobili italiani è stato costruito prima del 1980, anno in cui a seguito del terremoto in Irpinia vennero varate le prime norme antisismiche. Il che significa pertanto che edifici pubblici di significativa funzionalità come ospedali e scuole rientrano in questa casistica. In un paese che purtroppo detiene questo primato, la conoscenza di questi aspetti di natura tecnica, soprattutto nella sua popolazione, dovrebbe essere un must. Questo in particolar modo anche per la funzione di riserva di valore che detiene la casa per gli italiani: che senso ha a questo punto mettere tutti i propri risparmi o convogliare tutti i propri sacrifici nell’acquisto di un immobile che si trova in una località con bollino rosso per il rischio sismico.
Proprio qui infatti si potrebbero aprire svariate interpretazioni allo scenario italiano in forza della modesta o inesistente prevenzione sismica. Immaginate a tal fine se venisse istituita una sorta di categorizzazione o peggio classificazione delle abitazioni in base ai requisiti di antisismicità. Si andrebbe in questo momento ad ammazzare definitivamente il mercato immobiliare creando una situazione di bipolarità con presenza di pochi immobili considerati a norma e sicuri contro la quasi moltitudine degli inadeguati o esposti al rischio. Qualcosa di questa portata la si è vista con la classificazione per gli immobili in base all’efficienza energetica, tuttavia anche l’appartenenza ad una bassa classe di valore non scoraggia in questo caso l’acquisto in quanto con poche migliaia di euro la si può efficentare in termini energetici ed in ogni caso una classe F in efficienza energetica non ti espone a rischio di morte in caso di sisma. Non dimentichiamo tra i tanti problemi che andremmo a creare anche le conseguenze finanziarie per gli istituti di credito: immaginate mutui erogati in passato con un immobile periziato ad un valore X che a quel punto potrebbe essere abbondantemente rettificato con relativo impatto sulle coperture di quell’affidamento bancario. Sempre sul questo fronte si potrebbero evidenziare ulteriori elementi molto pregiudizievoli alla categorizzazione o classificazione degli immobili al rischio sismico. Conviene da buoni italiani, mandare in onda il solito copione ben rodato ossia piangere il recente dramma nazionale, avviare solidali campagne di raccolta fondi (di cui non si conosce poi mai l’effettivo utilizzo), puntare le telecamere sui siti oggetto della disgrazie per alcune settimane sapendo che dopo lentamente tutto andrà nel dimenticatoio e dare tempo al tempo, nella penosa attesa del prossimo che arriverà.
Eugenio Benetazzo - eugeniobenetazzo.com

sabato 13 agosto 2016

LA GAVETTA DEI RICCHI



La figlia minore di Barack e Michelle Obama Natasha (Sasha) va a fare per qualche giorno la cassiera in un posto, un ristorante di pesce, sull’esclusiva isola di Martha’s Vineyard scortata da sei agenti del Secret Service e tutti i boccaloni a dire: “Ammazza quanto è democratico Obama”. Intanto la figlia di Bill e Hillary Clinton, Chelsea, una che praticamente non ha mai lavorato, se non in fondazioni che gestivano fondi collegati alle attività politiche dei suoi genitori, ha sposato un banchiere e comprato un attico a Manhattan per 4 milioni di dollari. Ma forse da ragazzina aveva venduto il latte in qualche dairy, democraticamente. Vicende che mi ricordano Giovannino Agnelli, figlio di Umberto e nipote prediletto di Gianni, di cui si diceva che in incognito (t’immagini) fosse andato a lavorare alla catena di montaggio in Piaggio, azienda che avrebbe poi – se la memoria non mi’inganna – amministrato prima di morire prematuramente, e tutti a dire: “Vedi, persino un Agnelli deve fare la gavetta“. Il sociologo Francesco Alberoni qualche anno fa commentava serio dalle colonne de Il Corriere della Sera: “I grandi imprenditori, dopo averli fatti studiare in scuole dure e selettive, [ai figli] facevano fare loro carriera incominciando dai lavori più umili. Il figlio dell’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, si è mantenuto agli studi lavorando.
Il punto è che queste esperienze ‘lavorative’ non si svolgono in incognita: non tanto perché chi le fa non venga riconosciuto dagli altri – anche perché voglio vedere come farebbe uno a passare inosservato con sei nerboruti tizi con occhiali scuri, auricolari e armi disinvoltamente a ronzare nei paraggi, che ti accompagnano al lavoro con macchine blindate dai vetri oscurati e ti vengono a riprendere prelevandoti stile rendition – quanto per il fatto che chi le fa sa benissimo chi è, da dove viene e dove tornerà.
Ricordo i ricchi che facevano le ‘esperienze di povertà': provare a vivere da poveri per una settimana. Che lo faccia la borghesia annoiata e ferita dal senso di colpa potrei pure capirlo, ma quando c’è di mezzo la politica la cosa diventa più seria.
Il tentativo è di dire: siamo uguali, anche io faccio ciò che fate voi per vivere. Il punto è che non è vero. La figlia di Obama non fa la cassiera dietro quello che il filosofo statunitense John Rawls avrebbe chiamato ‘velo di ignoranza’, cioè all’oscuro delle proprie condizioni economiche e sociali. Sa perfettamente che non farà la cassiera tutta la vita, e che il posto che le verrà assegnato nel mondo è ampiamente prevedibile, e che è un posto magnifico. Dunque a cosa servono queste esperienze? A capire cosa vuol dire vivere di uno stipendio misero facendo un lavoro non esaltante? Ed è possibile farlo se si sa che poi si tornerà a casa, alla propria esistenza dorata, quella che garantisce un futuro di agi e lussi?
Se questo è, preferisco che il potente si conceda i paramenti lussuosi che il suo rango prevede, che egli si atteggi a semidio, che non si confonda con i comuni mortali, che sia dedito alla crapula e al dispendio sia in pubblico che in privato. A che serve ostentare un contegno morigerato e sobrio in pubblico e trasformarsi in Eliogabali solo in privato? (che poi per il povero Bassiano erano tutte calunnie di Elio Lampridio).
Il lusso e la ricchezza non sono né un peccato né una colpa. Ma occorre farsi carico dei loro effetti: inutile cercare di sottrarsi al prezzo, talvolta certo eccessivo, che la popolarità, la condizione economica, il potere comportano cercando di sembrare ‘come tutti’ quando non si è come tutti. Meglio allora il Marchese del Grillo: poter dire “Perché io so’ io, e voi non siete…”, condurre una vita goliardica e dispendiosa, godere dello status toccato in sorte. Farlo a viso aperto, sapendo che qualche sputacchio arriverà.