martedì 30 agosto 2016

QUANDO CROLLA IL SENSO DEL PUDORE



È caratteristica squisitamente umana cercare senso e significato al dolore e alla morte. Solo tramite questo lento lavorio si può affrontare l'immane tragedia di un terremoto. Affrontare non è certo superare. Quel dolore per le vite spezzate non si dimentica. Si porta dentro tutta la vita come la paura. Quanto più siamo sbigottiti, addolorati e feriti da quello che è accaduto, tanto più cerchiamo di dargli un significato, di tracciarne un senso che vada oltre il sentimento di fatalità e di insopportabile impotenza. È il sacrosanto tentativo perlomeno di attenuare, emendare e limitare la nostra fragilità.
Anche chi non stava lì fisicamente riflette col cuore ferito e ricolmo di dolore seppure per pochi giorni, a differenza di chi lo farà per il resto della vita, cerca il significato. Nel farlo, tira fuori il peggio e il meglio di se stesso a secondo dei suoi paradigmi culturali e della volontà/capacità di agirli o metterli in discussione.
Di fronte alla tragedia, per esempio, la cultura del risentimento nichilista trae linfa straordinaria e vive di riflessi immediati. Il rancore e la voglia di vendetta reagiscono cercando colpevoli da violentare con la stessa ferocia di un terremoto, ma questa volta dalla 'parte giusta'. E così l'evento nella sua funesta brutalità è visto come il giusto castigo divino per i peccati più vari (comprese le unioni civili); o ancora è strumento per dimostrare complotti frutto della mente di chi li immagina; è il destino che punisce chi è divenuto famoso per ingurgitare carne all'amatriciana; o infine è la conseguenza per chi offre alloggio agli immigrati invece di pensare ai veri italiani. La cultura del risentimento non tiene in alcun conto l'umanità concreta e dolente, perché è sempre alla ricerca di capri espiatori, e per quanto appaia assurda, non fa che spargere veleno nelle relazioni umane, proprio nei momenti di più acuta sofferenza. È qui più che altrove che scorrazzano branchi di sciacalli.

Il risentimento non va però confuso con l'indignazione che è esplosa al pari della solidarietà. L'indignazione contro chi poteva prevenire e non l'ha fatto, nonostante i terremoti precedenti e la consapevolezza dei rischi sismici. Questa dimensione critica è stata arginata, respinta, censurata da tanti cronisti, che la reputavano poco consona al momento di dolore. Ho assistito a trasmissioni radiofoniche che mentre imponevano agli ascoltatori di non 'fare polemiche', davano la parola a rappresentanti istituzionali che erano ricolmi di cordoglio, promettevano impegno, rassicuravano sugli aiuti e plaudivano i volontari e la solidarietà. Esattamente come all'Aquila pochi anni fa. Facce diverse, stessi discorsi.
Mi permetto di interpretare la rabbia come il sintomo del crollo della speranza. Dopo le lezioni inascoltate dei terremoti precedenti, dopo le migliaia di morti che erano evitabili (come ha dimostrato l'esempio positivo di Norcia fra gli altri), dopo le oscene promesse che hanno ingrassato gli speculatori, dopo le ristrutturazioni farlocche con sabbia e polistirolo, dopo le ripetute previsioni scientifiche che a nulla sono servite, di fronte a tanto dolore, un moto di indignazione e rabbia è comprensibile. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarne la portata. Con Amatrice muore la speranza in un'intera classe dirigente. Non si tratta tanto di gettare fango su Renzi o Zingaretti o Alfano o Mattarella; le loro passerelle tristi suscitano più pena che rabbia. Non si tratta di personalizzare le responsabilità. Il crollo della speranza è la conseguenza di una cultura che caratterizza i vertici istituzionali e che si disvela nella assoluta incapacità di prevenire ciò che era già stato scritto, documentato e accertato.
La classe dirigente non è un'entità monolitica, ma un variegato e scomposto agglomerato di apparati di potere fragile che può essere politico, tecnico, sociale, economico. La classe politica nelle sue articolazioni svela la sua essenza incompetente di fronte a qualunque problema che vada oltre l'immediata tornata elettorale o il tamponare momentaneamente l'ennesima emergenza. Per quanto ogni nuovo rappresentante politico si dia una veste di verginità rispetto a chi lo ha preceduto, dietro le immediate promesse, si disvela una totale impreparazione a un pensiero strategico e complesso: lo abbiamo visto con la crisi siriana, lo vediamo con gli immigrati, lo subiamo con la crisi economica e oggi con la tragedia dei disastri che solo in parte sono naturali. Le illusioni che il cambiamento possa avvenire dentro e tramite i palazzi del potere possono essere più pericolose di chi quel potere lo gestisce da decenni. Perché ci riducono a spettatori passivi, a deleganti in attesa.
I Capi della Protezione Civile, destinati a riparare le emergenze più che a proteggere, sono totalmente impotenti di fronte a disastri da loro stessi annunciati e nulla possono di fronte al loro datore di lavoro, la Presidenza del Consiglio da cui dipende la loro stessa esistenza. I Capi degli Ordini Professionali, dagli Architetti agli Ingegneri, che pontificano oggi sui miracoli possibili della tecnica riescono a eclissarsi fra una tragedia e l'altra, con la speranza di qualche consulenza in più che forse arriverà ma solo per tamponare lo scandalo di turno.
Gli imprenditori dell'edilizia, i professionisti dei ribassi al trenta per cento, hanno dato l'ennesima prova, proprio nelle ristrutturazioni di scuole e campanili nella zona colpita, di come l'incompetenza si trasformi in speculazione aperta e assassina con la collusione di fatto dei poteri locali. E che dire degli scienziati del nostro Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che dopo la condanna per aver tranquillizzato la popolazione aquilana il giorno prima del terremoto, si sono rinchiusi in un sacrosanto silenzio e affermano che le loro previsioni non sono di alcuna utilità pratica?
La speranza che questi vertici possano sviluppare prevenzioni e cambiamenti è crollata. Eppure altre speranze sorgono forti appena lo sguardo viene volto altrove. Quando si incontra l'esempio delle vittime che sono diventate soccorritori quella stessa notte (come accadde all'Aquila), dei volontari che hanno combattuto contro la fatica e il rischio di morire per salvare vite umane, delle migliaia di persone che hanno organizzato e inviato aiuti, di tutti coloro che non hanno esitato a versare somme importanti per ricostruire ciò che è crollato, soprattutto il senso e la storia di quelle antiche comunità, ecco quando si incontrano questi esempi la speranza risorge perlomeno come sentimento. Ma da sentimento va trasformato in significato perché questa volta sappiamo, grazie all'esempio dell'Aquila, che anche questa straordinaria ondata di solidarietà verrà dispersa, se non si trasforma in cultura.
La prevenzione è un'opera strategica, complessa, che necessita di tecnici competenti e onesti, finanziamenti corposi e di lungo periodo, collaborazione e partecipazione attiva dei cittadini, visione e senso della vita, solidarietà e impegno disinteressati. La prevenzione può essere il frutto di una rivoluzione culturale che modifichi il rapporto fra stato e società civile. Nessuna delega per costruire e prevenire può essere lasciata in bianco, nessun euro versato può essere speso senza controllo. Non possiamo più avere una relazione di dipendenza nei confronti di una leadership statuale a cui delegare per poi lamentarsi; abbiamo invece bisogno di essere parte attiva, responsabile, consapevole se vogliamo uno stato che si ponga al servizio della società civile, che risponda alle committenze dirette di chi in quei luoghi ci vive, ci studia, ci lavora.
Oggi tutto ciò appare come un'utopia. Ma se vediamo la dignità di quelle popolazioni colpite a morte dalla natura impietosa e dalla sciagurata politica, se ne valorizziamo la loro gratitudine, se ci sintonizziamo con la loro volontà di ricostruire; se pensiamo che ogni tragedia annunciata ci riguarda tutti e che il bene comune comprende l'interesse individuale ma non sempre è vero il contrario; se pensiamo che tutto ciò sarebbe evitabile o comunque limitabile senza essere giapponesi; se in ogni atto di compravendita si chiedesse il certificato antisismico e non solo quello energetico (!); se ognuno di noi prima di abbattere un tramezzo si domandasse quali conseguenze potrebbe avere; se pensiamo ai nostri figli e alle friabili mura delle loro scuole, allora questo cambiamento appare imperativo. Attuare un'opera di prevenzione cambierebbe il nostro rapporto con la natura e le relazioni fra esseri umani. Non si tratta di un cambiamento politico, ma di un radicale e portentoso cambiamento culturale. La solidarietà dimostra che questo cambiamento ha un enorme potenziale. Ma fra il potenziale e la sua attuazione c'è un abisso da colmare. Come? Non so dare una risposta. Però so che possiamo impegnarci per trovarla insieme. Solo così potremo onorare la memoria di chi oggi è mancato e dare un senso a quello che è successo.