venerdì 29 aprile 2016

LA FACCIA DI BRONZO DEL BANCHIERE TEDESCO ANTI EURO



Il "dettaglio rivelatore", nell'intervista che Ferdinando Giugliano di Repubblica ha fatto al presidente della Bundesbank Jens Weidmann, è in poche parole. Rivelatore del fatto che il banchiere centrale tedesco non è attendibile nella sua analisi della situazione: e siccome sarebbe davvero azzardato ipotizzare che sia un incompetente, la spiegazione che resta è che deformi volutamente la realtà. Ossia, per dirla in modo più brutale, che è in malafede. Quindi non è attendibile, e le sue iniziative non possono essere giudicate per come le motiva, ma dalle conseguenze che possono provocare, che sono evidentemente il vero scopo a cui cerca di arrivare.
Qual è la frase? Weidmann ha ripetuto come la crisi "sia stata in gran parte una crisi di fiducia nella solidità delle finanze pubbliche". Questa fu la spiegazione che si dette allora, nel 2011-12, quando gli spread dei paesi in difficoltà si impennavano, cosa che fu usata per imporre loro le riforme reazionarie che piacevano - e piacciono - a Berlino, alla Bce e alla Commissione. Chi non era allineato alla politica dell'austerità avanzò da subito un'altra spiegazione: non era una crisi di fiducia nelle finanze pubbliche, ma una scommessa della speculazione sulla rottura dell'euro. Non essendoci più le diverse monete, si compravano i titoli pubblici dei paesi che, se l'euro avesse ceduto, tornando a una moneta nazionale avrebbero subito una rivalutazione (Germania innanzi tutto) e si vendevano i titoli dei paesi la cui moneta nazionale si sarebbe invece svalutata. Se fosse accaduto, chi avesse avuto i titoli del primo tipo avrebbe fatto un bel guadagno. Per inciso, è stato allora che i sistemi bancari dei paesi sotto attacco si sono riempiti di titoli del loro debito pubblico - quello di cui ora l'ineffabile Weidmann dice di preoccuparsi - perché nessun altro li avrebbe comprati.
Accenniamo solo al fatto che anche questo attacco speculativo era motivato dal comportamento dei tedeschi verso la crisi greca, che aveva fatto pensare che l'euro non avrebbe retto. Ciò che importa di più nel discorso è che l'interpretazione alternativa era quella corretta. La prova? La speculazione cessò d'incanto non appena il presidente della Bce Mario Draghi pronunciò la famosa frase "whatever it takes": faremo tutto quanto è necessario per difendere l'euro. Si badi bene, non per aiutare gli Stati in difficoltà (cosa peraltro vietata dallo statuto della Bce): per evitare la rottura dell'euro. Ormai nessuno, nemmeno gli economisti più "allineati", ha più il fegato di affermare che la speculazione era mossa dal timore dei default (a cui comunque, se continuava in quel modo, era probabile che si arrivasse). Nessuno, tranne il signor Weidmann.
Quanto è attendibile una persona che continua a sostenere una tesi palesemente falsa? Zero. E se non è attendibile in questo, non è attendibile neanche quando afferma che l'euro non è reversibile, come ha fatto nel suo discorso all'ambasciata tedesca. Tutte le sue mosse sono sempre state tese ad arrivare a una rottura e, come si è detto, bisogna giudicarlo dai fatti e non dalle parole.
Ora, bisogna dire che l'euro, nel contesto dei trattati e delle regole che guidano la Ue, è una pessima cosa. Se si voleva una moneta unica sarebbero state necessarie molte altre cose (condivisione dei rischi, trasferimenti fra Stati, una diversa politica economica e via enumerando) che non solo non sono all'orizzonte, ma sono o già vietate dalle norme in vigore o drasticamente avversate dai tedeschi e dai loro alleati. Quindi, se domattina l'euro sparisse per incanto, ci sarebbe da brindare. Purtroppo, però, gli incantesimi ci sono solo nelle favole e se questo accadrà, cosa niente affatto esclusa vista la politica suicida dell'Europa, saranno dolori. Il problema aggiuntivo è che le ricette di Weidmann rischiano concretamente di provocare questo evento nel modo peggiore, cioè in seguito a una crisi che non si riesce a fronteggiare. Se il presidente della Bundesbank ci tiene tanto a riavere il suo deutsche mark, faccia un'altra cosa: convinca il suo paese ad uscirne. Sarebbe la soluzione meno peggiore.

giovedì 28 aprile 2016

IL DEGRADO FIGLIO DEL RENZISMO



Buttata lì come spesso accade in maniera un po’ triviale, ridotta, al solito, a una semplice questione di denaro, la classica storia del sogno giovanile irrealizzabile, è comparsa sotto forma di notizia che il padre vorrebbe proibire al figlio ventottenne di partecipare a un corso di cinematografia a pagamento . Ma i sogni sono ancora possibili? Ci sono ancora dei giovani che coltivano con irrazionale, ma ferrea determinazione progetti, desideri alti e forti? Voglio sperare che ci siano ancora, ma onestamente credo che tra le molte cose che recentemente sono andate a definitiva sepoltura, l’Italia di Renzi abbia affossato quel che poco che restava dei nostri sogni.
Già prima lo spazio per i sogni era molto ristretto. In Italia per concepire dei sogni bisognava essere ricchi, molto ricchi, in più con tanti buoni amici e poi, si sa, i ricchi non sognano, già possono fare quello che gli altri sognano. Il resto, le persone normali da decenni hanno fatto un bagno non so quanto sano ma certamente molto profondo nel realismo dell’Italia di Craxi, Berlusconi e Prodi. I rivoluzionari non esistono più, o son finiti a frotte a riempire l’Ikea o qualche altro Megastore, al sabato pomeriggio. Se gli è andata bene si accontentano di qualche viaggetto in Estremo Oriente, tanto per rinfrescarsi.
La cultura – il sogno, il fattore rivoluzionario per eccellenza – ha cessato di essere considerata come un mezzo di emancipazione umana e sociale, meglio un bel corso per chef. Nel frattempo quanti che avevano fretta di comperarsi almeno un po’ dei molti gadget che riempiono il vuoto interiore che pure avvertono, hanno scelto la Bocconi e la finanza, senza tante domande e con qualche rinuncia (ma che importa?). Alla prova dei fatti anche il sogno più timido non è durato lo spazio di un mattino ed è naufragato senza nemmeno uscire dal porto.
Renzi avrà anche molte qualità, ma non rappresenta nessun sogno; nemmeno lo è la Boschi, nonostante il profilo (studiatissimo) da fatina buona. Gli uomini e le donne nuove che si portano dietro sono l’espressione di un realismo crudo, di una capacità di adattamento strepitosa a una giungla priva di regole, ottimi esempi di un trionfo (temporaneo) molto concreto, ma sono anche nello stesso tempo la negazione di ogni aspirazione ideale. Buoni per gli applausi e il consenso, totalmente diseducativi per un paese stufo dei praticoni di successo e che invece avrebbe molto bisogno di sogni e di sognatori, di gente che rischi per qualche progetto anche pazzesco. Un paese per il quale il realismo, la cura del proprio particolare da sempre ha costituito il maggior fattore di arretratezza, declino e povertà.
Chi restituirà qualche sogno agli italiani ai giovani italiani? Chi sarà in grado alimentare nuovamente quella tensione verso il difficile, l’impossibile, ma anche verso il grande e il bello, che soli qualificano le donne e gli uomini e danno possibilità a una collettività di crescere? «Vuoi continuare a vendere acqua zuccherata per il resto della tua vita o venire con me a cambiare il mondo?» Nulla è potente e forte come i sogni. Chi cerca i sogni poi trova anche il resto. Senza sogni non c’è nulla, non c’è la politica, ma certamente non c’è nemmeno la speranza di una condizione economica migliore. Non sono le facoltà alla moda, i lavori modello «disposto a tutto» che faranno un giovane ricco e migliore, ma i suoi sogni, la forza dei suoi sogni. Senza sogni non c’è ricchezza, almeno quella vera…(anche sottoforma di un corso di cinematografia). Viva i sogni!

martedì 26 aprile 2016

6 BUONE RAGIONI PER OPPORSI ALLA RIFORMA DEL SENATO



Di fronte alla prospettiva di sottoporre a referendum la legge modificativa della Costituzione, e, in specie, alla possibilità di superare il cosiddetto bicameralismo perfetto attribuendo alla sola Camera dei deputati il compito di dare o revocare la fiducia al Governo i costituzionalisti hanno detto no.
"Pur essendo noi convinti dell'opportunità di interventi riformatori che investano l'attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l'orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l'anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell'appannamento di alcuni dei criteri portanti dell'impianto e dello spirito della Costituzione".
Questo parte del del PDF firmato da autorevoli costituzionalisti come Enzo Cheli, Valerio Onida, Ugo De Siervo, Gianmaria Flick, Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassarre, Antonio Baldassarre, Francesco Paolo Casavola, Andrea Manzella, Guido Neppi Modona, Luigi Mazzella, Paolo Maddalena.
Ma perché questa grande preoccupazione sul testo della riforma? Cosa non convince i costituzionalisti? L'abbiamo schematizzato per voi:
1) Perché il testo della riforma si presenta come risultato raggiunto da una maggioranza parlamentare anziché di un consenso maturato fra le forze politiche. Il fatto che esso sia poi sottoposto addirittura ad un referendum per approvazione si presenta come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica del Governo con il rischio di strumentalizzare (ancora una volta) il referendum. La Costituzione, non è (e non dovrebbe essere) espressione di un indirizzo di governo o del prevalere di alcune forze politiche su altre ma espressione delle reali esigenze del Paese. Già nel 2001 la riforma del titolo V (approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza) e avallata poi dal referendum, è stato riconosciuto da molti come un errore... Non si dovrebbe imparare, forse, dal passato?
2) Perché l'obiettivo di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto e l'attribuzione alla sola Camera dei Deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo darebbe vita ad un Senato estremamente indebolito.
3) Perché si andrebbero a configurare una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle modalità di intervento del Senato con evidenti rischi di incertezze e conflitti.
4) Perché alle Regioni verrebbe tolto quasi ogni spazio di competenza legislativa, rendendole prive di reale autonomia anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l'ordinamento delle sole Regioni speciali!). Non è stato infatti considerato che manca una coerente legislazione statale di attuazione del riparto di competenze Stato-Regioni. Si tende, sostanzialmente, (a soli quindici anni di distanza dalla riforma del 2001 ) a rovesciare l'impostazione attuale di decentramento "stato-regioni" con il conseguente svilimento del sistema.
5) Perché il buon funzionamento delle istituzioni non è un problema di costi bensì di equilibrio fra organi diversi che non si può risolvere tout court limitando il numero di senatori e sopprimendo tutte le Province. Non bisognerebbe, forse, rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica per ridurre i costi?
6) Perché l'elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell'altro, ragioni politiche estranee al merito della legge: se invece ci fosse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati non sarebbe, forse, un voto più ragionato ed opportuno?

lunedì 25 aprile 2016

I NUMERI DI PADOAN NON TORNANO A UE E FMI



Secondo Pier Carlo Padoan va tutto bene.
L’ha ripetuto anche davanti al parlamento.
In audizione per illustrare il Documento di economia e finanza (Def), ha scandito: «Nel 2015, dopo tre anni consecutivi di contrazione, l'economia italiana è tornata a crescere e nel 2016 la ripresa continuerà e si consoliderà».
E ancora: «l'occupazione sale», «i conti pubblici migliorano», «la pressione fiscale scende», il tutto «grazie a una politica fiscale rigorosa e misure espansive e riforme strutturali» messe in campo dall’esecutivo.
In estrema sintesi, non c'è di che lamentarsi.
Anche se i maggiori centri di ricerca nazionale, le parti sociali e gli organismi internazionali temono un nuovo rallentamento.
UN RENZI DA ''DOMARE''. La parola d’ordine in via XX settembre è galleggiare.
E farlo fare l’Italia, che cresce meno dei Paesi più sviluppati.
Bisogna poi dimostrare all'Unione europea che la spinta propulsiva del governo di Matteo Renzi non ha rallentato come il Prodotto interno lordo (Pil) del Paese.
Ma anche convincere il proprio premier a limitare le intemerate contro Bruxelles o frenare l’attivismo dei troppi ministeri dell’economia paralleli (il tavolo del professor Tommaso Nannicini, Tito Boeri all’Inps, mister spending review Yoram Gutgeld) capaci per ora soltanto di fare proposte di spesa che non piacciono all'Ue.
CERTEZZA OSTENTATA. In quest’ottica occorre - contemporaneamente - tranquillizzare i mercati e spingere tutte le forze dell'Italia a fare quadrato intorno al governo.
Pure per questo un uomo prudente come Pier Carlo Padoan deve fare, come ha fatto in parlamento, professione di ottimismo, a ostentare certezze su stime che, come tali, rischiano di essere riviste al ribasso.
Prendiamo l’indicatore principe, il Pil.
Nell’ultimo Def il Renzi ha abbassato la previsione sulla crescita all’1,6 all’1,2%.
Padoan aveva spiegato che questa percentuale scontava sia la crisi internazionale sia gli effetti del rallentamento della seconda metà del 2015.
Ma in Aula si è detto ottimista perché l’economia ha retto dall’inizio del 2016.

L'ottimismo non convince l'economista Giuseppe Pisauro.
Nella relazione sul Def pubblicato dal suo Ufficio parlamentare di bilancio si legge: «L’eventuale emergere di sorprese negative sul fronte della crescita reale e dell'inflazione metterebbe a rischio la dinamica del Pil nominale e, con essa, il percorso di abbassamento del rapporto debito/Pil».
Deflazione e rallentamento del Pil rischiano di mettere a rischio un Paese come l’Italia, che attende ancora di riconvertire la sua economia.
MARGINI NON AMPI. Per questo motivo Bankitalia, confermando con riserva le stime del Def, ha avvertito il governo di «avere margini non molto ampi».
Mentre due realtà diverse come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e l’agenzia di rating Fitch hanno stimato una crescita dell’1% per il 2016.
Stessa ipotesi anche da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), che ha aggiunto un’incognita in più: il peso delle sofferenze bancarie che potrebbe bloccare i meccanismi di finanziamento a famiglie e imprese.
BRUXELLES CI RICHIAMA. Il primo campanello d’allarme era arrivato a febbraio 2016 da Bruxelles.
Quando ancora il governo stimava il Pil a +1,6%, l'Ue aveva parlato di un più magro +1,4 per l’anno in corso.
Tanto che il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, consigliava a Roma di incentivare gli investimenti.
Ma lo stesso balletto di cifre si registra sui numeri del Pil del 2017: il governo, con la sola Banca d’Italia a dargli manforte, ipotizza una crescita di +1,4%.
Pessimisti invece il Fondo monetario (+1,1%) e l'Unione europea (+1,3), secondo la quale «la caduta dei prezzi del petrolio e una posizione di bilancio espansiva sosterranno la domanda e compenseranno il rallentamento degli export». 
C’è un altra variante da non sottovalutare: il congelamento delle clausole di salvaguardia, per non far scattare l’aumento dell’Iva: 15 miliardi per il 2017 e circa 20 miliardi per i due anni successivi.
Una partita doppiamente complessa: vanno reperite risorse che oggi mancano e, come ha rilevato Bankitalia, «comporterà una perdita di gettito di 15,1 miliardi nel 2017 e di altri 4,5 nel 2018».
Questi numeri sono centrali per rispettare i parametri di Maastrict e, soprattutto, il pareggio di bilancio e il rientro del debito di un ventesimo all’anno previsto dal Fiscal compact.
NETTO RALLENTAMENTO. Sul versante del deficit/Pil Padoan ha stimato un rapporto del 2,3% nel 2016 e dell’1,8 nel 2017.
Soltanto nel settembre 2015 questi valori erano rispettivamente del 2,2 e dell’1,1%.
Peggioramento nelle previsioni anche per il debito pubblico: ad aprile il Tesoro aveva comunicato, per il 2016 e il 2017, un valore in rapporto con il Pil pari al 131,4 e al 127,9%.
Nell’ultimo Def il governo ha denunciato un preoccupante rallentamento rispetto agli impegni presi in Europa: debito/Pil al 132,4% quest’anno e 130,9 nel prossimo.
DIFFICILE CHIEDERE FLESSIBILITÀ. Con questa tendenza sarà difficile chiedere in Europa ulteriore flessibilità sui conti pubblici, dopo lo 0,9% messo in bilancio nell’ultima Manovra.
Ma senza un ulteriore sconto, ha chiarito la Corte dei conti, l’Italia potrebbe anche implodere. Nonostante tutto questo, e con Bruxelles che non ha ancora autorizzato lo sforamento legato agli investimenti, Padoan ostenta ottimismo.
In parlamento ha prima spiegato che «la variazione del saldo strutturale ora prevista costituisce una deviazione non tale però da essere definita significativa, quindi compatibile con quanto previsto dal braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita».
Dunque ha respinto al mittente le richieste della Commissione, forse nella speranza che il tagliando da fare entro l’anno al Fiscal compact possa farci ottenere condizioni migliori.
Per il momento quel che è certo è che «l’obiettivo di medio termine per i Paesi con debito superiore al 60% del Pil richiederebbe che il saldo migliorasse di 0,5 punti percentuali: il governo ritiene inopportuno e controproducente operare una tale stretta».
NO A MANOVRE BIS. Roma ha intenzione di chiedere ulteriore flessibilità e dirà no alle richieste da Bruxelles di manovra bis per evitare «ulteriori spinte recessive e peggiorare la crescita e la sostenibilità dei conti pubblici».
Ma andrà davvero così? È trapelata la notizia che Bruxelles dovrebbe mostrarsi generosa per il 2016, salvo chiedere all’Italia di far scendere il deficit/Pil nel 2017 all’1,1%.
Il che si tradurrebbe in una Manovra vicina ai 40 miliardi di euro per disinnescare le clausole di salvaguardia.
GUFI INTERNAZIONALI. La velocità della ripresa italiana, poi, non fa ben sperare.
Secondo il Fmi il pareggio di bilancio non avverrà prima del 2021.
Per il 2016 prevede che il deficit/Pil arrivi al 2,7% e il debito al 133%; per il 2017, rispettivamente, il disavanzo sarà dell’1,6% e il passivo del 131,7% sul Pil.
Nell'autunno del 2015 Bruxelles, invece, indicava un deficit/Pil al 2,3% nel 2016 e all'1,6 12 mesi dopo.
Quasi in linea con quelle del governo le stime sul debito: 132,4 del Pil per l’anno in corso, 130,6% nel 2017.
Padoan ha confermato gli impegni e replicato al Fmi di «non tenere in giusta considerazioni gli effetti del nostro Piano di privatizzazioni».
DEBITO DA RIDURRE. Bankitalia però gli ha suggerito un migliore «monitoraggio costante dei conti pubblici per garantire il raggiungimento dell'obiettivo di riduzione del debito».
Senza dimenticare che, «se si vuole mantenere e consolidare la fiducia dei mercati è importante conseguire, nel corso del tempo, una riduzione del debito chiara, visibile e progressiva».
Tradotto, «completare il programma di riforme credibilmente avviato, a sostegno delle prospettive di sviluppo dell'economia».
Sempre Padoan ha legato alla ripresa e al raggiungimento degli obiettivi «la riduzione del carico fiscale associato a una costante spending review».
Ma da Washington il Fondo monetario ha chiesto a Roma maggiori sforzi.
«Per sostenere la crescita e creare lavoro», ha spiegato Gian Maria Milesi-Ferretti, vice direttore delle ricerche del Fmi, «l’Italia dovrebbe ridurre il cuneo fiscale e le tasse distorsive. Quando i margini della politica tradizionale sono limitati questa è da sempre una strada da seguire per sostenere la crescita».
Nel Def il governo annuncia di voler portare la pressione fiscale sotto di 0,7 punti percentuali, per raggiungere quota 42,8% del Pil, «considerando il bonus 80 euro».
Secondo l'Ue l’Italia sarà al 43,7%, con poco meno di mille euro d’imposte rispetto alla media dell’intera eurozona.
MINACCIA DEL CUNEO. A Bankitalia questi numeri non tornano: in un’audizione davanti alla Camera il direttore Federico Signorini ha spiegato: «La pressione fiscale è diminuita dal 43,2% del 2014 al 42,9% nel 2015; è tuttavia rimasta superiore, per circa 2,5 punti percentuali, alla media registrata nel decennio precedente la crisi dei debiti sovrani».
Perciò andrebbe «considerata con attenzione l'opportunità di prevedere riduzioni permanenti del cuneo fiscale, a beneficio della crescita dell'occupazione».
DUBBI SUL JOBS ACT. Su questo versante, invece, il governo italiano si mostra cauto: stando al Def il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere quest’anno all’11,4%, per poi calare sotto il 10% soltanto nel 2019.
Numeri in linea anche con le stime dell'Ue, mentre la Banca d’Italia avverte che, nel breve termine, il Jobs act vale un calo di soltanto tre decimali.