lunedì 25 aprile 2016

I NUMERI DI PADOAN NON TORNANO A UE E FMI



Secondo Pier Carlo Padoan va tutto bene.
L’ha ripetuto anche davanti al parlamento.
In audizione per illustrare il Documento di economia e finanza (Def), ha scandito: «Nel 2015, dopo tre anni consecutivi di contrazione, l'economia italiana è tornata a crescere e nel 2016 la ripresa continuerà e si consoliderà».
E ancora: «l'occupazione sale», «i conti pubblici migliorano», «la pressione fiscale scende», il tutto «grazie a una politica fiscale rigorosa e misure espansive e riforme strutturali» messe in campo dall’esecutivo.
In estrema sintesi, non c'è di che lamentarsi.
Anche se i maggiori centri di ricerca nazionale, le parti sociali e gli organismi internazionali temono un nuovo rallentamento.
UN RENZI DA ''DOMARE''. La parola d’ordine in via XX settembre è galleggiare.
E farlo fare l’Italia, che cresce meno dei Paesi più sviluppati.
Bisogna poi dimostrare all'Unione europea che la spinta propulsiva del governo di Matteo Renzi non ha rallentato come il Prodotto interno lordo (Pil) del Paese.
Ma anche convincere il proprio premier a limitare le intemerate contro Bruxelles o frenare l’attivismo dei troppi ministeri dell’economia paralleli (il tavolo del professor Tommaso Nannicini, Tito Boeri all’Inps, mister spending review Yoram Gutgeld) capaci per ora soltanto di fare proposte di spesa che non piacciono all'Ue.
CERTEZZA OSTENTATA. In quest’ottica occorre - contemporaneamente - tranquillizzare i mercati e spingere tutte le forze dell'Italia a fare quadrato intorno al governo.
Pure per questo un uomo prudente come Pier Carlo Padoan deve fare, come ha fatto in parlamento, professione di ottimismo, a ostentare certezze su stime che, come tali, rischiano di essere riviste al ribasso.
Prendiamo l’indicatore principe, il Pil.
Nell’ultimo Def il Renzi ha abbassato la previsione sulla crescita all’1,6 all’1,2%.
Padoan aveva spiegato che questa percentuale scontava sia la crisi internazionale sia gli effetti del rallentamento della seconda metà del 2015.
Ma in Aula si è detto ottimista perché l’economia ha retto dall’inizio del 2016.

L'ottimismo non convince l'economista Giuseppe Pisauro.
Nella relazione sul Def pubblicato dal suo Ufficio parlamentare di bilancio si legge: «L’eventuale emergere di sorprese negative sul fronte della crescita reale e dell'inflazione metterebbe a rischio la dinamica del Pil nominale e, con essa, il percorso di abbassamento del rapporto debito/Pil».
Deflazione e rallentamento del Pil rischiano di mettere a rischio un Paese come l’Italia, che attende ancora di riconvertire la sua economia.
MARGINI NON AMPI. Per questo motivo Bankitalia, confermando con riserva le stime del Def, ha avvertito il governo di «avere margini non molto ampi».
Mentre due realtà diverse come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e l’agenzia di rating Fitch hanno stimato una crescita dell’1% per il 2016.
Stessa ipotesi anche da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), che ha aggiunto un’incognita in più: il peso delle sofferenze bancarie che potrebbe bloccare i meccanismi di finanziamento a famiglie e imprese.
BRUXELLES CI RICHIAMA. Il primo campanello d’allarme era arrivato a febbraio 2016 da Bruxelles.
Quando ancora il governo stimava il Pil a +1,6%, l'Ue aveva parlato di un più magro +1,4 per l’anno in corso.
Tanto che il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici, consigliava a Roma di incentivare gli investimenti.
Ma lo stesso balletto di cifre si registra sui numeri del Pil del 2017: il governo, con la sola Banca d’Italia a dargli manforte, ipotizza una crescita di +1,4%.
Pessimisti invece il Fondo monetario (+1,1%) e l'Unione europea (+1,3), secondo la quale «la caduta dei prezzi del petrolio e una posizione di bilancio espansiva sosterranno la domanda e compenseranno il rallentamento degli export». 
C’è un altra variante da non sottovalutare: il congelamento delle clausole di salvaguardia, per non far scattare l’aumento dell’Iva: 15 miliardi per il 2017 e circa 20 miliardi per i due anni successivi.
Una partita doppiamente complessa: vanno reperite risorse che oggi mancano e, come ha rilevato Bankitalia, «comporterà una perdita di gettito di 15,1 miliardi nel 2017 e di altri 4,5 nel 2018».
Questi numeri sono centrali per rispettare i parametri di Maastrict e, soprattutto, il pareggio di bilancio e il rientro del debito di un ventesimo all’anno previsto dal Fiscal compact.
NETTO RALLENTAMENTO. Sul versante del deficit/Pil Padoan ha stimato un rapporto del 2,3% nel 2016 e dell’1,8 nel 2017.
Soltanto nel settembre 2015 questi valori erano rispettivamente del 2,2 e dell’1,1%.
Peggioramento nelle previsioni anche per il debito pubblico: ad aprile il Tesoro aveva comunicato, per il 2016 e il 2017, un valore in rapporto con il Pil pari al 131,4 e al 127,9%.
Nell’ultimo Def il governo ha denunciato un preoccupante rallentamento rispetto agli impegni presi in Europa: debito/Pil al 132,4% quest’anno e 130,9 nel prossimo.
DIFFICILE CHIEDERE FLESSIBILITÀ. Con questa tendenza sarà difficile chiedere in Europa ulteriore flessibilità sui conti pubblici, dopo lo 0,9% messo in bilancio nell’ultima Manovra.
Ma senza un ulteriore sconto, ha chiarito la Corte dei conti, l’Italia potrebbe anche implodere. Nonostante tutto questo, e con Bruxelles che non ha ancora autorizzato lo sforamento legato agli investimenti, Padoan ostenta ottimismo.
In parlamento ha prima spiegato che «la variazione del saldo strutturale ora prevista costituisce una deviazione non tale però da essere definita significativa, quindi compatibile con quanto previsto dal braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita».
Dunque ha respinto al mittente le richieste della Commissione, forse nella speranza che il tagliando da fare entro l’anno al Fiscal compact possa farci ottenere condizioni migliori.
Per il momento quel che è certo è che «l’obiettivo di medio termine per i Paesi con debito superiore al 60% del Pil richiederebbe che il saldo migliorasse di 0,5 punti percentuali: il governo ritiene inopportuno e controproducente operare una tale stretta».
NO A MANOVRE BIS. Roma ha intenzione di chiedere ulteriore flessibilità e dirà no alle richieste da Bruxelles di manovra bis per evitare «ulteriori spinte recessive e peggiorare la crescita e la sostenibilità dei conti pubblici».
Ma andrà davvero così? È trapelata la notizia che Bruxelles dovrebbe mostrarsi generosa per il 2016, salvo chiedere all’Italia di far scendere il deficit/Pil nel 2017 all’1,1%.
Il che si tradurrebbe in una Manovra vicina ai 40 miliardi di euro per disinnescare le clausole di salvaguardia.
GUFI INTERNAZIONALI. La velocità della ripresa italiana, poi, non fa ben sperare.
Secondo il Fmi il pareggio di bilancio non avverrà prima del 2021.
Per il 2016 prevede che il deficit/Pil arrivi al 2,7% e il debito al 133%; per il 2017, rispettivamente, il disavanzo sarà dell’1,6% e il passivo del 131,7% sul Pil.
Nell'autunno del 2015 Bruxelles, invece, indicava un deficit/Pil al 2,3% nel 2016 e all'1,6 12 mesi dopo.
Quasi in linea con quelle del governo le stime sul debito: 132,4 del Pil per l’anno in corso, 130,6% nel 2017.
Padoan ha confermato gli impegni e replicato al Fmi di «non tenere in giusta considerazioni gli effetti del nostro Piano di privatizzazioni».
DEBITO DA RIDURRE. Bankitalia però gli ha suggerito un migliore «monitoraggio costante dei conti pubblici per garantire il raggiungimento dell'obiettivo di riduzione del debito».
Senza dimenticare che, «se si vuole mantenere e consolidare la fiducia dei mercati è importante conseguire, nel corso del tempo, una riduzione del debito chiara, visibile e progressiva».
Tradotto, «completare il programma di riforme credibilmente avviato, a sostegno delle prospettive di sviluppo dell'economia».
Sempre Padoan ha legato alla ripresa e al raggiungimento degli obiettivi «la riduzione del carico fiscale associato a una costante spending review».
Ma da Washington il Fondo monetario ha chiesto a Roma maggiori sforzi.
«Per sostenere la crescita e creare lavoro», ha spiegato Gian Maria Milesi-Ferretti, vice direttore delle ricerche del Fmi, «l’Italia dovrebbe ridurre il cuneo fiscale e le tasse distorsive. Quando i margini della politica tradizionale sono limitati questa è da sempre una strada da seguire per sostenere la crescita».
Nel Def il governo annuncia di voler portare la pressione fiscale sotto di 0,7 punti percentuali, per raggiungere quota 42,8% del Pil, «considerando il bonus 80 euro».
Secondo l'Ue l’Italia sarà al 43,7%, con poco meno di mille euro d’imposte rispetto alla media dell’intera eurozona.
MINACCIA DEL CUNEO. A Bankitalia questi numeri non tornano: in un’audizione davanti alla Camera il direttore Federico Signorini ha spiegato: «La pressione fiscale è diminuita dal 43,2% del 2014 al 42,9% nel 2015; è tuttavia rimasta superiore, per circa 2,5 punti percentuali, alla media registrata nel decennio precedente la crisi dei debiti sovrani».
Perciò andrebbe «considerata con attenzione l'opportunità di prevedere riduzioni permanenti del cuneo fiscale, a beneficio della crescita dell'occupazione».
DUBBI SUL JOBS ACT. Su questo versante, invece, il governo italiano si mostra cauto: stando al Def il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere quest’anno all’11,4%, per poi calare sotto il 10% soltanto nel 2019.
Numeri in linea anche con le stime dell'Ue, mentre la Banca d’Italia avverte che, nel breve termine, il Jobs act vale un calo di soltanto tre decimali.