mercoledì 30 dicembre 2015

SONO IN AUMENTO GLI ULTRA 65ENNI CON PATOLOGIE INVALIDANTI. L’IMPATTO DELLA CRISI SULLA SPERANZA DI VITA IN BUONA SALUTE.



La notizia è una di quelle che non può scivolare via in silenzio: secondo l’Istat nei primi otto mesi del 2015 in Italia vi sono stati 45.000 decessi in più di quelli verificatisi durante lo stesso periodo nel 2014; se questo trend continuerà il 2015 si concluderà con ben 67.000 morti in più dello scorso anno. Gli esperti di statistica sostengono che un aumento comparabile si era verificato, fino ad ora, solo nel 1943 in pieno periodo bellico. I dati forniti dall’Istat risulterebbero, ad una prima osservazione, del tutto incomprensibili anche perché nei due anni precedenti, tra il 2012 e il 2014 il numero dei decessi/anno era diminuito: meno 4.000 tra il 2014 e il 2013. Non solo. Secondo i dati forniti sempre dalla medesima fonte, l’attesa di vita nel nostro Paese lo scorso anno era ancora aumentata, seppur leggermente, giungendo per gli uomimi a 80,2 anni e per le donne a 84,9; dato confermato da un recente documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che colloca l’Italia al secondo posto al mondo con un’ aspettativa di vita media di 83 anni, dietro al Giappone che raggiunge quota 84.
Di fronte a questi dati, da più parti si è ipotizzato un errore dell’Istat; ma alla vigilia di Natale la Toscana ha comunicato che fino al 31 agosto i decessi negli ospedali della regione sono aumentati del 7.5% rispetto a quelli verificatisi nel medesimo periodo lo scorso anno. I decessi ospedalieri sono utilizzati dall’Istat come un indicatore valido per comprendere l’andamento della mortalità generale e sembrano confermare quanto rilevato dai ricercatori a livello nazionale.
Per cercare una spiegazione da più parti si sono indicate due ragioni: la diminuzione di coloro che, spaventati dalle polemiche su un’ipotetica pericolosità, lo scorso inverno hanno scelto di non sottoporsi alla vaccinazione contro l’influenza stagionale; e una crescita della mortalità connessa all’aumento del numero delle persone anziane viventi. Ma le medesime fonti attribuiscono, al massimo, alle due ipotetiche cause citate rispettivamente la responsabilità di 8.000 e 15.000 morti/anno in più; la loro somma arriverebbe a giustificare circa un terzo dell’aumento totale di decessi previsto al 31 dicembre 2015. Rimarrebbe quindi il mistero.
Ma forse è possibile trovare qualche spiegazione per comprendere quanto si sta verificando e se queste fossero vere non ne discenderebbero buone nuove per il nostro futuro.
Infatti, secondo il rapporto dell’Ocse Health at Glance 2015 (Uno sguardo sulla salute nel 2015) in Italia “l’aspettativa di vita in buona salute per la popolazione sopra i 65 anni” è tra le più basse tra i Paesi analizzati. Questo indicatore, utilizzato da tutte le principali agenzie internazionali attive nel settore della salute, indica gli anni che una persona ultrasessantacinquenne può vivere senza avere limitazioni significative nelle attività quotidiane; in sostanza ci dice per quanto tempo una persona, superati i 65 anni, è ancora autonoma. In Italia per l’Ocse non solo questo indicatore è estremamente basso, ma il suo trend nell’ultimo anno risulta in caduta libera; dato confermato da altre recenti ricerche svolte a livello nazionale.
Un peggioramento della qualità di vita degli anziani implica un aumento del fabbisogno di assistenza, dalla fisioterapia alle cure dentarie alle terapie farmacologiche in campo neurologico, solo per fare degli esempi; ma secondo diverse inchieste, non ultima quella realizzata da Altroconsumo (cfr. “Sanità, il governo conferma che solo i ricchi potranno curarsi”) sono proprio questi gli interventi medico-sanitari ai quali, sotto i colpi della crisi economica, ha rinunciato il 46% delle famiglie italiane. Ma non è solo questo; ci troviamo di fronte a un circolo vizioso: infatti non è difficile immaginare che parte degli ultrasessantacinquenni, che hanno perso nell’ultimo anno la loro autonomia nella vita quotidiana, non abbiano avuto la possibilità economica di accedere a terapie che avrebbero permesso loro di permanere più a lungo in una situazione di autosufficienza. Una situazione quindi che si autoalimenta e destinata, in assenza di interveni correttivi, ad aggravarsi.
Se consideriamo che i dati Ocse, sul peggioramento delle condizioni di salute degli ultrasessantacinquenni fotografano la situazione del 2014, mentre quelli Istat, sull’aumento della mortalità, si riferiscono ai primi otto mesi del 2015 non è azzardato, partendo da una successione temporale dei due rilevamenti, immaginare anche una consequenzialità causale.
L’analisi che l’Istat condurrà nei prossimi mesi sulle cause dei decessi e sulla loro stratificazione per fasce di popolazione ci forniranno delle spiegazioni più esaurienti, ma, se l’ipotesi qui illustrata fosse confermata, staremmo assistendo ai primi documentati effetti dell’impatto della crisi economica sullo stato di salute della popolazione italiana, effetti destinati a peggiorare ulteriormente e ad aggravarsi sotto l’incedere dei tagli alla sanità decisi dal governo.

martedì 29 dicembre 2015

LA PIU’ BELLA STORIA DI NATALE. LA FAVOLA VERA DI JOHN KEATS



Gli occhi chiusi, la mano destra contro la parete, quasi la casa palpitasse: investito dalla luce di fine estate che nuota verso di lui dalle ampie vetrate di Wentworth Place, Keats ausculta, al di là del muro, l'impercettibile sublime fremito di quello che lui sa essere un fiato. Dietro, nella stanza accanto, c'è Fanny. Anche lei, come una rabdomante invasata, poggia la mano sul muro, e ausculta. Tacciono. In quel silenzio respirato, ognuno di loro è certo, e immensamente riempito, della presenza dell'altro. Sono passati ventuno mesi da quando John Keats era arrivato per la prima volta nel cottage dove Fanny viveva con sua madre vedova, Frances Brawne, e i suoi due fratellini. Tre giorni dopo il Natale del 1818, il 28 di dicembre, i due si incontrano. In realtà si conoscono già: a una festa, qualche mese prima, John e Fanny avevano scambiato qualche parola. L'impressione era stata negativa per entrambi: a lei, quel giovane che sognava di diventare uno scrittore era sembrato eccessivamente svagato e ombroso, perso tra fantasticherie sterili e l'angoscia per il fratello malato; e Keats aveva trovato Fanny frivola, tutta dedita a balli e ricami.
Ma adesso, nella cornice dolce e nevosa di un dicembre fiabesco, quei due ragazzi si vedono davvero negli occhi, dietro le maschere che avevano diffratto le loro identità; ora bastano poche ore, una manciata di frasi, uno sguardo - e i due si riconoscono. Lei si accorge di un cuore di angelo e di una mente di genio, di un volto incorniciato da soffici ricci e illuminato da occhi così brillanti da commuovere, due fessurine d'etere in cui il mondo si riflette come l'effetto di una magia: nessuno, mai, le aveva parlato a quel modo. In presenza di John lei si sente viva, compresa. E lui la adora: lei è la prima ad ascoltare davvero i suoi sogni, le sue teorie sulla poesia, gli strazi e il brillare della sua anima ipersensibile per ogni cosa; e poi Fanny è bellissima, animata da un'intelligenza curiosa e viva, dolce, attenta. Ogni cosa che lei dice a lui sembra un incantesimo meraviglioso. Il loro è un amore fatto di sospiri e parole tenere, di carezze tenui e sguardi rapiti, di baci donati tra i gladioli e i susini del giardino. Vivono a pochi metri di distanza, perché John è venuto ad abitare in affitto in una parte della casa insieme al suo amico Charles. Mentre il 1818 finisce, John Keats crede di aver finalmente trovato quella ispirazione poetica che da anni cercava. L'ha trovata in Fanny.
In lei che sente essere il suo destino. Ora scrive capolavori con la stessa naturalezza con cui sbocciano i gladioli: versi perfetti, gravidi di sentimenti sovrumani, un canto commovente, meravigliato e straziato, sul perdersi dell'uomo nella bellezza delle cose del cosmo. Con la grazia di un cherubino smarritosi sui sentieri di granito della terra, Keats riesce finalmente a descrivere la verità della bellezza. Ed è felice. Per la prima volta in vita sua, è felice. Una felicità che riverbera in quella di Fanny, luce nella luce. Ma per la madre di lei quel bagliore negli occhi della figlia è fonte d'ansia. John non ha di che vivere, né sostanze. Nessuna proprietà, nessuna famiglia. Nessun futuro. Non possono sposarsi. Se la loro storia dovesse continuare e poi finire, nessuno vorrà più prendere una donna che si è tanto apertamente dichiarata a un altro. E poi, soprattutto: Keats sta male. Lo affliggono spesso forti febbri, e una tosse tanto insistente da togliergli il fiato. Charles e gli altri amici di John ne sono certi: a ridurlo in quello stato è stata lei, Fanny, la ragazza sciocca e frivola, la sarta senza istruzione e non alla sua altezza, la sciacquetta; la sua malsana passione per lei l'ha divorato, l'ha distratto dal suo impegno con la letteratura, minando la sua costituzione cagionevole. John è consapevole che i suoi amici si sbagliano.
Si sbagliano su Fanny, che l'ha reso un poeta perché gli ha mostrato cosa significhi amare; e si sbagliano sull'eziologia del suo male. Prima di essere folgorato da Shakespeare e decidere di diventare uno scrittore, Keats aveva studiato da infermiere. Era stato al capezzale di suo fratello Tom per mesi, e gli era morto tra le braccia. Sa benissimo che cos'ha. Quando per la prima volta il 3 di febbraio del 1820 tossisce e il suo fazzoletto si sporca di sangue, ne ha la conferma: è tisi. John capisce che il tempo che gli resta è poco. Realizza che morirà. Deve andarsene, lasciare Fanny. Subito. Per la soddisfazione dei suoi amici e per la serenità della madre di lei. In giugno, si trasferisce a Kentish Town, un quartiere poche miglia lontano. Ma non resiste. I primi giorni d'agosto, febbricitante, cammina due ore sotto la pioggia e arriva nel giardino del cottage a Wentworth Place. E lì sviene. Lo portano in casa, lo curano. Di lì a poco, Frances capisce che non può disintegrare quel bagliore che a Fanny si accende negli occhi quando guarda John. "Sposalo, figlia mia, se davvero lo ami tanto. Curiamolo, salviamolo, e poi sposalo". Ma non lo possono salvare. La malattia è troppo avanzata. L'amore e le cure di Fanny non bastano. John si sta allontanando: la tisi lo porta alla deriva, verso l'orizzonte della morte, e Fanny resta a riva, amante impotente e lacrimante di fronte all'invincibile corrente. I medici scuotono il campo, non lasciano spazio alla speranza nella diagnosi.
Il poeta non sopravviverà a un altro inverno inglese. La sua unica possibilità è partire verso climi più miti. L'Italia: Roma. Però Fanny non può andare con lui: inconcepibile per una donna non sposata accompagnare un uomo in un paese straniero. Ci va il suo amico Severn. La notte precedente la partenza John e Fanny, ognuno nella propria stanza, poggiano le mani alla parete sapendo che, di là, c'è l'amore della loro vita. In silenzio, respirano, auscultandosi i fiati dietro il muro che li separa. Ventiseienne, in un appartamento di Piazza di Spagna, dopo un viaggio di dolori e una terribile agonia in cui non riusciva neanche più ad aprire le lettere che gli arrivavano da Fanny, John Keats moriva il 23 febbraio del 1821. Il pensiero rivolto al lei, sentiva di dissolversi, profuso nelle cose del mondo: l'aria profumata e tenue del tardo inverno romano, la musica della fontana poco lontana, l'abisso dei cieli che troppo presto lo invocava a sé. È convinto di morire prima di poter scrivere alcunché di degno; è convinto di morire dimenticato, come uno il cui nome fu scritto nell'acqua. È convinto di non rimanere in nulla, se non nel cuore di lei. Keats non ha idea, spirando tra spasimi al petto e colpi di tosse, che diventerà un mito per la futura generazione dei Preraffaelliti e il simbolo stesso della poesia romantica.

lunedì 28 dicembre 2015

L’ITALIA HA QUALCOSA DA INSEGNARE IN POLITICA? PURTROPPO NO.



Circola in Italia la tesi che il nostro Paese sia all’avanguardia nel ristrutturare le sue compagini politiche, quelli che una volta erano i partiti, secondo i venti nuovi che soffiano in Europa.
Poiché l’ultima e forse l’unica volta che siamo stati all’avanguardia in queste materie, benché fosse quasi un secolo fa, abbiamo dovuto poi pentircene amaramente,  può essere interessante guardare un po’ dentro questo nuovo “avanguardismo” che il voto spagnolo ha rilanciato. A Madrid abbiamo degli allievi!
L’avanguardia italiana sarebbe determinata dal fatto che più degli altri e prima degli altri disegniamo formazioni politiche dai contorni nuovi che vanno oltre quelli degli have and have not, o presunti tali, e abbiamo buttato a mare destra e sinistra, che inevitabilmente si chiamano nella storia italiana dal 1945 Democrazia cristiana e Partito comunista (ma non provate a chiamare un vecchio democristiano destra, si imbestialisce), o che comunque ruotavano attorno a Dc e Pci, e abbiamo realizzato qualcosa di nuovo.
Il berlusconismo, la successione Pds-Ds-Pd, la Lega, i 5 stelle o grillini. Oggi il berlusconismo è mal messo e dominano la scena Pd, grillini e Lega, quest’ultima però di fatto fenomeno pluriregionale e non nazionale.
Adesso tutti sul continente ci starebbero copiando secondo vari cantori italici, salvo la Germania. In Francia socialisti e la destra già gollista perdono terreno e devono ricorrere a alleanze innaturali per fermare le signore Le Pen, la vera destra; a Madrid 30 anni di spesso fruttuoso bipartitismo sono stati accantonati dal voto di  domenica e avanza il “modello italiano”.
IN POLITICA SIAMO ESEMPIO DI DISORDINE. L’Italia ha insegnato molte cose al mondo e continua a insegnarne e di modelli italiani ce ne sono di molti tipi ma difficilmente lo ha fatto in politica, a meno che non sia un modello un certo disordine, una certa confusione di idee accompagnata però dal sagace e spregiudicato perseguimento di interessi precisi (e non sempre confessabili), e una certa arretratezza politica e ingordigia amministrativa. Come si fa a essere il Paese più corrotto d’Europa (Occidentale) certamente non il meglio amministrato, ed essere modello di qualcosa nella sfera pubblica se non, che ne so, della navigazione sui laghi interni o la conservazione della fauna d’Abruzzo?
In politica non siamo un granché, in queste cangianti geometrie ormai ventennali, dopo 40 anni all’insegna dello scudo crociato tenuto al potere da un Pci che proponeva un modello impossibile.
Ma quale sarebbe il nostro modello da esportazione? Essere andati oltre il destra/sinistra? Si può essere assai poco marxisti, come chi scrive, ma non si può negare che le classi così come altre varie categorie storico-economiche enucleate al meglio da Karl Marx sono una realtà.
Sarebbe bene sospettare sempre di chi dice che destra/sinistra è superato, perché in genere vuole fregare il prossimo, soprattutto gabellargli una cosa di destra come fosse di sinistra, e qualche volta il contrario. Bill Clinton fu un maestro in questo, sotto altri cieli.
Matteo Renzi ci prova a essere oltre destra/sinistra e difatti è un democristiano degli Anni 70 e 80, stagione che non fu per lo scudo crociato la migliore, alla guida di un partito che salendo per i rami porta soprattutto al vecchio Pci, oltre che a un pezzo di Dc.
IN ITALIA RESISTE IL BIPARTITISMO. La sua formula del Partito della nazione, mai finora lanciata ma spesso evocata, dai suoi più che da Renzi stesso, confusa e poco simpatica perché implica inevitabilmente che chi non milita sotto quelle bandiera non è amico della propria nazione, sarebbe un tentativo di suggellare questo superamento destra/sinistra. Contradditoriamente, però, il premier ha messo in piedi un sistema elettorale, l’Italicum, che con la sua sfida tra due schieramenti e il ballottaggio finale se nessuno raggiunge al primo turno il difficilissimo 40% (ci riuscì nell’Italia repubblicana come partito alle politiche solo la Dc nel 1948, 1953 e 1958), presupporrebbe un bipartitismo che è molto difficile ipotizzare se non lungo le linee destra/sinistra, chiamate pure come si vuole.
Con l’Italicum voluto da Renzi e altri, si avrà invece - salvo sorprese nel 2018 se non prima - un ballottaggio  Pd-5stelle. Grillo ha una carriera da comico di tutto rispetto e soddisfazione, ma come politico checché se ne dica rimane comico se non tragico, tutto morsicate al microfono, scrollate di capigliatura, qualche verità quando critica, baggianate come quella di seguire la strada dell’Argentina e non pagare più le scadenze del debito pubblico, o uscire unilateralmente dall’euro, quando propone.
Già e poi? Se Grillo non è da esportazione possiamo sempre offrire Casaleggio. E sarebbe questo il grande contributo di novità italiano alla politica europea.
FASCISMO, ALTRA 'INNOVAZIONE' ITALIANA. Tra il 1919 e il 1922, l’altra grande stagione “innovativa” della politica italiana, calcava la scena un socialista massimalista, «l’unico che potrà fare la rivoluzione bolscevica in Italia» aveva detto Lenin, indeciso fino all’ultimo se darsi all’occupazione delle fabbriche contro i padroni e a fianco dei “rossi” o se difendere i padroni, per poi decidere per la controrivoluzione fascista quando ormai la sinistra aveva perso per eccesso di illusioni, e di bandiere rosse.
È andata come è andata. Il fascismo, peculiare e persino ammirata innovazione italiana in politica, non è stato tutto un disastro, ma è finito nel disastro totale, cosa che non dice bene per le innovazioni italiane, in politica.
Quando seppe, prigioniero in Germania, della fine di Mussolini, il grande giornalista Giovanni Ansaldo, antifascista per 10 anni e poi penna e voce del fascismo, scrisse: «Il vero, il solo castigo… che meriteremmo tutti noi fascisti per la colpa di aver creduto in lui, è quello di spararci con un revolver carico di escrementi».
Offelee, fa el tò mestee dice il citatissimo motto milanese, e nella politica gli italiani non danno il meglio di sé. O qualcuno crede il contrario?


mercoledì 23 dicembre 2015

ALLORA, E’ FINITA LA CRISI? NO, E’ APPENA COMINCIATA

Paola De Micheli, il sottosegretario all'economia di cui sopra


L’economia di casa nostra e non solo, va male, molto male. Il debito pubblico è in costante aumento, sono stati battuti tutti i record, anche quest’anno sforeremo il rapporto deficit – PIL, la nostra crescita reale si attesta sullo 0,7%, una tale inezia da collocarci in bilico tra stagnazione e recessione. Ovviamente non dovete dare minimamente retta al bullo di Rignano, un fantasista da varietà, un venditore di sogni come di fumo cui non è possibile ascrivere la minima fiducia. Specialista nello sparare balle (lo chiamavano per questo “il bomba”), non ha perso il vizio di modificare la realtà, modellando un mondo che esiste solo nella sua fantasia. Uno strumento infallibile per misurare l’andamento economico di un paese è costituito dalla sua finanza. Bene, le borse valori sono l’indicatore fondamentale, il termometro della finanza e dell’economia di un paese. Sono mesi, ormai, che la Borsa di Piazza Affari chiude costantemente in negativo: l’indice FTSE Mib è quotidianamente in perdita. Negli ultimi due mesi le giornate chiuse in positivo si contano sulle dita di una sola mano. Ci sono molteplici cause, anche internazionali, ma, è questo il punto, la Borsa di Milano misura la nostra salute economica. L’economia cinese si è fermata, era la locomotiva del mondo, stava per superare la prima economia, quella degli USA, poi, in questi ultimi mesi, la situazione si è deteriorata, le importazioni di materie prime sono calate, l’export pure, la crescita cinese si è attestata al di sotto delle attese e delle stime. Di qui la conseguenza più vistosa: la Cina importa meno petrolio, perché è diminuito il fabbisogno, il prezzo del barile crolla, la fiducia degli investitori istituzionali vacilla e declina verso il pessimismo e l’avversione per il rischio, invece di comprare, si tende a vendere. La Cina è il volano dell’economia di un continente intero, l’Asia, i paesi cosiddetti “emergenti” non sono più tali, le loro valute si sono indebolite, i crediti loro concessi sono in sofferenza, insomma hanno fatto il passo più lungo della  gamba. L’Europa non cresce, la BCE non ha le funzioni di una vera banca centrale, come la FED americana, non può stampare moneta, se non indirettamente, attraverso il meccanismo del Quantitative Easing, non può costituirsi quale prestatore di ultima istanza. Vi chiederete: ma che c’entrano i miei risparmi con il crollo continuo della Borsa di Milano? C’entrano, eccome. Oggi, a differenza dei tempi dei nostri genitori, non si investe più in titoli di stato o in buoni fruttiferi postali: sono investimenti che non rendono nulla, tanto vale lasciare i propri denari sul conto corrente. Allora ci si deve necessariamente rivolgere ad altri strumenti finanziari: Fondi comuni di investimento, Sicav, ETF, bond High Yield, covered bond, obbligazioni,  azioni, fondi hedge, al limite, derivati o cartolarizzazioni. Sono prodotti che, genericamente e per semplificare, rientrano, quasi tutti, nel risparmio gestito, a dire che chi li acquista affida la gestione del proprio portafoglio ad un professionista che amministra per noi i nostri averi, possedendo, si presume, una conoscenza profonda dei mercati e dei loro meccanismi. Ma in uno scenario come quello descritto, i gestori di fondi purtroppo, si trovano molto spesso con le mani legate. Mi spiego: se il profilo di un risparmiatore è prudente, un consulente finanziario non potrà fare altro che consigliare strumenti che, non solo non rendono quasi nulla, ma, anzi, perdendo un poco tutti i santi giorni, erodono nel tempo il nostro patrimonio, vanificando completamente l’investimento. Allora, la parola magica che sentiamo pronunciare continuamente è “diversificare”. Oh bella, ma diversificare cosa? Per ottenere guadagni degni di nota occorrono due cose: tempi lunghi e innalzamento del rischio. Non ci sono altre vie. Bisogna avere pazienza e nervi saldi, prospettarsi guadagni nel lungo periodo, due, tre, anche quattro o cinque anni. E rischiare. Cioè mettere in gioco, mediamente, un 25% del nostro capitale. Se va bene il capitale impiegato può levitare diciamo di un 5%, se va male al massimo possiamo perdere il 25% di cui parlavamo. E’ solo un esempio, per rendere l’idea. Tutti i prodotti finanziari di cui abbiamo parlato sono pesantemente influenzati dall’andamento delle borse e dei mercati. Ecco perché i nostri risparmi, se investiti, dipendono completamente dall’andamento dell’indice di Milano.  In un’epoca come quella attuale, se non siamo in possesso di un patrimonio intorno al milione di euro, ci conviene mantenerci prudenti, quindi, in buona sostanza, non investire affatto, considerato, come si diceva, che i prodotti finanziari “prudenti, bilanciati, flessibili” ecc. non solo rendono poco o nulla, ma ci fanno perdere costantemente qualcosa. In definitiva, per il 2016, se non siete già ricchi, e, anzi, avete messo da parte una somma modesta, non impegnate i vostri denari in fondi comuni di investimento che vi renderanno al massimo lo zero virgola, lasciate perdere, tenete d’occhio il materasso, il buon vecchio materasso, non ha ancora completamente perduto la sua funzione, oltre a quella di farci riposare, di costituire una cassaforte a prova di scassinatore. (R. T.)