martedì 30 novembre 2010

MARIO MONICELLI E GLI ULTIMI MOMENTI

Con Mario Monicelli se ne è andato l’ultimo grande regista italiano, l’ultimo di respiro internazionale. I registi italiani, con nessuna eccezione, sono in grado di produrre opere carine,  gradevoli, ma niente di più. Anche la stagione dei grandi autori si conclude con Monicelli. Colpisce, inevitabilmente, la scelta del suicidio come soluzione finale e si riapre, purtroppo, il dibattito sulla libertà individuale delle ultime decisioni. Premesso che Monicelli, negli ultimi tempi, versava in una qualità di vita oramai intollerabile, anche in questo caso vale la posizione del massimo rispetto possibile, vorrei dire della condivisione del gesto. La questione che si apre è, piuttosto, la possibilità o meno di assistere una persona che non si trovi nelle condizioni fisiche e mentali di Monicelli. Si tratterebbe, in questo caso, del suicidio assistito. Questione sempre aperta, e di difficile sistemazione legislativa. Da molto tempo si dibatte questo argometo, spesso oggetto di polemiche. Diciamo anzitutto che nessuna legge o normativa può essere in grado di coprire l’intera casistica possibile. E questo pone un primo, invalicabile, limite ad una possibile legislazione. Trattandosi di scelte individuali, occorrerebbe una valutazione caso  per caso. Fino a che punto un persona è capace di intendere e volere? Dove si stabilisce il confine della normalità? Non è possibile che una persona prenda una decisione, anche per iscritto, preda di una grave depressione, e quindi non in perfetta lucidità? E ancora, ammesso che nel testamento biologico (se mai entrerà in vigore) una persona, nel caso dovesse versare in determinate condizioni fisiche, chiedesse di essere assistito nel suicidio, cosa ci fa pensare che, nel frattempo, non possa aver cambiato idea? Si tratta di eccezioni di tutto rispetto. L’Olanda, unico paese nel quale esiste una legislazione specifica, sta compiendo un percorso verso il rischio maggiore di una simile normativa: l’assimilare casi di handicap gravissimo alla casistica dei malati terminali. Siamo ai problemi fondamentali dell’inizio vita e della fine vita. Ovviamente le due cose vanno tenute ben distinte, ma il rischio è quello  di scivolare verso una sorta di “selezione” del genere umano e quindi a quello che si chiama “eugenetica”. A malincuore, quindi, data anche la statura morale e intellettuale della nostra classe politica, considero quale male minore non formulare alcuna legislazione in merito. Ricordo che, di fatto, una forma di eutanasia è già applicata nel nostro paese. In rianimazione sono i medici, in concreto, a decidere se tentare di salvare una persona o meno, in considerazione, soprattutto, dei possibili postumi. Quando ad un malato terminale si somministrano dosi sempre maggiori di morfina, il soggetto, prima o poi, morirà dolcemente per insufficienza respiratoria. Legiferare sull’eutanasia non serve. Farlo sul suicidio assistito sarebbe ancora più pericoloso, proprio perché aprirebbe scenari di difficilissima gestione.

WIKILEAKS E LA CRISI DEL MONDO MODERNO

Se un signore che si chiama Julian Assange, di cui non si conosce neppure la data di nascita (solo l’anno è certo, il 1971) è riuscito, praticamente da solo, a tenere in scacco l’intero globo terracqueo (non solo l’occidente, si badi bene), allora l’unica conclusione che si può trarre  è che la crisi, la decadenza, il declino del mondo intero, sia un processo irreversibile. Un hacker, per quanto abile, non può essere in grado di perforare tutte le maglie dei firewall dei principali server mondiali: è lecito pensare che, dall’altra parte, ci siano sistemisti informatici in grado di chiudere e blindare i propri sistemi informativi. E questo sarebbe il solo livello preventivo.  Comunque, una volta perforato il sistema, gli hacker lautamente stipendiati dai principali governi mondiali dovevano essere in grado  di fermare il signor Assange. Se non sono stati in grado di farlo potrebbero darsi all’insegnamento dell’informatica nella scuola, certamente non essere pagati per una consulenza inconcludente. Quello che desta preoccupazione, in questa paradossale vicenda,  è il fatalismo, la rassegnazione dei governi di fronte a questo evento, largamente anticipato dallo stesso autore. Il ministro Frattini ha dichiarato “è l’11 settembre della diplomazia”. Ma scherziamo? Ma di che parla questo signore? Non si tratta di un evento naturale, come uno tsunami o un terremoto, una calamità al di fuori del controllo umano. E invece, come tanti allocchi, i grandi, i potenti del mondo, sono rimasti lì, ad aspettare un evento ineluttabile. C’è di che trasalire. Chiunque capisca un poco di informatica, sa che nessun sistema è completamente inespugnabile: il sito Wikileaks poteva e doveva essere bloccato, essere messo in condizione di non rilasciare nulla in rete. Ma se questo è accaduto, allora è vero che non esiste più nulla di sicuro. E’ il crollo delle certezze. Qui non si tratta più e solo di crisi economica, qui si tratta del mondo che naviga a vista, tentoni, brancolando nel buio. E’ una crisi strutturale, non solo economica, una crisi di competenze, di intelligenze, è il mondo dei dilettanti allo sbaraglio. Questa crisi intride profondamente anche le fondamenta dei sistemi politico economici e delle coscienze. Avevamo capito che siamo giunti al capolinea di un ciclo storico, di cui la crisi economica non è che un singolo aspetto. Torna, inevitabilmente, il concetto di crisi del mondo moderno elaborata da Renè Guenon e poi ripresa dal filosofo Julius Evola. Si tratta, come dicevamo, di una crisi delle coscienze, cha ci fa sentire impotenti, rassegnati agli eventi che ci travolgono prima di poter mettere mano a qualche contromisura. In un simile scenario una nuova invasione barbarica è alle porte. I paesi dell’ex terzo mondo si affacceranno alle porte del’Europa e degli USA per prendere il posto di governi imbelli ormai esangui e prossimi all’estinzione. Siamo agli ultimi giorni dell’Impero Romano d’Oriente.

lunedì 29 novembre 2010

AFFRETTIAMOCI ALLA PORTA D'AVORIO

(Le Porte del Sonno sono le due uscite dall'Ade nel VI libro dell'Eneide; i Mani concedono anche l'invio ai mortali di sogni veri (dalla porta di corno) e falsi (dalla porta d'avorio). L'ombra di Anchise indirizza la Sibilla ed Enea, che stanno uscendo dall'oltretomba, alla porta d'avorio, dei sogni falsi.)

Le cose stanno procedendo, in economia come in finanza, e, purtroppo, come era fin troppo facile prevedere, progrediscono di male in peggio. In effetti, facendo un giro su internet (lasciamo stare i mezzi di comunicazione di massa per la loro assoluta inattendibilità) c’è da restare sconcertati per due elementi fondamentali: la discordanza pressocchè assoluta delle previsioni: si passa da un cauto ottimismo a scenari terrificanti da parte di un po’ tutti gli analisti indipendenti. E poi, e questa è la cosa più pericolosa ed inquietante, l’accelerazione improvvisa che ha preso la crisi, tale da divenire la componente potenzialmente più pericolosa della congiuntura. Il fatto di non fare in tempo a mettere mano a correttivi o a riforme del sistema perché i mercati stanno crollando troppo in fretta, rischia di essere il fattore decisivo del declino finale. Cerchiamo di fornire, anche se ridotto al minimo, qualche dato tecnico:  uno degli aspetti fondamentali della crisi attuale è il debito dei paesi sovrani. Il crollo dell'Irlanda toccherà presto il Portogallo e minaccia la Spagna. La velocità del contagio si può leggere negli spread (la differenza di interesse che si deve pagare per ottenere denaro) dei diversi Paesi rispetto al virtuoso bund, il titolo di riferimento della Germania. Per farsi prestare denaro, gli emittenti pubblici devono pagare ben più della Germania . Lo spread dell’Italia ha toccato i 201 punti, un record negativo assoluto.  Il primo rischio è quello di finire nel tunnel dei mercati, complice la crisi politica. Tutti gli operatori, tuttavia, concordano che al momento la tensione è in altre aree. Le ultime aste non sono state negative. La gestione del 2011 non è proibitiva. «Le emissioni saranno intorno ai 240 miliardi, circa 20 miliardi in meno di quest'anno – ha detto Maria Cannata, direttore generale del Debito pubblico, a proposito delle emissioni di titoli di Stato a medio e lungo termine.
Anche se la materia è complessa, il risparmiatore non può sottovalutare che l'Europa sta cercando nuove regole per gestire "in modo ordinato" le eventuali crisi dell'area unica. Proprio questa settimana il cancelliere Angela Merkel ha dato i brividi ai mercati. Sostiene che i bilanci dei non virtuosi non possono essere pagati da chi tiene i conti in ordine, che sottoscrittori di bond di ogni tipo devono accettare anche di gestire con perdite le crisi gravi. Quindi allungando i tempi di rimborso e, se non bastasse, tagliando gli interessi con riduzioni del nominale. Ma da quando? Dal 2014 o anche prima come era sembrato da alcune indiscrezioni? «La Merkel – sintetizza Alessandro Fugnoli nella lettera settimanale di Kairos sulle strategie di investimento – vuole assicurare tutto il debito in circolazione salvaguardando le banche tedesche e francesi. Un altro problema è quello del “debito ristrutturato”, cioè aiutato, coadiuvato dalle somme stanziate dalla UE per salvare stati e banche. Tale debito, come già detto, non potrà essere onorato in maniera impeccabile: quando la Merkel parla di partecipazione dei soggetti privati al salvataggio degli stati in crisi, parla di noi, di noi cittadini, non solo di banche. I tempi di rimborso dei capitali investiti sia in titoli di stato che in obbligazioni bancarie saranno differiti, e il valore nominale dei propri titoli sarà abbattuto, di quanto non si può dire, dipende dal grado di esposizione dei titoli in questione. E non dimentichiamo che la bolla dei derivati e delle facili cartolarizzazioni è sempre dietro l’angolo. Si stima che le banche europee posseggano titoli infettati per almeno 300.000 miliardi di dollari. Uno dei provvedimenti che prenderà il nuovo governo, di qualsiasi parte sia, sarà quello di tassare le rendite finanziarie fino al 25%, rispetto all’attuale 12%. Si tratta di un provvedimento impopolare, in un paese tuttora dedito al risparmio, ma persino Fini ha rotto la sua consolidata prudenza affermando la propria volontà di mettere mano ad un provvedimento del genere. Inoltre c’è il rapporto tra debito pubblico e PIL, sempre disastroso per l’Italia, che cresce troppo poco, intorno all’1%. La conseguenza è che ci sarà una nuova manovra correttiva la prossima primavera. E il nuovo governo sarà obbligato, come chiede a gran voce l’UE, a mettere mano per l’ennesima volta alla spesa pubblica. Dal momento che si è tagliato tutto quello che si poteva tagliare, si penserà alle pensioni. L’età pensionabile (almeno per gli uomini) sarà portata a 67 anni, come in altri paesi UE. Si tratta, come è evidente, di provvedimenti ampiamente impopolari, anche considerato che l’unica manovra efficace sarebbe quella di far emergere la paurosa evasione fiscale di questo paese. Ma siccome non si può o non si vuole scovare i grandi evasori fiscali, a pagare saranno i soliti cittadini tassati ala fonte e piccoli o medi risparmiatori. Ecco perché Berlusconi non ha alcuna intenzione di approvare una simile manovra. Nella svenevole manfrina cui stiamo assistendo, l’unico cui non dispiacerebbe in fondo andare ad una nuova consultazione elettorale, sarebbe proprio Berlusconi, anche per passare questa dolentissima patata a qualche altro malcapitato. Per tornare al debito pubblico, vero tallone d’Achille dell’Italia, insieme alla scarsissima crescita, il Tesoro continua ad emettere titoli di stato con interessi appetibili per poter restituire il denaro avuto in prestito dai contribuenti, e avanti così in una spirale che ricorda da vicino quella degli strozzini. Si pagano interessi sempre maggiori per saldare i propri debiti, sino a finire strangolati. Ma torniamo alle crisi degli stati sovrani: potrà cadere il Portogallo, va bene, le borse crolleranno come non mai, ma se dovesse toccare a paesi come la Spagna o l’Italia, sarebbe la fine. La vera fine. Questo, paradossalmente, mi fa essere cautamente ottimista. La Spagna è un paese dall’economia vasta ed articolata, un suo crollo non sarebbe sopportato dall’UE, che non sarebbe assolutamente in grado di erogare un prestito adeguato. Non parliamo dell’Italia. Il nostro paese, per quanto da noi sottovalutato e bistrattato, rappresenta uno degli snodi fondamentali dell’Unione Europea. Se si dovesse verificare un default italiano il botto sarebbe grosso, tanto grande da avere conseguenze incalcolabili. L’Unione Europea, priva di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, sarebbe alle corde, per non dire finita, dal momento che il paese che segue l’Italia è la tanto amata Francia da parte della Merkel. Se l’UE si estingue si estingue anche l’euro, con il conseguente ritorno alle valute nazionali, che, nel nostro caso significherebbe la fine del paese così come lo conosciamo. Una lira svalutatissima manderebbe in fumo i risparmi dei cittadini, un’inflazione alle stelle ci manderebbe a fare la spesa con una borsa piena di banconote, e le speculazioni sulla nostra valute farebbero il resto. Con questo voglio dire che ritengo improbabile una bancarotta della Spegna e ancor più dell’Italia. Una volta che i cittadini, arrivati agli sportelli bancari si dovessero sentir rispondere che le banche non sono in grado di restituire loro quanto depositato o prestato, si scatenerebbe come minimo una guerra civile. E, a livello europeo o internazionale, un conflitto mondiale. Questo potrebbe essere il tanto temuto Medioevo che ci aspetta. Ecco perché ritengo che il sistema attuale, per quanto corrotto e banditesco (permette a 100, 150 uomini al mondo di reggere le sorti della speculazione) debba essere preservato il più possibile, cercando di gestire il trapasso ad un altro, inevitabile, sistema, nel modo più lento ed indolore possibile. Dandosi regole nuove e riformandolo, sapendo però, allo stesso tempo, che si tratta di un sistema giunto al capolinea. Il capitalismo, così come lo conosciamo ed abbiamo imparato ad odiare, ha esaurito il suo ciclo storico, ma dobbiamo temere i suoi colpi di coda. Per questa ragione più sopra menzionavo l’accelerazione impressa alla crisi come il fattore più preoccupante: impedisce di riflettere, e di prendere le giuste decisioni con le giuste motivazioni.
Non è mia intenzione, spero che trapeli, essere catastrofico o cronicamente pessimista: penso anzi, come accennavo, che l’Italia non debba finire nell’abbraccio mortale con la Spagna. Come dicevo, credo che l’UE saprà trovare le soluzioni appropriate per scongiurare il pericolo di un naufragio del vecchio continente (Germania compresa, che da sola non va da nessuna parte), ma soprattutto, con l’aiuto degli Stati Uniti, allontanare la conseguenza di un conflitto sociale che, dall’interno dei singoli paesi, potrebbe sfociare in una guerra di ampie proporzioni. Credo che questo sia il pericolo e lo spauracchio dai quali dobbiamo guardarci. Chi non lo capisce, chi continua a pascersi nei TG di regime o nella stampa velinara, mostra di nascondere la testa sotto la sabbia, oppure vuole sentirsi dire quello che spera, o che desidera sentirsi dire. E allora niente panico, chi ha denari da investire lo faccia esclusivamente nel settore immobiliare (niente beni rifugio, anch’essi pericolosi), chi ha i denari già investiti può solo guardare alla finestra, mettendo in conto di vedersi limare il patrimonio dalle tasse o da una perdita del valore nominale, e sperare di contenere al massimo i danni. Ricordiamoci sempre che una classe politica, costituita da politicanti di ogni fazione, che non è stata in grado, o, peggio, non ha voluto, per correità o per convenienza personale, neppure di scalfire la spaventosa evasione fiscale, non solo non merita rispetto, merita disprezzo. So che questa consapevolezza genera un sentimento di impotenza, ma i margini di intervento, da parte del cittadino, sono estremamente esigui in questo frangente. Anche la possibilità del voto, francamente, serve a poco. Non si tratta di destra o sinistra, abbiamo visto tutti che, quando si tratta di attribuirsi diarie o prebende, i parlamentari diventano un sol uomo. Purtroppo le conseguenze, le ricadute di questa crisi non sono solo economiche, ma anche psicologiche, se non antropologiche. Resistiamo alla tentazione di chiuderci in noi stessi, nel nostro piccolo “particolare”. Apriamoci agli altri, impariamo sempre di più ad ascoltare, considerando che di questi tempi, le persone disperate sono sempre di più. Non chiudiamoci, dunque, ma cerchiamo di capire che cosa di buono può portare anche un evento calamitoso come una crisi economica; si può trarre un compenso anche dal male, si possono riscoprire risorse che sembravano sopite in un angolo della nostra anima. Guardiamo avanti, allora, affrettiamoci alla porta d’avorio, consapevoli che quello che ci aspetta potrebbe essere doloroso, senza per questo essere tragico, viviamo giorno per giorno, con la massima leggerezza possibile, senza essere superficiali, ma conservando una speranza che è solo nostra, di quelli come noi, senza farci illusioni su politicanti e amministratori che sono talmente somari da non meritare neppure uno sguardo, neppure un pensiero.

giovedì 25 novembre 2010

CARTOLINE DALL'ALDILA'

25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Matteo: 6,25 - 34


E’ difficile in questi tempi sventurati, alle prese con un flusso che appare inarrestabile di perdita di posti di lavoro, con prospettive economiche e finanziarie non certo rosee, è difficile non chiudersi in un muto egoismo, in una rassegnata malinconia. Eppure, proprio in queste circostanze, è importante trovare una via di fuga, un rifugio, un impegno che ci tenga occupati, spiritualmente e materialmente, che tenga desta la nostra attenzione, verso noi stessi e gli altri, che non ci faccia soccombere mentre mercati e  borse fanno il resto. Il terzo settore, quello del volontariato sta conoscendo una crisi particolare, per mancanza di finanziamenti e, soprattutto, per carenza di adesioni. Di questi tempi è facile chiudersi in se stessi, ripiegarsi su se stessi, stare sulle difensive e osservare tutto con diffidenza: di fronte a variabili non modificabili dalla nostra volontà, con i timori e i tremori per il futuro di noi stessi, dei nostri figli, dei nostri risparmi, è facile adagiarsi su di un letto di procuste: meglio farlo su di un letto di petali di rose, le “rose di Eliogabalo”, per esempio. Chi mi conosce sa che recentemente  è scomparsa mia madre, che faccio un lavoro che non mi colma di soddisfazioni, essendo di carattere amministrativo, che non ho più parenti e i pochi amici, beh, lasciamoli perdere. Ma proprio adesso, quando tutto appare incerto e indecifrabile, quando tutto si confonde come in una nebbia, la solitudine è dietro l’angolo, bene, proprio adesso, in due diverse circostanze, mi si è aperto, sia pure per un solo attimo, un intero orizzonte. Il giorno della morte di mia madre, stavo percorrendo con lo scooter la via del ritorno a casa, e alzando gli occhi su, nel cielo, mi è apparso un brevissimo squarcio luminoso. Lì per lì non ci ho fatto caso più di tanto, anche perché il tutto è durato una frazione di secondo, ma qualche giorno dopo, camminando per una via qualsiasi, guardando ancora il cielo incerto tra nubi e sereno mi è riapparsa quella istantanea sciabolata di luce, sempre per un attimo. Mi è tornato alla memoria il raggio verde, quello che in talune circostanze climatiche favorevoli, si distingue per un istante al tramonto sul mare. O il cosiddetto “afterglow” degli inglesi, l’”ultimo bagliore del crepuscolo”, che è anche il titolo della più bella canzone dei Genesis. Tornando poi a casa, ho cercato di conservare dentro di me quelle immagini, per quanto appena abbozzate e fugaci. La sera, prima di addormentarmi, ho fantasticato ancora di favolosi paesaggi e città mitiche, tra favola e leggenda. Seguendo il filo dei miei pensieri mi sono ritrovato a pensare al viaggio, il vero viaggio, quello del “tè nel deserto”, quello che il viaggiatore compie senza sapere né come, né quando tornerà indietro, e soprattutto se tornerà mai a casa. Mi sono sentito in pace con Dio, forse persino con gli uomini. Al Padre, che mi ha scrutato con misericordia, con affetto e comprensione, chiedo la consolazione della fede, a me stesso chiedo di prestare più attenzione agli altri, imparare ad ascoltare, dire una buona parola quando sia il caso. Dopo un lungo periodo di malinconia e chiusura tra le finestre di casa mia e quelle di una casa di riposo dove solo il dolore, la sofferenza, la malattia e la morte percorrono indisturbate i corridoi e gli stambugi, l’androne e le scalinate, mi sento di provare ad aprirmi agli altri, con spirito nuovo, rinnovato: ogni notte la figura di mio padre mi viene a visitare, per un saluto, per un consiglio o solo per starmi vicino. Ogni notte, tra la veglia ed il sonno, mi arriva qualche cartolina dall’aldilà, città invisibili, come quelle di Calvino, nature epiche e straordinarie, aurore boreali, tramonti che si tuffano nel mare…Probabilmente non c’è niente di soprannaturale, si tratta semplicemente del mio subconscio che cerca una difficile mediazione tra il mio io rinnovato ed il mondo di tutti i giorni. Ma mi piace pensare, da cristiano pieno di dubbi che il Padre celeste mi manda queste immagini non per consolarmi, ma per dirmi “vai, continua così, cerca di esplorare prima te stesso e poi quello che ti circonda, cercando tutto quello che di buono ti può offrire il mondo, non ti tirare indietro. So che sembrano i puerili “pensierini della sera”, ed è proprio così. Mi torna alla memoria una vecchia canzone di Gianni Togni, un cantautore non certo tra i più “dotti”, mi sembra che facesse pressappoco così:



 Vorrei un dirigibile
volare al polo nord
vivo là tra le nuvole
da lì non scenderò
e coltivare le fragole
e non arrabbiarmi più
l’importante è che con me ci sia tu
proprio tu

Vorrei spazio per correre
il mare davanti a me
una notte da rompere
dentro chissà che c’è
leggere libri di favole
e non essere triste più
l’importante è che con me ci sia tu
proprio tu

E fuggire insieme insieme sulla strada
dietro un’orchestrina improvvisata
vincere marsala al tiro a segno al luna park
calmi anche se il buio ci sta tutto intorno
per cacciare le ombre dell’inverno
basta un fiammifero e un muro di città
e ci si vede già

Mi farò un’autocritica
i miei errori correggerò
studierò la domenica
così mi laurerò
e sarò più simpatico
non dirò bugie mai più
l’importante e che con me ci sia tu
proprio tu

Camminare piano non avere fretta
gira il mondo è vero ma ci aspetta
il tempo di fermarsi e farsi una fotografia
cambiare l’acqua alle piante e il latte al gatto
niente sigarette e presto a letto
dove tutto va al suo posto come per magia

Comprerò un tostapane e un frullatore
arance buone per la colazione
voglio organizzarmi e darci dentro un po’ di più
da domani niente trucchi  al lavoro
cambio vita voglio fare il bravo
buonanotte amore è bello che ci sei tu
se ci sei tu.

E’ una canzoncina, per carità, (non una canzonetta), ma da qualche tempo, considerata anche la facile melodia, mi frulla per il capo. Ho in progetto un viaggio, un viaggio vero, non una vacanza, e mi piacerebbe lasciare la mia città, che poi tanto mia non è; una città in peno declino, in vera decadenza, abitata e gestita da persone vecchie dentro e fuori, dal traffico asfissiante e impossibile, dalla burocrazia soffocante, amministrata da un sindaco e da una giunta comunale composta da dilettanti allo sbaraglio, che hanno non poco contribuito al disarmo metropolitano. Magari tra qualche tempo accadrà qualcosa che mi farà nuovamente cambiare idea, e tornare all’ipocondria ben nota, ma adesso non voglio pensarci, quando mi sento triste e stanco, tiro fuori dal cassetto le mie cartoline dall’aldilà e cerco di guardare fisso davanti a me. Padre mio, concedimi ancora qualche anno, ho ancora qualcosa da compiere, prima che anche su di me cali il sipario. Mi scuso con i lettori per questo post francamente un po’ troppo personale, ma spero di avere un po’ stemperato il pessimismo che da sempre mi accompagna, di aver mitigato il “guerrier ch’entro mi rugge”, di aver messo un po’ di pace tra le mie anime in guerra.
(Sempre più spesso mi trafiggono desideri acuminati come spade: la voglia di incontrare persone, altre persone, che non ho mai conosciuto, chissà mai perchè. Sentire il profumo dei capelli e la fragranza di una pelle mai sfiorata, attraversano la mia mente immagini sempre più simili a miraggi, alle morgane beffarde dei castelli ariosteschi, pieni di trappole e trabocchetti. Ho una voglia di scappare, via, via, lontano, così lontano da non trovare più la strada di casa. A volte penso di perdermi in qualche posto segreto, sotto la luna e i palmizi, nascosto tra le mangrovie...O in qualche bordello turco, con i sensi ancora annebbiati dall'oppio sdraiato su di una ottomana. Sono solo fantasie, ma un giorno non lontano, in qualche posto , all'imbrunire e sotto qualche volta stellata, mi farò ingoiare dalla notte, per non tornare mai più. Mai più.)

mercoledì 24 novembre 2010

UN INDOVINO MI DISSE

Ci sono delle circostanze, nel corso del tempo, in cui, per una volta, il solo fatto di essere smentito procura un certo piacere. Le previsioni a medio – lungo termine nella macroeconomia, per esempio, o la direzione che potrebbe prendere la protesta giovanile, soprattutto studentesca, sono due di questi casi. Qualche mese fa scrivevo l’articolo “Il medioevo alle porte”, quei pochi lettori che ebbero la compiacenza di leggerlo mi fecero notare che si trattava di una disamina della congiuntura ed una previsione della situazione troppo cupa e a tinte fosche, venata di un eccessivo pessimismo. Purtroppo oggi sappiamo che non è così. La svolta epocale che stiamo vivendo, non la sola Italia ma il mondo intero globalizzato, si sta a grandi passi incanalando verso un prossimo medioevo fatto di anni bui, dell’entrata di paesi come il nostro, ma, in fondo, di tutto l’occidente, nel famoso “secondo mondo” di cui faranno parte i paesi una volta ricchi e prosperi, ed ora in crisi strutturale. L’avanzata dei paesi, viceversa, del “terzo mondo”, detentori di materie prime, di manodopera a bassissimo costo, di beni rifugio come oro e diamanti (per non parlare del petrolio), sarà inevitabile, ancorchè progressiva. Stanchi di essere schiacciati dai paesi ex colonozzatori, ci presenteranno un conto piuttosto salato, e una nuova invasione barbarica arriverà a compimento. Non so se sarà cruenta, dipenderà dall’implosione del capitalismo, che si accartoccerà su se stesso come una palla di carta, dipenderà dall’avidità degli speculatori dei mercati e delle borse, dalle politiche di accoglienza o dalla chiusura in fortini ormai espugnabili, dalla possibilità o meno che avremo di trattare con questi paesi emergenti. Sarà quindi il tramonto dell’occidente (quello vero, non quello di Spengler), e dopo un lungo periodo, (anni? Secoli?) può anche darsi che si affacci nella storia un nuovo Rinascimento, con un sistema politico economico e finanziario del tutto diverso da quello attuale e difficilmente immaginabile. Ricordiamoci sempre che, nel malaugurato caso in cui Spagna, Portogallo e Italia arrivassero al default, e l’euro cessasse di esistere per un ritorno alle valute nazionali si sprofonderebbe in un caos difficilmente controllabile, che ricorderebbe da vicino gli ultimi giorni della repubblica di Weimar e potrebbe preludere ad un conflitto mondiale. So che si parla molto di questi benedetti speculatori, se ne favoleggia come di un pugno di uomini che tengono in scacco il mondo intero. L’accusa più facile, in questo caso, è che si tratta di una banale fantasia, tanto per trovare un capro espiatorio. Bene, non è così . Riporto di seguito il parere di un autorevole economista, Roberto Ruozi, ex Rettore della Bocconi:

 E in questo panorama, che cosa la fa essere ottimista?

"Sarà il buon senso che ci salverà. Intanto ci sono miglioramenti oggettivi: i sistemi bancari sono oggi in uno stato di salute migliore e non credo che ricadranno negli stessi errori. Sono state salvate una volta, con costi altissimi; sanno che non ci sarebbe una seconda volta. Quindi il problema del
moral hazard dovrebbe essere risolto. E io credo che questo valga anche per i comportamenti di quel gruppo abbastanza ristretto di persone che governo la finanza mondiale. Sranno 100-150 persone, quelle che contano davvero. Ora, le regole sono importanti, ma non decisive, perché abbiamo visto che si trova sempre il modo di aggirarle. Ma questo gruppo dovrebbe aver capito che in un orizzonte stabile di lungo periodo si può guadagnare lo stesso, senza gli sconquassi che abbiamo visto. Forse mi illudo, ma io penso che l'uomo non sia irrazionale. Io credo che siamo sulla strada della normalizzazione. Secondo me se ne esce".

Roberto Ruozi, economista, ex Rettore della Bocconi

Quanto alla direzione che potrebbe prendere la protesta giovanile, rimando al mio articolo “L’Autonomia possibile”, considerato anch’esso fuori tempo e fuori luogo, ma non troppo lontano dalla realtà. Le ultime notizie, di questi giorni, relative alle proteste studentesche contro la “riforma” Gelmini appaiono sempre più come prove di movimento giovanile. Un movimento che muove i suoi primi passi, che emette i primi vagiti, ma foriero di una potenzialità enorme di leva per svellere con un controriforma non solo il fallimento della scuola e dell’Università, ma anche per costituirsi come interlocutore  ad una classe politica che da anni ha ormai smesso di far politica, che considera la res publica come un fatto personale, un espediente per fare carriera e reddito, per risolvere problemi personali, che ha dato vita, in questi ultimi anni ad un indecoroso spettacolo che non è solo ridicolo, è anche avvilente. Altro che seconda repubblica. Qui c’è da rimpiangere persino Craxi. La criminalità organizzata che controlla non solo il mezzogiorno del paese, ma è ormai ramificata nel tessuto politico e amministrativo del nord. A questi  giovani manca un substrato ideologico, i presupposti filosofici e politici che possano sostanziare le loro prospettive di lotta. Sperando che non sbuchi da qualche parte qualche altro “cattivo maestro” (ne abbiamo avuti anche troppi), la speranza è che, escludendo la possibilità di riesumare ideologie ormai imbalsamate dalla storia, una parte illuminata di questo nascente movimento elabori una franca analisi politica, cerci la sinergia tra quanto di buono ci ha trasmesso il recente passato. Operare una selezione chirurgica degli elementi di quelle formazioni di destra e di sinistra che, pur fronteggiandosi negli ani settanta, possedevano un patrimonio comune di ideali e di programmi, alcuni denominatori comuni che, per un attimo, hanno fatto sperare nella chiusura del cerchio, nella nascita di un movimento che riunificasse i due estremi. Una “nuova Autonomia” non più operaia, ovviamente, che prendendo le mosse da alcune opere di Toni Negri e di Pino Rauti, possano farle proprie e superarle in una sintesi che vada ben oltre i concetti di destra o sinistra, ormai desueti. Se questi giovani saranno capaci di darsi una base politico-ideologica, saranno anche in grado di incidere sul dibattito politico a livello nazionale, e di incanalare, dopo anni di narcolessia, le energie vitalistiche, propositive e innovative tipiche di quell’età.

L'IMMAGINAZIONE AL POTERE

Pubblico di seguito un valoroso pezzo di Gad Lerner sul cosiddetto ministro Brunetta. Ne farei volentieri a meno, ma sono pienamente consapevole dell’insufficienza e dell’inesaustività di quanto affermato finora su di un uomo che è anzitutto un problema antropologico. Raramente tante cattive qualità si sono concentrate in un solo essere umano: è un mentitore incallito, un millantatore, possiede un eloquio poco forbito ma in compenso volgare, non sa rapportarsi con il suo prossimo e con il mondo, ha problemi relazionali, non è un economista (Tremonti lo è), è un apprendista maldestro stregone, nel senso che vorrebbe stravolgere la pubblica amministrazione dirigendola come un monarca assoluto, ma come tutti gli apprendisti stregoni continua ad infilare uno strafalcione dopo l’altro: fallita la sua campagna antiassenteismo nel pubblico impiego, assenteismo che, considerati gli organici al limite del collasso è semmai aumentato, uno squallido, ridicolo fallimento la sua campagna sulla posta elettronica certificata (non la usa nessuno, soprattutto la Pubblica Amministrazione). Parla per slogan, sembra una pentola a pressione pronta ad esplodere, tanto è il suo livore per il  prossimo; nella sua testa, per citare Troisi, non c’è un solo complesso (per la sua innaturale statura) ma una intera orchestra. Trapela odio e aggressività ogni suo gesto, è facilone, superficiale, pressappochista e trasandato: non aver ancora compreso che il male assoluto della Pubblica amministrazione sono proprio i dirigenti corrotti e concussi, e non i dipendenti che si ammalano troppo spesso (per questo ha introdotto una tassa sulla salute) non è solo un tragico errore, è mentire in malafede, sapendo di mentire. A proposito di malafede, è di questi giorni l'ultima, incredibile trovata di questo ringhioso botolo: sta passando in TV uno spot che afferma che si attiverà, nelle scuole italiane, un servizio telematico di comunicazione permanente con i genitori. Attraverso SMS, e-mail e quant'altro, la scuola terrà costantemente informate le famiglie circa la salute dei propri figli, il loro profitto, ed ogni altra iniziativa programmata. Lo spot invita l'utente a contattare il dirigente scolastico della propria scuola per informazioni circa il progredire della situazione. Ora, anche un osservatore distratto sa che nella scuola italiana non ci sono risorse neppure per il funzionamento, cioè i servizi minimi  essenziali. In molti casi sono i genitori stessi ad acquistare il materiale di facile consumo per i propri figli, autotassandosi. Il personale di segreteria è stato drasticamante ridotto, non ci sono risorse neppure per garantire ai disabili un adeguato organico sostegno. In queste condizioni ci chiediamo:  chi lo paga questo servizio, e poi, chi lo mette in pratica, dal momento che il personale a disposizione non riesce neppure a sbrigare le pratiche giornaliere? E' possibile avere una simile faccia di bronzo? Bisogna andare a nozze con i fichi secchi, ma se davvero abbiamo solo fichi secchi, ebbene, a nozze non ci possiamo andare. E allora, al di là delle iniziative isolate di qualche ministro alla disperata ricerca di una popolarità in declino, pensiamo intanto a garantire i servizi minimi essenziali, poi, se avanza qualche cosa, pensiamo a mettere un pò di ordine nella fatiscente edilizia scolastica. Una simile faccia di tolla non sarebbe stata sopportata neppure nella vecchia Democrazia Cristiana: se penso ad un personaggio altrettanto sottodotato staturalmente, mi torna alla mente Amintore Fanfani. Ma Fanfani, rispetto a questo signore è un gigante della politica e della cultura. Se andremo alle urne nei prossimi mesi l’unica speranza che mi sento di alimentare è che questo sinistro frutto della politica italiana, ai suoi minimi storici (neppure nella vecchia Democrazia Cristiana un simile guitto avrebbe avuto lunga vita) scompaia definitivamente dalla scena politica: di lui resterà solo un piccolo, disgustoso, ricordo.

Ciascuno di noi tende a darsi una visione eroica della propria biografia, sottolineandone i meriti rispetto ai vantaggi attribuiti agli altri. E’ umano. Vale anche per Berlusconi (“sono di gran lunga il miglior presidente del consiglio italiano in 150 anni di storia”) e per il suo ministro Renato Brunetta (“sono come la Cuccarini, il più amato dagli italiani”), pur così diversi fra loro: il primo è diventato in effetti molto ricco e potente, il secondo è soprattutto molto rumoroso.
Quando Renato Brunetta si scaglia contro “questa élite di merda che ha la puzza sotto il naso e ha pensato solo a far cadere il governo”, è utile ricordare la biografia che il ministro s’è voluto ritagliare su misura per i mass media: io sono un piccoletto che viene dal popolo, mio padre era venditore ambulante a Venezia, studiando ho surclassato i figli di papà, ma poi le camarille universitarie mi hanno tarpato la carriera, giro con la scorta perché i terroristi mi vogliono uccidere, sono così coraggioso che una volta ho sbattuto la porta in faccia pure a Berlusconi.
Dunque Brunetta, che aveva già finto d’indignarsi in tv con Daria Bignardi perché lei non pronunciava ammodo il nome del socialista Giacomo Brodolini, artefice dello Statuto dei lavoratori, tiene molto all’immagine di tribuno della plebe. Inelegante ma meritevole, spiccio ma generoso. Peccato che il suo turpiloquio calcolato contro l’”élite di merda” nasconda non una ma ben tre bugie.
Prima bugia. Per tenore di vita, abitudine alle comodità, godimento di privilegi, Brunetta fa parte di quella élite da quando lo conosco, e sono ormai quasi vent’anni. Né più né meno di me. La smettesse di ostentare una diversità fasulla, lui è accoccolato da una vita nella classe dirigente contro cui si scaglia. E’ vero che nell’ambito dell’establishment ha occupato a lungo posizioni di seconda e terza fila; per questo, da quando è giunto in prima fila, non manca di fare “marameo” ai potenti che ha scavalcato. Ma perché dovremmo assumere come questione politica quello che è soprattutto un complesso d’inferiorità mal risolto?
Seconda bugia. Brunetta ingigantisce le capacità cospirative e progettuali di imprenditori, banchieri, editori italiani. Teme che Luca di Montezemolo e Corrado Passera si mettano d’accordo con Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, sostenuti da Carlo De Benedetti e gli azionisti del “Corriere della Sera”? Ma va là, con poche eccezioni la borghesia italiana è talmente sgangherata da risultare sottomessa al potere berlusconiano di cui Brunetta è ingranaggio. Sono decenni che in questo paese si annunciano operazioni “terziste” che poi abortiscono. Brunetta se la prende con le “élite eversive della rendita parassitaria, burocratica, finanziaria, editoriale” sapendo perfettamente di far parte di un governo incapace, in difficoltà, che dispone di vasta maggioranza parlamentare ma non toccherà mai quelle rendite perché molti suoi sostenitori se ne avvantaggiano.
Terza bugia. Brunetta augura a “certa sinistra per male” (la sinistra “perbene” sono quelli che la pensano come lui) di “andare a morire ammazzata” (lui che si autocommisera di essere nel mirino dei terroristi), per una ragione che temo non riesca neppure a confessare a se stesso. Boicottato fin dentro il suo stesso governo, il ministro sente avvicinarsi l’ora in cui il suo bluff verrà “visto” dal popolo di cui ama riempirsi la bocca. Già una copertina dell’”Espresso” gli ha contestato i dati sul calo dell’assenteismo nella pubblica amministrazione, e Brunetta ha risposto parlando d’altro. Ma la vera domanda è: dopo tante chiacchiere, gli italiani che hanno a che fare con gli uffici pubblici si sono accorti di qualche miglioramento?

sabato 20 novembre 2010

UN'UTOPIA ANTICRISI: LA FINANZA ETICA

Pubblico il seguente articolo con un preciso intento: trovare una via d’uscita dalla crisi economico finanziaria, soprattutto, come si vedrà, con un occhio di riguardo al versante finanziario, tenendo, come sempre, presente, che economia e finanza sono le due facce di un’unica medaglia, ma mentre l’una può e deve condizionare l’altra, la finanza non deve mai influenzare pesantemente l’economia: non deve esserne asservita, ma essere funzionale ad essa. Se l’economia reale si serve della finanza per il raggiungimento dei suoi scopi (possibilmente a vantaggio della società che la ospita), allora è possibile dar vita ad un percorso virtuoso in cui la finanza, strumentale all’economia e non fine a se stessa, genera uno stato di equilibrio e benessere sociale. Se la finanza gioca da sola, un gioco svincolato dall’economia, cerca i virtuosismi truffaldini, trova espedienti fantasiosi ma di bassa lega (come i derivati e le cartolarizzazioni), si inventa speculazioni sempre più ardite nascondendosi nelle pieghe di un sistema sempre più lassista e deregolato, allora è possibile che anche un furbetto del quartierino, un operatore di mezza tacca, possa dare vita a fortune cospicue quanto effimere. Più volte abbiamo ribadito che il cammino della crisi è ancora assai lungo e tortuoso, che la luce alla fine del tunnel non si intravvede, che è impossibile, allo stato attuale, formulare previsioni di qualunque genere, eccetto quella dell’ingresso in una sorta di medioevo, di età di mezzo che ci farà attraversare una terra di nessuno al termine della quale è difficile comprendere quello che ci aspetta. Una volta entrati, dopo Portogallo e Spagna, nella bancarotta dello Stato (non quella delle banche!) ci attendono gli anni bui del caos e delle grandi incognite.
Ma se è difficile, per non dire, impossibile intuire lo scenario che farà seguito al tramonto del capitalismo (perlomeno come lo abbiamo concepito dal suo sorgere ai giorni nostri) è possibile cercare di proporre una soluzione, non diciamo a questa crisi, ma a tutte le possibili altre crisi che inevitabilmente il liberismo da ora in poi recherà con sé. Abbiamo tutti compreso che persino il presidente americano Obama, nonostante il fatto che la crisi presente sia partita, se non causata, proprio dal suo paese, non ha concretamente fatto nulla per modificare le presenti regole dei mercati e delle borse, ad onta dei suoi mendaci annunci. Ma se gli USA non hanno ancora capito che senza una introduzione di nuove regole e senza un consistente intervento da parte dello stato la finanza e quindi l’economia andranno di male in peggio, qualcuno, nella nostra Europa sta timidamente cercando di portare avanti un progetto di riforma del sistema attuale che potrebbe portare, se non ad una soluzione (per quella occorre attendere un tempo indefinito) almeno ad un miglioramento consistente delle condizioni economico finanziarie del nostro paese, con una parziale correzione del rapporto debito pubblico/pil, ed una certa stabilizzazione della volatilità, ormai cronica, dei nostri mercati finanziari. La soluzione che ci sentiamo di proporre si chiama “finanza etica” e non ha nulla a che fare con il comunismo (come penserebbe un tristo figuro come Brunetta), ma può costituire un punto di partenza per impedire la concentrazione di autentiche fortune nelle mani di pochi a scapito dei molti che non possiedono le capacità o le conoscenze per restare a galla. Non appaia fuorviante l’aggettivo “etica”: non si tratta di fare la morale agli speculatori della Borsa, ma solo di cercare di contenere i danni della finanza allegra, e di sollevare le sorti di una nazione intera, non di quell’uno per cento che dichiara al fisco di guadagnare oltre 100.000 euro, ma di quella moltitudine di contribuenti che da questa crisi usciranno con le ossa rotte, senza un lavoro e senza un euro (o una lira, che sarebbe molto peggio)

PER UNA FINANZA ETICA

La finanza e l'investimento sono sempre stati visti con i parametri del rendimento, del capitale, dell'interesse. L’attuale crisi evidenzia però la necessità, sempre di più di diffondere una nuova cultura che mira all'investimento con caratteristiche etiche, dove l'investitore mira non solo alla speculazione ma punta su attività che rispondano a certi requisiti di responsabilità sociale ed ambientale. Questa crisi ha raggiunto proporzioni allarmanti e  siamo in un momento in cui l’economia nel mondo si trova in estrema difficoltà, infatti ciò che era cominciato con prestiti concessi negli Stati Uniti è andato espandendosi a macchia d’olio sull’intero pianeta e minaccia oggi di trasformarsi in una nuova grande depressione di portata globale. Tutto ha avuto inizio con lo scoppio della bolla del mercato immobiliare americano nel 2004, dopo un lungo periodo in cui i prezzi delle case erano cresciuti costantemente. A un numero crescente di famiglie veniva data l’opportunità di accendere un mutuo, in maniera quasi indiscriminata. I creditori, infatti, si erano dati ad una pratica chiamata dei “prestiti subprime” concedendo prestiti a persone poco solubili, gente a cui normalmente non sarebbe mai stato accordato un mutuo per comprare casa. I mutui subprime prevedevano un tasso d’interesse molto basso per i primi anni e un brusco aumento nei successivi. Insomma una tecnica ben studiata per lucrare i profitti sulla concessione dei mutui senza curarsi della effettiva capacità di rimborso dei clienti.  Di solito i rischi non venivano spiegati nei dettagli, mentre i debitori venivano convinti con la prospettiva di poter rifinanziare il mutuo negli anni a venire per mantenere il tasso di interesse ai livelli iniziali. Alcuni economisti misero in guardia riguardo ai rischi che si correvano, ma la maggioranza non volle interrompere l’atmosfera festosa che regnava nel mercato immobiliare statunitense. Sembrava che tutti ci stessero guadagnando: compagnie di costruzione, agenti immobiliari, istituti bancari e produttori di materiali edili ed  i consumatori erano felici in quanto diventavano per la prima volta nella loro vita, proprietari di una casa. Il settore passò praticamente inosservato agli occhi del Governo americano, dopo anni di deregolamentazione costante ad opera del partito repubblicano. Nel periodo 2004-2006 arrivò il momento di ripagare. I tassi d’interesse sui mutui subprime schizzarono alle stelle. Molti debitori non erano semplicemente in grado di ripagare o rifinanziare. La crisi sarebbe potuta rimanere confinata agli Stati Uniti. Sfortunatamente le banche e i creditori di questi prestiti avevano venduto i debiti ad altri investitori. I debiti sminuzzati in azioni erano stati venduti a investitori stranieri e ad istituti bancari di tutto il mondo sotto forma di cavillosi pacchetti finanziari. Fu il panico: nessuno sembrava sapere di chi fossero questi debiti “senza valore”, sparsi nel sistema finanziario a tutte le latitudini del globo. Improvvisamente le banche non erano più disposte a farsi prestiti a vicenda, diffidenza che risultò in un cosiddetto “credit crunch” ossia un periodo in cui c’è poca liquidità (cioé soldi contanti) nel sistema perché nessuno presta denaro. Le perdite cominciarono ad accumularsi. A luglio 2008, grandi banche e istituzioni finanziarie a livello mondiale denunciarono perdite per circa 435 miliari di dollari. Oggi, banche e istituti finanziari non riescono a ottenere crediti e sono in fase di stallo con valori negativi nei loro libri contabili. Molti hanno dovuto dichiarare fallimento o sono sul punto di farlo. I governi sono stati obbligati a venire in soccorso di questi istituti per scongiurare un collasso dell’economia dalle conseguenze disastrose.
Questa crisi ci insegna che bisogna approfondire la sinergia tra economia ed etica e che il mercato è vero mercato quando non produce solo ricchezza ma soddisfa anche attese e valori etici. La borsa deve essere vista come un prezioso servizio all'economia di mercato in quanto gli investimenti non sono semplici speculazioni e manipolazioni individuali.L'economista, Amartya Sen, premio Nobel  sostiene che al valore della ricchezza, la quale rimane sempre un elemento base del mercato, debba essere aggiunta anche la felicità, che è un concetto diverso dal benessere. Una persona è più ricca di un'altra quando è più felice ed ha ottenuto una migliore qualità della vita. La qualità della vita diviene quindi una variabile algebrica nei calcoli economici. Il risparmiatore diviene così controllore delle conseguenze non economiche degli atti e delle azioni economiche. L’investimento etico consiste nella selezione e nella gestione degli investimenti (azioni, obbligazioni, prestiti) condizionata da criteri etici e di natura sociale, concetto racchiuso nell'espressione socially responsabile investment usata negli Stati Uniti, o ethical investment, espressione usata in Gran Bretagna. L'investitore etico è invece colui che non è unicamente interessato al rendimento delle proprie azioni, ma vuole conoscere le ragioni di fondo che realizzano questa redditività, le caratteristiche dei beni prodotti, la localizzazione dell'azienda e verificare come vengano condotti gli affari. Insomma la finanza eticamente orientata:
Ritiene che il credito, in tutte le sue forme, sia un diritto umano: non discrimina tra i destinatari degli impieghi sulla base del sesso, dell'etnia o della religione, e neanche sulla base del patrimonio, curando perciò i diritti dei poveri e degli emarginati. Finanzia quindi attività di promozione umana, sociale e ambientale, valutando i progetti col duplice criterio della vitalità economica e dell'utilità sociale.
Le garanzie sui crediti sono un'altra forma con cui i partner si assumono la responsabilità dei progetti finanziati. La finanza etica valuta altrettanto valide, al pari delle garanzie di tipo patrimoniale, quelle forme di garanzia personali, di categoria o di comunità che consentono l'accesso al credito anche alle fasce più deboli della popolazione.
Considera l'efficienza una componente della responsabilità etica: non è una forma di beneficienza: è un'attività economicamente vitale che intende essere socialmente utile. L'assunzione di responsabilità, sia nel mettere a disposizione il proprio risparmio sia nel farne un uso che consenta di conservarne il valore, è il fondamento di una partnership tra soggetti con pari dignità.
Non ritiene legittimo l'arricchimento basato sul solo possesso e scambio di denaro: il tasso di interesse, in questo contesto, è una misura di efficienza nell'utilizzo del risparmio, una misura dell'impegno a salvaguardare le risorse messe a disposizione dai risparmiatori e a farle fruttare in progetti vitali. Di conseguenza il tasso di interesse, il rendimento del risparmio, è diverso da zero ma deve essere mantenuto il più basso possibile, sulla base delle valutazioni sia economiche che sociali ed etiche.
E' trasparente: l'intermediario finanziario etico ha il dovere di trattare con riservatezza le informazioni sui risparmiatori di cui entra in possesso nel corso della sua attività, tuttavia il rapporto trasparente con il cliente impone la nominatività dei risparmi. I depositanti hanno il diritto di conoscere i processi di funzionamento dell'istituzione finanziaria e le sue decisioni di impiego e di investimento. Sarà cura dell'intermediario eticamente orientato mettere a disposizione gli opportuni canali informativi per garantire la trasparenza sulla sua attività.
Prevede la partecipazione alle scelte importanti dell'impresa non solo da parte dei soci ma anche dei risparmiatori: le forme possono comprendere sia meccanismi diretti di indicazione delle preferenze nella destinazione dei fondi, sia meccanismi democratici di partecipazione alle decisioni. La finanza etica in questo modo si fa promotrice di democrazia economica.
Ha come criteri di riferimento per gli impieghi la responsabilità sociale e ambientale: individua i campi di impiego, ed eventualmente alcuni campi preferenziali, introducendo nell'istruttoria economica criteri di riferimento basati sulla promozione dello sviluppo umano e sulla responsabilità sociale e ambientale. Esclude per principio rapporti finanziari con quelle attività economiche che ostacolano lo sviluppo umano e contribuiscono a violare i diritti fondamentali della persona, come la produzione e il commercio di armi, le produzioni gravemente lesive della salute e dell'ambiente, le attività che si fondano sullo sfruttamento dei minori o sulla repressione delle libertà civili.
Richiede un'adesione globale e coerente da parte del gestore che ne orienta tutta l'attività: qualora invece l'attività di finanza etica fosse soltanto parziale, è necessario spiegare, in modo trasparente, le ragioni della limitazione adottata. In ogni caso l'intermediario si dichiara disposto ad essere 'monitorato' da istituzioni di garanzia dei risparmiatori.

mercoledì 17 novembre 2010

LA GRANDE ILLUSIONE

Dal 2008 il mondo ha fatto ingresso nella più grave crisi economica e finanziaria della storia del capitalismo. Nulla di paragonabile a quella del 1929, se non altro perché allora esistevano i presupposti di una crescita il cui volano fu il “new deal” di Roosevelt, ma anche e soprattutto perché il mondo, a quel tempo, non era globalizzato. I blocchi contrapposti, il capitalismo occidentale da una parte e il socialismo reale dall’altra, garantivano un sostanziale equilibrio, trattandosi di economie chiuse e alternative l’una all’altra, ma non in competizione diretta. Nel mondo globalizzato del “tutti contro tutti”, dalla crisi non si esce perché ogni paese del mondo cercherà di fare il possibile per uscirne riportando la minore entità di danni possibile, a scapito degli altri paesi, con i quali si trova in diretta, perpetua competizione. Più volte ho sottolineato, da questo blog, che non si tratta, a rigore, di una “crisi”. La definizione tremontiana di “tornante della storia” rende meglio l’idea. Il naufragio dell’illusione che la globalizzazione avrebbe portato ad un maggiore cooperazione tra le nazioni del mondo e che tutto ciò si poteva tradurre in una crescita globale non ha fatto i conti con i contenuti più intrinseci, più nascosti del capitalismo. Ci troviamo nel bel mezzo di una svolta epocale, la fine del capitalismo. Questo sistema socio-politico economico ci insegna che ponendo il profitto alla sommità di ogni altro valore, non può sussistere alcuna vera cooperazione, non esiste sussidiarietà o, peggio, solidarietà, ma solo la lotta eterna della supremazia del più forte contro il più debole. Le differenze sociali non si sono allargate solo nei paesi occidentali, sono diventate cosmiche nei paesi del terzo mondo. I poveri sono realmente sempre più poveri, non più e solo nel terzo mondo, ma anche nei paesi una volta più ricchi. La vecchia Europa, incapace di darsi una unità politica, non è neppure in grado di darsene una economica. E’ di questi giorni la notizia che la UE non ha approvato il bilancio, la “finanziaria” di fine anno 2010. Si sono opposti paesi come il Regno Unito, l’Olanda e la Svezia. Ha replicato un piccato Barroso con la battuta, non lontana dalla realtà, che così facendo i tre paesi citati “si sono sparati sui piedi”. Il capitalismo ci ha abituati a pensare solo in termini egoistici, al nostro interesse particolare, schiacciando senza pietà coloro che non tengono il passo. La Germania, unico paese in grado di fronteggiare la crisi, perché unico paese in grado di produrre, mantenendo una industria pesante, si sfilerà dal’euro o creerà un euro a due velocità: uno per il nord Europa e uno per l’Europa mediterranea, più l’Irlanda. Ancora la Germania, vera locomotiva dell’Europa, condiziona completamente la BCE, controllandola in ogni sua mossa. Non essendo in grado di competere con l’industrializzazione delle tigri asiatiche (Cina, India, Malaysia ecc.) l’Europa mediterranea non potrà che soccombere e deindustrializzarsi, cercando vie alternative allo sviluppo. Una intera categoria, (una volta si chiamava “classe”) quella operaia dei metalmeccanici scomparirà del tutto. Ma mentre paesi più avveduti e meno corrotti del nostro stanno battendo queste vie alternative all’industria, in Italia, una classe di politicanti inetti e corrotti giocano agli intrighi di palazzo, suonando l’orchestrina del Titanic mentre la nave affonda. Il capitalismo è un sistema spietato, specie se lasciato a se stesso, senza regole. E’ il sistema di “homo homini lupus” nel quale il pesce grande divora quello piccolo. Una evasione fiscale spaventosa, fuori controllo, le imposte pagate solo dai contribuenti tassati ala fonte, una classe di pubblici amministratori corrotti e concussi, boiardi di stato e alti papaveri pagati fior di milioni di euro, completano il quadro. Tornano alla memoria le parole di Marx: “il capitalismo finirà il suo ciclo vitale quando esploderanno le sue contraddizioni”. Vediamole queste contraddizioni: la prima, la più importante e che “i soldi si fanno con i soldi”, e allora nasce la finanza creativa (la stessa cui si è affidata l’Irlanda), la finanza che crede, con le sole armi delle speculazioni e delle guerre delle valute pretende di produrre ricchezza (e la produce, ma solo per i singoli speculatori). I soldi si fanno viceversa con l’economia reale, con il lavoro, se la finanza si svincola da questa regola è destinata a fallire. La seconda contraddizione è costituita dagli espedienti che un mercato deregolato e abbandonato a se stesso ha permesso: si prendano gli esempi dei prodotti “derivati”, vere scatole cinesi che rimandano ad un creditore che alla fine si dissolve lasciandoti con un pugno di carte bollate, o le cartolarizzazioni, costituite da crediti in sofferenza che vengono trasformati in titoli, a loro volta dati in pagamento a qualche fesso che può solo contare sulla speranza di riscuotere un credito che in poche circostanze verrà onorato. E’ un po’ il sistema delle cambiali: di passaggio in passaggio, in luogo del pagamento in contanti, arriva a qualche utente finale che rimane ancora una volta col cerino in mano. Il fatto che la UE non abbia approvato il bilancio di fine anno e si vada verso l’esercizio provvisorio, significa che gli stanziamenti europei allo sviluppo dei paesi membri saranno inevitabilmente bloccati e si gestirà l’ordinaria amministrazione. E anche questa è una pietra tombale sull’Unione Europea che, non essendosi costituita in confederazione di stati, non essendosi data una costituzione, non essendo neppure in grado di approvare un bilancio di fine anno, sancisce di fatto la sua fine e la fine della moneta unica. Lascio a lettore immaginare le conseguenza di un ritorno alle monete nazionali: bisognerà andare a fare la spesa con una carriola piena di banconote, come nella Repubblica di Weimar. Il capitalismo è finito, ha fallito come sistema economico e sociale, non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, ma la sua fine sarà preceduta da una lunga e dolorosissima coda, da una recessione senza pari, da una pericolosa instabilità politica. Se l’Italia, come sospettiamo, andrà in default come Irlanda, Portogallo e Spagna, non ci sarà nessuno in grado di aiutarla, perché l’UE non esisterà, di fatto, neppure più, e non ci sarà neppure più l’euro a fare da scudo. L’ingresso in un nuovo medioevo appare quindi inevitabile. Un medioevo che difficilmente precluderà ad un nuovo Rinascimento,  ad un nuovo sistema economico e politico che in questa fase è difficile immaginare. Quando i titoli di stato e i bond delle banche non saranno più restituiti agli obbligazionisti speranzosi di rientrare in possesso dei loro capitali, allora una guerra civile, o la precipitazione nel caos, non sono idee così peregrine. Ha fallito il socialismo, ma c’è da vergognarsi. Il marxismo era, nella teoria, il migliore dei sistemi possibili, la natura umana è riuscita a corromperlo e a snaturarlo. Il suo antagonista non si è rivelato migliore,: ogni posto di lavoro perduto è perduto una volta per sempre, non sarà più sostituito. La grande illusione del facile arricchimento con il liberismo è arrivata all’ultima fermata. Dopo, solo la notte, il caos, e il nulla ingoieranno quello che ci circonda e che abbiamo costruito con fatica.

Roberto Tacchino

domenica 7 novembre 2010

L'EPISTOLA AI ROMANI

 
COMMENTO ALL’EPISTOLA AI ROMANI DA Rm 3,25
















“Ora i tempi si sa che cambiano,
passano e tornano tristezza e amore
da qualche parte c’è una casa più calda,
sicuramente esiste un uomo migliore
io nel frattempo ho scritto altre canzoni
di lei parlano raramente
ma non è vero che io l’abbia perduta
dimenticata, come dice la gente.”

Francesco De Gregori, "Renoir"




E così dopo tanto tempo son tornato a te
e viverti mi basta e, credi, è sufficiente
te che oramai io vivo come alibi d’amore
perché è davvero orribile accettare il niente.

Alberto Fortis, “Dio volesse”

Pubblico di seguito un breve commento al passaggio fondamentale dell’Epistola paolina ai Romani, si tratta dei versetti a partire da Rm 3,25 – lo stesso che indicò a Lutero la corretta interpretazione del sacrificio di Cristo – e che pose la prima pietra della riforma protestante. Sono qui sviluppate, con tutti i pertinenti riferimenti esegetici, le tesi della “espiazione“ e della “vicarietà” intesi come atti indispensabili alla nostra giustificazione e alla nostra salvezza, in quanto la morte espiatoria di Cristo si concreta nella totale vicarietà del suo gesto, nella sostituzione gratuita del Figlio di Dio che consente la salvezza del cristiano che può aderire ad essa per mezzo della fede, in quanto le sue opere, generate da una creatura imperfetta e spesso abietta, non potrebbero mai costituire un merito al cospetto di Dio. Ma Dio, come un tenero Padre, manda il suo figlio sulla terra, lo fa nascere come un qualsiasi uomo, e lo predispone al sacrificio espiatorio per tutto quello che la natura umana ha perduto in termini di integrità e perfezione. Cristo aderisce liberamente a questo disegno, sussistendo in lui la natura umana e divina, e gratuitamente sceglie il calvario della passione per morire inchiodato sulla croce come solo un dio può morire: attribuendo a questo gesto un significato salvifico perenne. L’uomo non partecipa al sacrificio con le buone opere, le tanto decantate opere meritorie dei papisti, perché tali opere sono il frutto del suo egoismo (ancorchè spirituale) e di una mal dissimulata ipocrisia pseudo altruistica; vi aderisce, viceversa per mezzo della sola fede nel Padre che tanto ha amato le sue creature. Questa è la sola giustificazione: la grazia è emanata dal Padre attraverso il Figlio, e raggiunge l’uomo senza che quest’ultimo possa fare qualcosa per meritarlo, se non nutrire con la propria fede le proprie opere, che non costituiranno alcun merito dinanzi a Dio, ma saranno semplicemente la naturale conseguenza della propria fede. Il corretto operare si sostanzia nell’imperativo umano di compiere il bene di per sé,  non in vista di un tornaconto spirituale. Anche gli atei compiono atti meritori ed altruistici, ma solo il Padre è capace di amare le proprie creature in modo totalmente disinteressato e spassionato, perché solo lui legge nei nostri cuori. Sottolineo , in questa breve introduzione, il concetto di Padre celeste, perché lo ritengo centrale nel problema del male e della giustificazione dell’uomo. Se è vero che siamo emanazioni dello spirito di Dio, se è vero che il nostro spirito tornerà nella sua casa celeste, lo si deve al solo fatto che la scintilla divina che alberga nella nostra anima è amata con misericordia e benevolenza dal Padre nostro, che ci ama anche se siamo tristi, soli, peccatori, malvagi, egoisti ed imperfetti, in una sola parola infelici Un segno della Grazia del Padre è anzi prprio il concetto di “infelicità” intesa non come categoria psichiatrica della mente (quella è la depressione), ma come concetto esistenziale e filosofico.
Solo un uomo consapevole della sua infinita meschinità, della sua finitudine ed imperfezione dinanzi al Padre può sviluppare e vivere il concetto di infelicità, intesa come assenza delle prerogative che ci rendono simili al Padre celeste e, al contempo, l’anelito inestinguibile di tornare a Lui. Nessun uomo può perdonare i nostri peccati, nessun sacerdote può darci l’assoluzione, perché nessun uomo può vicariare la figura di Cristo sulla terra. Ci portiamo appresso i nostri peccati come un pesante fardello, fino alla fine dei nostri giorni, consapevoli del male compiuto. Ma questa consapevolezza, che rientra nella “libertà del cristiano” fa accrescere ancor più la fede nel Padre nostro e nel suo salvifico Figlio, ci rende liberi dalle leggi lacunose e contraddittorie degli uomini, ma rafforza ancor più la nostra fede. Questo non significa che il cristiano sia al di sopra delle leggi degli uomini, ma solo che, pur rispettandole, egli sa che il Padre suo, che legge nella sua coscienza, non lo giudicherà con la durezza e l’approssimazione degli uomini, ma con la tenerezza e l’amore di un vero padre.   
Roberto Tacchino


Trattando dell’efficacia espiatoria della morte di Gesù si viene a contatto con il centro della soteriologia, con il ‘pro nobis’, così come contenuto nel Credo – e come ci sentiamo dire nelle parole del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi… mio sangue versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. 
Non si può negare che nel corso della storia della teologia fino ai nostri giorni, ci siano stati modi di spiegare e di intendere la morte espiatoria di Gesù che hanno gettato - così scrive Ratzinger nella sua Introduzione al cristianesimo - “una luce sinistra su Dio”: “Per molti cristiani… le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione… la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in una luce doppiamente sinistra… s’infiltra così nella coscienza proprio l'idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell'amore” [J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969 (Tübingen 1968), p. 228 (cf. spec. pp. 182-185.227-230; nella ultima ed. it., Brescia 142005, pp. 221-224.271-274)].
La difficoltà e la critica di fronte a questo tipo di interpretazione è legata dunque soprattutto al senso da dare a quel “per noi”: Gesù è morto a nostro favore / al nostro posto / ha espiato per noi?
Particolarmente interessante si rivela in questo senso l’epistolario paolino, per la ricchezza di categorie utilizzate nel descrivere il senso e la portata salvifica della morte di Gesù. Una di queste fa espressamente riferimento all’espiazione, fin nella terminologia cultuale, Rm 3,25: “lui Dio ha esposto pubblicamente come strumento di espiazione (i`lasth,rion), per mezzo della fede, con il suo sangue, a dimostrazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”. 
Nella nostra ricerca riguardante l’origine dell’idea neotest. – e specialmente paolina - della morte benefica-vicaria di un uomo a vantaggio (o al posto) di altri, nel capitolo successivo a quello introduttivo abbiamo cominciato con l’esaminare il pattern culturale e religionistico greco-ellenistico precedente o contemporaneo al NT.
Mentre infatti tale idea è praticamente assente nell’AT - almeno fino a 2 Mac (e 4Mac) e con l’eccezione di Is 53 - è invece massicciamente presente nella letteratura greca e romana. Essa viene espressa in particolare attraverso la forma grammaticale del ‘morire per’ - u`pe,r (peri,) / pro (per la patria o per la filosofia, per un credo, ecc.) o avnti, (u`pe,r) / in vece (di famiglia, amici, popolo, ecc.), e a volte è connessa almeno metaforicamente con la sfera cultuale; tale è la sua frequenza che deve essere stata un’idea diffusa anche in ambiente popolare, un topos ricorrente sia a livello letterario che nella cultura comune all’area geo-culturale della koinè (di cui faceva parte anche la Palestina), secondo il quale un uomo volontariamente si faceva carico della rovina di un altro o di altri e con la sua morte ‘vicaria’ salvava altri dalla rovina e/o dalla morte.
La distinzione principale che risalta tra questa concezione e il quadro neotestamentario è in particolare la presenza in quest’ultimo dell’elemento specifico dei peccati (o del ‘peccato’) da cui la morte salvifica di Cristo libera l’uomo, e che come tale è assente nelle testimonianze provenienti dal gentilesimo.
 Quest’ultimo elemento, tipico della rivelazione delle Scritture ebraiche, è particolarmente presente proprio nel concetto di espiazione emergente dallo sfondo biblico-giudaico.
Passando in rassegna il vocabolario ebraico e greco dell’AT, e soprattutto il rito d’espiazione che si compie nel giorno del Kippur con l’aspersione del sangue di un capro sulla KaPPöºret (cf. Lv 16; termine purtroppo reso dalla maggioranza delle traduzioni con ‘propiziatorio’), era emerso essenzialmente che è Dio il soggetto, è Lui di sua iniziativa che concede dei riti in cui mediante il sangue offre all’uomo la possibilità di ottenere l’espiazione, cioè la cancellazione e il perdono di tutte le sue trasgressioni/colpe/peccati, e di rientrare quindi in quella sintonia con lui che era stata compromessa da tali infedeltà. Già da questo quadro emerge che l’espiazione non può essere intesa come una punizione o una pena inflitta da Dio; e nemmeno come un ‘placamento’ o propiziazione di Dio; al contrario, è offerta e compiuta da Lui a favore dell’uomo che ne ha bisogno; resa necessaria dalle trasgressioni di Israele che inficiano il rapporto con il Dio Santo, è un evento salvifico che permette di ristabilire tale rapporto.
            Esaminando in particolare il verbo greco i`la,skomai e suoi derivati (soprattutto evxila,skomai) che nella LXX rende l’ebraico kpr (e i termini ad esso correlati), si può trarre con chiarezza questo dato fondamentale: mentre nella letteratura ellenistica extra-biblica non giudaica quel verbo greco (e quindi il culto) indicava essenzialmente un atto o un insieme di atti compiuti dall’uomo per placare o rendere propizi divinità, eroi, imperatori, defunti, ecc., nella LXX indica un atto o un insieme di atti compiuti non per propiziare o placare la divinità (Dio praticamente non è mai oggetto diretto del verbo), ma unicamente per rimuovere, cancellare, espiare, impurità o peccati (e Dio è direttamente o indirettamente - in genere attraverso il sacerdote - agente ultimo dell’azione espressa dal verbo).
Gli apocrifi dell’AT, Filone Al. e Fl. Giuseppe, si situano in sostanziale continuità con lo sfondo biblico, tranne la sporadica presenza in essi del motivo del ‘placare Dio’, probabilmente influenzato dall’uso ellenistico di (evx)i`la,skomai.
La comunità di Qumran che si riflette nei testi del Mar Morto concepisce l’espiazione essenzialmente a livello etico-spirituale, ha un’origine divina (soggetto è frequentemente Dio, a volte il suo ‘santo spirito’) ma è mediata dalla comunità stessa, la si ottiene stando in essa e praticando la sottomissione alle leggi di Dio. In particolare, per quanto riguarda l’eventualità di ravvisare in quei testi il motivo dell’espiazione vicaria (e di un possibile influsso di Is 53), si può parlare almeno di un effetto benefico a vantaggio di altri (“i figli della sua generazione”) dell’espiazione realizzata dal sommo sacerdote dell’era messianica (cf. 4Q541). Dunque è ravvisabile a Qumran - se non esplicitamente il motivo della vicarietà - almeno sicuramente il concetto di un’azione espiatrice con efficacia benefica allargata. 
Abbiamo poi rivolto la nostra attenzione a Is 53, ponendoci in primo luogo la domanda sulla presenza o meno in esso del concetto di vicarietà.
Sia i dati provenienti dalla filologia che le idee presenti nel IV canto del ‘Servo di YHWH’, concorrono nel far propendere per una risposta affermativa.
Al centro del concetto di vicarietà espresso in Is 53 c’è soprattutto la comunanza di volontà tra Dio e il Servo nell’intenzione di eliminare il peccato dei molti.
Tuttavia se è certa la presenza del concetto di vicarietà nella sofferenza-morte del Servo, bisogna anche dire che essa non è ancora pienamente sviluppata.
Riguardo poi alla complessa questione del rapporto di questo testo con le citazioni, echi, allusioni che si trovano nel NT, tutto sommato si delinea un quadro sufficientemente attendibile che consente di affermare che il quarto canto non soltanto andò acquisendo una rilevanza crescente per dare forma alla cristologia NT, ma probabilmente ha avuto già per Gesù un certo ruolo nella sua comprensione e nell’esternazione del senso da dare a ciò verso cui stava andando incontro (passione e morte; cf. citazione di Hengel p. 109), soprattutto a partire dal momento in cui questa prospettiva si andava facendo più imminente (cf. spec. le parole nell’ultima cena).  
Tale capitolo si conclude con l’analisi dei testi martirologici di 2 e 4Mac e alcune ipotesi di connessione con il pensiero paolino. La morte dei martiri giudei se da un lato viene vista dagli autori di 2 e 4Mac in continuità con l’ottica biblica della morte violenta dei profeti e della sofferenza del giusto (mentre non sembra attingere al concetto di espiazione cultuale), dall’altro spec. l’autore di 4Mac si esprime usando le categorie e il vocabolario (sia cultuale che non cultuale) che erano familiari nell’ambiente ellenistico (cf. il motivo del ‘morire per’); probabilmente sotto questo influsso culturale, in 4Mac si trova praticamente per la prima volta e in modo chiaro in ambito giudaico il motivo della morte martiriale vicaria-espiatoria (e in 2Mac quella benefica-salvifica per il popolo), in un contesto in cui si fa riferimento alla religione e alla sfera del peccato. In particolare l’uso della terminologia cultuale, con la ricorrenza del termine i`lasth,rion, per esprimere il morire di una persona speciale avente efficacia salvifica per altri, spinge a considerare seriamente la possibilità che lo sfondo originario della formula (o di quella terminologia) paolina di Rm 3,25 sia costituito in modo preponderante dalle idee concernenti il martirio, così come le troviamo espresse in 4Mac 6 e 17 (e in parte già in 2Mac 7,37-8,5).  
Nel terzo capitolo si è voluto presentare un quadro per quanto possibile completo del concetto di espiazione nel NT, riservando lo spazio maggiore all’interpretazione dei testi paolini che in varia misura esprimono il valore salvifico della morte di Gesù ‘per noi’.
Il primo passo che viene analizzato da questo punto di vista è 1Cor 15,3a-5, e in particolare l’espressione “Cristo morì per i nostri peccati”. La tradizione che ha trasmesso questa confessione di fede riportata da Paolo – in base al probabile riferimento a Is 53 (cf. pp. 141-142) - concepisce la morte di Gesù come un morire vicario a causa dei peccati di altri (‘noi’): da questo punto di vista la sua morte non solo ha una valenza espiatoria, ma esprime anche una componente di vicarietà.
A ben vedere però questo modo di esprimersi non coincide esattamente con la modalità in cui Paolo preferisce invece parlare del valore salvifico della morte di Gesù (e lo si costata in altri brani dove non riporta tradizioni precedenti), che resta più aperta e comprendente la totalità della persona beneficata (lo u`pe,r tipico paolino è connotato in modo più personalistico, è piuttosto un ‘a favore di’ / ‘a vantaggio di’ persone); riteniamo dunque che Paolo desideri che lo u`pe,r con il significato causale (“a causa dei nostri peccati”) della tradizione precedente da lui fedelmente riportata, sia compreso piuttosto in senso finale: “in espiazione dei nostri peccati” (in questo senso, ‘a favore nostro’). 
Dedicandoci poi all’analisi di 2Cor 5,21, che rappresenta – assieme a Gal 3,13 – uno dei tentativi più arditi e penetranti di spiegare la modalità inaudita e paradossale con cui Dio rende giusto il peccatore attraverso la morte di Cristo, ci siamo soffermati in particolare sul significato di ‘peccato’; vagliando le varie ipotesi interpretative, abbiamo optato infine per il senso peculiare che Paolo dà a questo termine; Dio ha reso Cristo ‘peccato’, nel senso che così è apparso sulla croce, in quanto identificato con l’umanità sotto il potere del peccato.
La presenza del ‘peccato’ nel contesto di una morte ‘pro nobis’ lascia trasparire il concetto di espiazione; e tuttavia non ci si riferisce all’espiazione cultuale-sacrificale (nel senso di Lv 4; 16; ecc.); si è invece più vicini alla descrizione della morte in termini di interscambio salvifico espresso soprattutto con le formule di donazione (‘morire per’).
In Gal 3,13 al termine ‘peccato’ di 2Cor 5,21 corrisponde in qualche modo il termine ‘maledizione’: “Cristo ci riscattò… essendo diventato per noi maledizione”. Dopo aver preso in considerazione e infine scartato l’interpretazione sacrificale di questo testo, per quanto riguarda invece la presenza del concetto di espiazione vicaria, lo si può intravedere nelle espressioni: ‘riscattare’ / ‘diventare maledizione’ per noi (pur mancando il termine specifico di ‘peccato’). 
Il quarto ed ultimo capitolo si è concentrato sul testo di Rm 3,21-26 dove è contenuta quell’unica ricorrenza del termine che esplicitamente fa riferimento all’espiazione; proprio il v. 25 costituisce il punto focale della nostra indagine, dove abbiamo fatto convergere anche parte degli elementi raccolti nella panoramica precedente.
A questo proposito si è reso necessario trattare approfonditamente il problema della eventuale pre-paolinicità dei vv. 24-26. Dopo aver preso in considerazione tutti gli indizi che emergono dal testo, concludiamo affermando che, se non siamo in presenza di una citazione vera e propria, ai vv. 25-26a si tratta almeno di materiale pre-paolino, e diamo una lettura complessiva del pensiero portante di questo brano proveniente dalla tradizione: Dio dimostra la sua giustizia (eivj e;ndeixin th/j dikaiosu,nhj auvtou/) nella morte di Gesù (evn tw/| auvtou/ ai[mati), che assume una funzione espiatrice (i`lasth,rion) per la remissione dei peccati passati (dia. th.n pa,resin tw/n progegono,twn a`marthma,twn). 
Qui la connessione tra la ‘giustizia di Dio’ e l’espiazione potrebbe far pensare che quest’ultima sia indotta, richiesta, dalla prima: una giustizia che di fronte al peccato esigerebbe riparazione o addirittura punizione; in questo senso l’espiazione avrebbe la funzione di saldare il debito dell’uomo, di dare ‘soddisfazione’ alla giustizia ferita di Dio [Questa prospettiva venne sviluppata soprattutto a partire da Anselmo d’Aosta con il suo Cur Deus Homo, che ebbe poi un influsso determinante nella dottrina della redenzione]; ma questa idea (di giustizia e di espiazione), forse familiare a chi è abituato a ragionare in termini giudiziali / retributivi – come abbiamo mostrato nell’excursus sulla giustizia di Dio – non corrisponde a quella biblico-giudaica già precedente a Paolo (e al NT). E d’altra parte, come abbiamo visto riguardo al background giudaico sul concetto di espiazione, non è Dio ad esigere l’espiazione dall’uomo (e in ogni caso non per tornare propizio dopo l’incollerimento dovuto ai peccati), quanto piuttosto è Lui di sua iniziativa a fornire all’uomo l’espiazione (cf. Lv 17,11b: “Io ho dato esso [il sangue] a voi per espiare per le vostre vite”); è l’uomo in quanto peccatore che ha bisogno di questo atto salvifico per rientrare in quel rapporto di alleanza compromesso dai peccati e dalle trasgressioni. 
Paolo riprende questa tradizione proto-cristiana nella sua peculiarità conferendole però, come si vede nell’analisi particolareggiata, un chiaro tenore di universalità sia riguardo al tempo (cf. v. 26c: evn tw/| nu/n kairw/|) sia ai destinatari (cf. v. 26e: to.n evk pi,stewj VIhsou/), e soprattutto inserendo l’elemento chiave dia. Îth/jÐ pi,stewj (v. 25b) che forma quasi un ritornello con il resto della sezione: dia. pi,stewj VI.C. / eivj pa,ntaj tou.j pisteu,ontaj / to.n evk pi,stewj VIÅ (vv. 22b; 22c; 26e).
Nell’interpretazione del termine i`lasth,rion, abbiamo valutato con cura le ipotesi più ricorrenti tra quelle riportate dagli studiosi, concentrandole poi nelle due principali, quella tipologica (cf. Lv 16) e quella martiriale (cf. 4Mac 17).
Se con questa menzione di i`lasth,rion non si può escludere che ci si riferisca alla KaPPöºret  del Santo dei Santi (come è dimostrato da Eb 9,5) e al rito dello Yom Kippur - anzi, ciò è quasi certo pensando alla origine e alla probabile diffusione di questa tradizione pre-paolina di stampo giudeo-cristiano - va evidenziato comunque che Paolo non la sviluppa né la chiarisce, lasciando la possibilità ai cristiani di Roma, anche a quelli di origine gentile, di collegarla al concetto di espiazione inteso in senso generale, ‘strumento/mezzo di espiazione’, come d’altronde è rinvenibile riguardo alla tradizione della morte dei martiri in 4Mac 17,22.
In tutti e due i casi resterebbe salvo l’essenziale: il morire di Gesù è concepito quale evento espiatorio escatologico attraverso il quale Dio dimostra la sua giustizia e dona il perdono dei peccati.
Paolo non si sofferma a spiegare che cos’è l’espiazione, al contrario propone questa categoria concettuale ricca di potenzialità metaforiche (che suppone sufficientemente familiare ai suoi destinatari), come un modo (non l’unico, né necessariamente il più importante) per esplicitare la redenzione che è in Cristo Gesù. Ulteriori elementi utili all’interpretazione del nostro brano possono pervenire proprio dall’esame della metaforicità dei termini usati e da una disamina attenta della struttura del passo, in particolare dall’interdipendenza tra avpolu,trwsij e i`lasth,rion (v. 24b e 25a). La avpolu,trwsij / ‘redenzione’, termine tratto dalla sfera sociale, pur nel suo ideale riferimento agli eventi di liberazione sperimentati dal popolo d’Israele, resta prevalentemente metaforico e pertanto offre un’indicazione tutto sommato indefinita dell’azione benefica di Dio, del modo cioè con cui egli realizza la giustificazione del peccatore; essa trova qui una sua interpretazione e concretizzazione proprio attraverso l’altra metafora, quella cultuale-espiatoria rappresentata da i`lasth,rion.
In qualche modo la metafora cultuale spiega e compensa  quella sociale, ma allo stesso tempo quella sociale impedisce a quella cultuale di restringersi al solo aspetto della prassi rituale dell’espiazione (cf. l’interpretazione tipologica), di un i`lasth,rion cioè che sia semplicemente una ‘nuova KaPPöºret ’.
In questo ci distinguiamo dalle opinioni degli autori delle monografie nominate all’inizio e riteniamo, soprattutto attraverso l’evidenziazione della reciproca dipendenza tra avpolu,trwsij - ‘redenzione’ e i`lasth,rion , di aver offerto un ulteriore argomento a favore di una interpretazione che attribuisce a quest’ultimo il senso più generale, ‘espiazione’ / ‘mezzo (o strumento) di espiazione’ (e quindi le traduzioni moderne dovrebbero andare in questa direzione).
Di fronte dunque alle domande che ci ponevamo all’inizio su come intendere il pro nobis della morte salvifica di Cristo e il senso dell’espiazione secondo Paolo, possiamo costatare che proprio il passo più emblematico (Rm 3,25), in cui esplicitamente si parla della morte espiatoria di Gesù, non soltanto afferma che è Dio il soggetto di questo evento volto alla remissione dei peccati, ma il contesto in cui esso è posto esprime con forza e in vari modi il fatto che veniamo giustificati gratuitamente con la sua grazia e non per merito delle nostre opere, tanto meno quelle volte a ‘propiziare’ o ‘soddisfare’ un Dio desideroso di pareggiare i conti!

Allo stesso tempo questo dono di Dio non toglie all’uomo la dignità e la capacità di prendere parte all’evento dell’espiazione (o della riconciliazione, cf. 2Cor 5,18-21), in questo caso per mezzo della libera accettazione di questo dono, e cioè per mezzo della fede (in Cristo Gesù, gen. ogg.; la menzione della fede oltre che in Rm 3,22b.c.26e la troviamo anche in Gal 3,14c). 
Egli non è il figlio su cui Dio scarica la sua ira destinata a noi, bensì colui che restando fedele fino all’estremo, sia al progetto salvifico dal Padre, sia alla sua solidarietà con noi, diviene mediatore coinvolgendo tutti noi in quel suo ‘sì’ (cf. 2Cor 1,19-20) che rende possibile la rinnovata comunione con Dio e con i fratelli. Questa doppia relazione è costitutiva della persona di Gesù Cristo. In questa doppia relazione Egli è il mediatore, e la croce – con il suo valore espiatorio – costituisce il grande evento di tale mediazione.
Quando usiamo il termine ‘vicario’ o ‘vicarietà’ (espiazione ‘vicaria’, ecc.), a proposito dell’effetto benefico per altri della morte di Cristo abbiamo in mente ciò che si cerca di esprimere attraverso il termine tecnico tedesco ‘Stellvertretung’, la cui la resa migliore, alla luce del quadro biblico-teologico, forse è ‘rappresentanza solidale’.
© G. Pulcinelli