domenica 7 novembre 2010

L'EPISTOLA AI ROMANI

 
COMMENTO ALL’EPISTOLA AI ROMANI DA Rm 3,25
















“Ora i tempi si sa che cambiano,
passano e tornano tristezza e amore
da qualche parte c’è una casa più calda,
sicuramente esiste un uomo migliore
io nel frattempo ho scritto altre canzoni
di lei parlano raramente
ma non è vero che io l’abbia perduta
dimenticata, come dice la gente.”

Francesco De Gregori, "Renoir"




E così dopo tanto tempo son tornato a te
e viverti mi basta e, credi, è sufficiente
te che oramai io vivo come alibi d’amore
perché è davvero orribile accettare il niente.

Alberto Fortis, “Dio volesse”

Pubblico di seguito un breve commento al passaggio fondamentale dell’Epistola paolina ai Romani, si tratta dei versetti a partire da Rm 3,25 – lo stesso che indicò a Lutero la corretta interpretazione del sacrificio di Cristo – e che pose la prima pietra della riforma protestante. Sono qui sviluppate, con tutti i pertinenti riferimenti esegetici, le tesi della “espiazione“ e della “vicarietà” intesi come atti indispensabili alla nostra giustificazione e alla nostra salvezza, in quanto la morte espiatoria di Cristo si concreta nella totale vicarietà del suo gesto, nella sostituzione gratuita del Figlio di Dio che consente la salvezza del cristiano che può aderire ad essa per mezzo della fede, in quanto le sue opere, generate da una creatura imperfetta e spesso abietta, non potrebbero mai costituire un merito al cospetto di Dio. Ma Dio, come un tenero Padre, manda il suo figlio sulla terra, lo fa nascere come un qualsiasi uomo, e lo predispone al sacrificio espiatorio per tutto quello che la natura umana ha perduto in termini di integrità e perfezione. Cristo aderisce liberamente a questo disegno, sussistendo in lui la natura umana e divina, e gratuitamente sceglie il calvario della passione per morire inchiodato sulla croce come solo un dio può morire: attribuendo a questo gesto un significato salvifico perenne. L’uomo non partecipa al sacrificio con le buone opere, le tanto decantate opere meritorie dei papisti, perché tali opere sono il frutto del suo egoismo (ancorchè spirituale) e di una mal dissimulata ipocrisia pseudo altruistica; vi aderisce, viceversa per mezzo della sola fede nel Padre che tanto ha amato le sue creature. Questa è la sola giustificazione: la grazia è emanata dal Padre attraverso il Figlio, e raggiunge l’uomo senza che quest’ultimo possa fare qualcosa per meritarlo, se non nutrire con la propria fede le proprie opere, che non costituiranno alcun merito dinanzi a Dio, ma saranno semplicemente la naturale conseguenza della propria fede. Il corretto operare si sostanzia nell’imperativo umano di compiere il bene di per sé,  non in vista di un tornaconto spirituale. Anche gli atei compiono atti meritori ed altruistici, ma solo il Padre è capace di amare le proprie creature in modo totalmente disinteressato e spassionato, perché solo lui legge nei nostri cuori. Sottolineo , in questa breve introduzione, il concetto di Padre celeste, perché lo ritengo centrale nel problema del male e della giustificazione dell’uomo. Se è vero che siamo emanazioni dello spirito di Dio, se è vero che il nostro spirito tornerà nella sua casa celeste, lo si deve al solo fatto che la scintilla divina che alberga nella nostra anima è amata con misericordia e benevolenza dal Padre nostro, che ci ama anche se siamo tristi, soli, peccatori, malvagi, egoisti ed imperfetti, in una sola parola infelici Un segno della Grazia del Padre è anzi prprio il concetto di “infelicità” intesa non come categoria psichiatrica della mente (quella è la depressione), ma come concetto esistenziale e filosofico.
Solo un uomo consapevole della sua infinita meschinità, della sua finitudine ed imperfezione dinanzi al Padre può sviluppare e vivere il concetto di infelicità, intesa come assenza delle prerogative che ci rendono simili al Padre celeste e, al contempo, l’anelito inestinguibile di tornare a Lui. Nessun uomo può perdonare i nostri peccati, nessun sacerdote può darci l’assoluzione, perché nessun uomo può vicariare la figura di Cristo sulla terra. Ci portiamo appresso i nostri peccati come un pesante fardello, fino alla fine dei nostri giorni, consapevoli del male compiuto. Ma questa consapevolezza, che rientra nella “libertà del cristiano” fa accrescere ancor più la fede nel Padre nostro e nel suo salvifico Figlio, ci rende liberi dalle leggi lacunose e contraddittorie degli uomini, ma rafforza ancor più la nostra fede. Questo non significa che il cristiano sia al di sopra delle leggi degli uomini, ma solo che, pur rispettandole, egli sa che il Padre suo, che legge nella sua coscienza, non lo giudicherà con la durezza e l’approssimazione degli uomini, ma con la tenerezza e l’amore di un vero padre.   
Roberto Tacchino


Trattando dell’efficacia espiatoria della morte di Gesù si viene a contatto con il centro della soteriologia, con il ‘pro nobis’, così come contenuto nel Credo – e come ci sentiamo dire nelle parole del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi… mio sangue versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. 
Non si può negare che nel corso della storia della teologia fino ai nostri giorni, ci siano stati modi di spiegare e di intendere la morte espiatoria di Gesù che hanno gettato - così scrive Ratzinger nella sua Introduzione al cristianesimo - “una luce sinistra su Dio”: “Per molti cristiani… le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione… la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in una luce doppiamente sinistra… s’infiltra così nella coscienza proprio l'idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell'amore” [J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969 (Tübingen 1968), p. 228 (cf. spec. pp. 182-185.227-230; nella ultima ed. it., Brescia 142005, pp. 221-224.271-274)].
La difficoltà e la critica di fronte a questo tipo di interpretazione è legata dunque soprattutto al senso da dare a quel “per noi”: Gesù è morto a nostro favore / al nostro posto / ha espiato per noi?
Particolarmente interessante si rivela in questo senso l’epistolario paolino, per la ricchezza di categorie utilizzate nel descrivere il senso e la portata salvifica della morte di Gesù. Una di queste fa espressamente riferimento all’espiazione, fin nella terminologia cultuale, Rm 3,25: “lui Dio ha esposto pubblicamente come strumento di espiazione (i`lasth,rion), per mezzo della fede, con il suo sangue, a dimostrazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”. 
Nella nostra ricerca riguardante l’origine dell’idea neotest. – e specialmente paolina - della morte benefica-vicaria di un uomo a vantaggio (o al posto) di altri, nel capitolo successivo a quello introduttivo abbiamo cominciato con l’esaminare il pattern culturale e religionistico greco-ellenistico precedente o contemporaneo al NT.
Mentre infatti tale idea è praticamente assente nell’AT - almeno fino a 2 Mac (e 4Mac) e con l’eccezione di Is 53 - è invece massicciamente presente nella letteratura greca e romana. Essa viene espressa in particolare attraverso la forma grammaticale del ‘morire per’ - u`pe,r (peri,) / pro (per la patria o per la filosofia, per un credo, ecc.) o avnti, (u`pe,r) / in vece (di famiglia, amici, popolo, ecc.), e a volte è connessa almeno metaforicamente con la sfera cultuale; tale è la sua frequenza che deve essere stata un’idea diffusa anche in ambiente popolare, un topos ricorrente sia a livello letterario che nella cultura comune all’area geo-culturale della koinè (di cui faceva parte anche la Palestina), secondo il quale un uomo volontariamente si faceva carico della rovina di un altro o di altri e con la sua morte ‘vicaria’ salvava altri dalla rovina e/o dalla morte.
La distinzione principale che risalta tra questa concezione e il quadro neotestamentario è in particolare la presenza in quest’ultimo dell’elemento specifico dei peccati (o del ‘peccato’) da cui la morte salvifica di Cristo libera l’uomo, e che come tale è assente nelle testimonianze provenienti dal gentilesimo.
 Quest’ultimo elemento, tipico della rivelazione delle Scritture ebraiche, è particolarmente presente proprio nel concetto di espiazione emergente dallo sfondo biblico-giudaico.
Passando in rassegna il vocabolario ebraico e greco dell’AT, e soprattutto il rito d’espiazione che si compie nel giorno del Kippur con l’aspersione del sangue di un capro sulla KaPPöºret (cf. Lv 16; termine purtroppo reso dalla maggioranza delle traduzioni con ‘propiziatorio’), era emerso essenzialmente che è Dio il soggetto, è Lui di sua iniziativa che concede dei riti in cui mediante il sangue offre all’uomo la possibilità di ottenere l’espiazione, cioè la cancellazione e il perdono di tutte le sue trasgressioni/colpe/peccati, e di rientrare quindi in quella sintonia con lui che era stata compromessa da tali infedeltà. Già da questo quadro emerge che l’espiazione non può essere intesa come una punizione o una pena inflitta da Dio; e nemmeno come un ‘placamento’ o propiziazione di Dio; al contrario, è offerta e compiuta da Lui a favore dell’uomo che ne ha bisogno; resa necessaria dalle trasgressioni di Israele che inficiano il rapporto con il Dio Santo, è un evento salvifico che permette di ristabilire tale rapporto.
            Esaminando in particolare il verbo greco i`la,skomai e suoi derivati (soprattutto evxila,skomai) che nella LXX rende l’ebraico kpr (e i termini ad esso correlati), si può trarre con chiarezza questo dato fondamentale: mentre nella letteratura ellenistica extra-biblica non giudaica quel verbo greco (e quindi il culto) indicava essenzialmente un atto o un insieme di atti compiuti dall’uomo per placare o rendere propizi divinità, eroi, imperatori, defunti, ecc., nella LXX indica un atto o un insieme di atti compiuti non per propiziare o placare la divinità (Dio praticamente non è mai oggetto diretto del verbo), ma unicamente per rimuovere, cancellare, espiare, impurità o peccati (e Dio è direttamente o indirettamente - in genere attraverso il sacerdote - agente ultimo dell’azione espressa dal verbo).
Gli apocrifi dell’AT, Filone Al. e Fl. Giuseppe, si situano in sostanziale continuità con lo sfondo biblico, tranne la sporadica presenza in essi del motivo del ‘placare Dio’, probabilmente influenzato dall’uso ellenistico di (evx)i`la,skomai.
La comunità di Qumran che si riflette nei testi del Mar Morto concepisce l’espiazione essenzialmente a livello etico-spirituale, ha un’origine divina (soggetto è frequentemente Dio, a volte il suo ‘santo spirito’) ma è mediata dalla comunità stessa, la si ottiene stando in essa e praticando la sottomissione alle leggi di Dio. In particolare, per quanto riguarda l’eventualità di ravvisare in quei testi il motivo dell’espiazione vicaria (e di un possibile influsso di Is 53), si può parlare almeno di un effetto benefico a vantaggio di altri (“i figli della sua generazione”) dell’espiazione realizzata dal sommo sacerdote dell’era messianica (cf. 4Q541). Dunque è ravvisabile a Qumran - se non esplicitamente il motivo della vicarietà - almeno sicuramente il concetto di un’azione espiatrice con efficacia benefica allargata. 
Abbiamo poi rivolto la nostra attenzione a Is 53, ponendoci in primo luogo la domanda sulla presenza o meno in esso del concetto di vicarietà.
Sia i dati provenienti dalla filologia che le idee presenti nel IV canto del ‘Servo di YHWH’, concorrono nel far propendere per una risposta affermativa.
Al centro del concetto di vicarietà espresso in Is 53 c’è soprattutto la comunanza di volontà tra Dio e il Servo nell’intenzione di eliminare il peccato dei molti.
Tuttavia se è certa la presenza del concetto di vicarietà nella sofferenza-morte del Servo, bisogna anche dire che essa non è ancora pienamente sviluppata.
Riguardo poi alla complessa questione del rapporto di questo testo con le citazioni, echi, allusioni che si trovano nel NT, tutto sommato si delinea un quadro sufficientemente attendibile che consente di affermare che il quarto canto non soltanto andò acquisendo una rilevanza crescente per dare forma alla cristologia NT, ma probabilmente ha avuto già per Gesù un certo ruolo nella sua comprensione e nell’esternazione del senso da dare a ciò verso cui stava andando incontro (passione e morte; cf. citazione di Hengel p. 109), soprattutto a partire dal momento in cui questa prospettiva si andava facendo più imminente (cf. spec. le parole nell’ultima cena).  
Tale capitolo si conclude con l’analisi dei testi martirologici di 2 e 4Mac e alcune ipotesi di connessione con il pensiero paolino. La morte dei martiri giudei se da un lato viene vista dagli autori di 2 e 4Mac in continuità con l’ottica biblica della morte violenta dei profeti e della sofferenza del giusto (mentre non sembra attingere al concetto di espiazione cultuale), dall’altro spec. l’autore di 4Mac si esprime usando le categorie e il vocabolario (sia cultuale che non cultuale) che erano familiari nell’ambiente ellenistico (cf. il motivo del ‘morire per’); probabilmente sotto questo influsso culturale, in 4Mac si trova praticamente per la prima volta e in modo chiaro in ambito giudaico il motivo della morte martiriale vicaria-espiatoria (e in 2Mac quella benefica-salvifica per il popolo), in un contesto in cui si fa riferimento alla religione e alla sfera del peccato. In particolare l’uso della terminologia cultuale, con la ricorrenza del termine i`lasth,rion, per esprimere il morire di una persona speciale avente efficacia salvifica per altri, spinge a considerare seriamente la possibilità che lo sfondo originario della formula (o di quella terminologia) paolina di Rm 3,25 sia costituito in modo preponderante dalle idee concernenti il martirio, così come le troviamo espresse in 4Mac 6 e 17 (e in parte già in 2Mac 7,37-8,5).  
Nel terzo capitolo si è voluto presentare un quadro per quanto possibile completo del concetto di espiazione nel NT, riservando lo spazio maggiore all’interpretazione dei testi paolini che in varia misura esprimono il valore salvifico della morte di Gesù ‘per noi’.
Il primo passo che viene analizzato da questo punto di vista è 1Cor 15,3a-5, e in particolare l’espressione “Cristo morì per i nostri peccati”. La tradizione che ha trasmesso questa confessione di fede riportata da Paolo – in base al probabile riferimento a Is 53 (cf. pp. 141-142) - concepisce la morte di Gesù come un morire vicario a causa dei peccati di altri (‘noi’): da questo punto di vista la sua morte non solo ha una valenza espiatoria, ma esprime anche una componente di vicarietà.
A ben vedere però questo modo di esprimersi non coincide esattamente con la modalità in cui Paolo preferisce invece parlare del valore salvifico della morte di Gesù (e lo si costata in altri brani dove non riporta tradizioni precedenti), che resta più aperta e comprendente la totalità della persona beneficata (lo u`pe,r tipico paolino è connotato in modo più personalistico, è piuttosto un ‘a favore di’ / ‘a vantaggio di’ persone); riteniamo dunque che Paolo desideri che lo u`pe,r con il significato causale (“a causa dei nostri peccati”) della tradizione precedente da lui fedelmente riportata, sia compreso piuttosto in senso finale: “in espiazione dei nostri peccati” (in questo senso, ‘a favore nostro’). 
Dedicandoci poi all’analisi di 2Cor 5,21, che rappresenta – assieme a Gal 3,13 – uno dei tentativi più arditi e penetranti di spiegare la modalità inaudita e paradossale con cui Dio rende giusto il peccatore attraverso la morte di Cristo, ci siamo soffermati in particolare sul significato di ‘peccato’; vagliando le varie ipotesi interpretative, abbiamo optato infine per il senso peculiare che Paolo dà a questo termine; Dio ha reso Cristo ‘peccato’, nel senso che così è apparso sulla croce, in quanto identificato con l’umanità sotto il potere del peccato.
La presenza del ‘peccato’ nel contesto di una morte ‘pro nobis’ lascia trasparire il concetto di espiazione; e tuttavia non ci si riferisce all’espiazione cultuale-sacrificale (nel senso di Lv 4; 16; ecc.); si è invece più vicini alla descrizione della morte in termini di interscambio salvifico espresso soprattutto con le formule di donazione (‘morire per’).
In Gal 3,13 al termine ‘peccato’ di 2Cor 5,21 corrisponde in qualche modo il termine ‘maledizione’: “Cristo ci riscattò… essendo diventato per noi maledizione”. Dopo aver preso in considerazione e infine scartato l’interpretazione sacrificale di questo testo, per quanto riguarda invece la presenza del concetto di espiazione vicaria, lo si può intravedere nelle espressioni: ‘riscattare’ / ‘diventare maledizione’ per noi (pur mancando il termine specifico di ‘peccato’). 
Il quarto ed ultimo capitolo si è concentrato sul testo di Rm 3,21-26 dove è contenuta quell’unica ricorrenza del termine che esplicitamente fa riferimento all’espiazione; proprio il v. 25 costituisce il punto focale della nostra indagine, dove abbiamo fatto convergere anche parte degli elementi raccolti nella panoramica precedente.
A questo proposito si è reso necessario trattare approfonditamente il problema della eventuale pre-paolinicità dei vv. 24-26. Dopo aver preso in considerazione tutti gli indizi che emergono dal testo, concludiamo affermando che, se non siamo in presenza di una citazione vera e propria, ai vv. 25-26a si tratta almeno di materiale pre-paolino, e diamo una lettura complessiva del pensiero portante di questo brano proveniente dalla tradizione: Dio dimostra la sua giustizia (eivj e;ndeixin th/j dikaiosu,nhj auvtou/) nella morte di Gesù (evn tw/| auvtou/ ai[mati), che assume una funzione espiatrice (i`lasth,rion) per la remissione dei peccati passati (dia. th.n pa,resin tw/n progegono,twn a`marthma,twn). 
Qui la connessione tra la ‘giustizia di Dio’ e l’espiazione potrebbe far pensare che quest’ultima sia indotta, richiesta, dalla prima: una giustizia che di fronte al peccato esigerebbe riparazione o addirittura punizione; in questo senso l’espiazione avrebbe la funzione di saldare il debito dell’uomo, di dare ‘soddisfazione’ alla giustizia ferita di Dio [Questa prospettiva venne sviluppata soprattutto a partire da Anselmo d’Aosta con il suo Cur Deus Homo, che ebbe poi un influsso determinante nella dottrina della redenzione]; ma questa idea (di giustizia e di espiazione), forse familiare a chi è abituato a ragionare in termini giudiziali / retributivi – come abbiamo mostrato nell’excursus sulla giustizia di Dio – non corrisponde a quella biblico-giudaica già precedente a Paolo (e al NT). E d’altra parte, come abbiamo visto riguardo al background giudaico sul concetto di espiazione, non è Dio ad esigere l’espiazione dall’uomo (e in ogni caso non per tornare propizio dopo l’incollerimento dovuto ai peccati), quanto piuttosto è Lui di sua iniziativa a fornire all’uomo l’espiazione (cf. Lv 17,11b: “Io ho dato esso [il sangue] a voi per espiare per le vostre vite”); è l’uomo in quanto peccatore che ha bisogno di questo atto salvifico per rientrare in quel rapporto di alleanza compromesso dai peccati e dalle trasgressioni. 
Paolo riprende questa tradizione proto-cristiana nella sua peculiarità conferendole però, come si vede nell’analisi particolareggiata, un chiaro tenore di universalità sia riguardo al tempo (cf. v. 26c: evn tw/| nu/n kairw/|) sia ai destinatari (cf. v. 26e: to.n evk pi,stewj VIhsou/), e soprattutto inserendo l’elemento chiave dia. Îth/jÐ pi,stewj (v. 25b) che forma quasi un ritornello con il resto della sezione: dia. pi,stewj VI.C. / eivj pa,ntaj tou.j pisteu,ontaj / to.n evk pi,stewj VIÅ (vv. 22b; 22c; 26e).
Nell’interpretazione del termine i`lasth,rion, abbiamo valutato con cura le ipotesi più ricorrenti tra quelle riportate dagli studiosi, concentrandole poi nelle due principali, quella tipologica (cf. Lv 16) e quella martiriale (cf. 4Mac 17).
Se con questa menzione di i`lasth,rion non si può escludere che ci si riferisca alla KaPPöºret  del Santo dei Santi (come è dimostrato da Eb 9,5) e al rito dello Yom Kippur - anzi, ciò è quasi certo pensando alla origine e alla probabile diffusione di questa tradizione pre-paolina di stampo giudeo-cristiano - va evidenziato comunque che Paolo non la sviluppa né la chiarisce, lasciando la possibilità ai cristiani di Roma, anche a quelli di origine gentile, di collegarla al concetto di espiazione inteso in senso generale, ‘strumento/mezzo di espiazione’, come d’altronde è rinvenibile riguardo alla tradizione della morte dei martiri in 4Mac 17,22.
In tutti e due i casi resterebbe salvo l’essenziale: il morire di Gesù è concepito quale evento espiatorio escatologico attraverso il quale Dio dimostra la sua giustizia e dona il perdono dei peccati.
Paolo non si sofferma a spiegare che cos’è l’espiazione, al contrario propone questa categoria concettuale ricca di potenzialità metaforiche (che suppone sufficientemente familiare ai suoi destinatari), come un modo (non l’unico, né necessariamente il più importante) per esplicitare la redenzione che è in Cristo Gesù. Ulteriori elementi utili all’interpretazione del nostro brano possono pervenire proprio dall’esame della metaforicità dei termini usati e da una disamina attenta della struttura del passo, in particolare dall’interdipendenza tra avpolu,trwsij e i`lasth,rion (v. 24b e 25a). La avpolu,trwsij / ‘redenzione’, termine tratto dalla sfera sociale, pur nel suo ideale riferimento agli eventi di liberazione sperimentati dal popolo d’Israele, resta prevalentemente metaforico e pertanto offre un’indicazione tutto sommato indefinita dell’azione benefica di Dio, del modo cioè con cui egli realizza la giustificazione del peccatore; essa trova qui una sua interpretazione e concretizzazione proprio attraverso l’altra metafora, quella cultuale-espiatoria rappresentata da i`lasth,rion.
In qualche modo la metafora cultuale spiega e compensa  quella sociale, ma allo stesso tempo quella sociale impedisce a quella cultuale di restringersi al solo aspetto della prassi rituale dell’espiazione (cf. l’interpretazione tipologica), di un i`lasth,rion cioè che sia semplicemente una ‘nuova KaPPöºret ’.
In questo ci distinguiamo dalle opinioni degli autori delle monografie nominate all’inizio e riteniamo, soprattutto attraverso l’evidenziazione della reciproca dipendenza tra avpolu,trwsij - ‘redenzione’ e i`lasth,rion , di aver offerto un ulteriore argomento a favore di una interpretazione che attribuisce a quest’ultimo il senso più generale, ‘espiazione’ / ‘mezzo (o strumento) di espiazione’ (e quindi le traduzioni moderne dovrebbero andare in questa direzione).
Di fronte dunque alle domande che ci ponevamo all’inizio su come intendere il pro nobis della morte salvifica di Cristo e il senso dell’espiazione secondo Paolo, possiamo costatare che proprio il passo più emblematico (Rm 3,25), in cui esplicitamente si parla della morte espiatoria di Gesù, non soltanto afferma che è Dio il soggetto di questo evento volto alla remissione dei peccati, ma il contesto in cui esso è posto esprime con forza e in vari modi il fatto che veniamo giustificati gratuitamente con la sua grazia e non per merito delle nostre opere, tanto meno quelle volte a ‘propiziare’ o ‘soddisfare’ un Dio desideroso di pareggiare i conti!

Allo stesso tempo questo dono di Dio non toglie all’uomo la dignità e la capacità di prendere parte all’evento dell’espiazione (o della riconciliazione, cf. 2Cor 5,18-21), in questo caso per mezzo della libera accettazione di questo dono, e cioè per mezzo della fede (in Cristo Gesù, gen. ogg.; la menzione della fede oltre che in Rm 3,22b.c.26e la troviamo anche in Gal 3,14c). 
Egli non è il figlio su cui Dio scarica la sua ira destinata a noi, bensì colui che restando fedele fino all’estremo, sia al progetto salvifico dal Padre, sia alla sua solidarietà con noi, diviene mediatore coinvolgendo tutti noi in quel suo ‘sì’ (cf. 2Cor 1,19-20) che rende possibile la rinnovata comunione con Dio e con i fratelli. Questa doppia relazione è costitutiva della persona di Gesù Cristo. In questa doppia relazione Egli è il mediatore, e la croce – con il suo valore espiatorio – costituisce il grande evento di tale mediazione.
Quando usiamo il termine ‘vicario’ o ‘vicarietà’ (espiazione ‘vicaria’, ecc.), a proposito dell’effetto benefico per altri della morte di Cristo abbiamo in mente ciò che si cerca di esprimere attraverso il termine tecnico tedesco ‘Stellvertretung’, la cui la resa migliore, alla luce del quadro biblico-teologico, forse è ‘rappresentanza solidale’.
© G. Pulcinelli