domenica 27 febbraio 2011

SE LO STATO DIVENTA UN ESATTORE

Tutti noi siamo incorsi almeno una volta in una cartella “pazza”, nel diritto ad un rimborso da parte dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, nel pagamento di multe, sanzioni a vario titolo, cartelle esattoriali e quant’altro. A prima vista, ad una panoramica sommaria, un dato colpisce immediatamente: nel caso di errore (sempre possibile nelle umane cose), tale errore, se imputabile all’ente preposto alla riscossione, non è mai a danno dell’ente medesimo, ma sempre, dico sempre, a danno del cittadino. Già questo dato, di per sé, fa sorgere qualche legittimo sospetto. Si dirà: ci sono i sistemi informativi, tutto è informatizzato, quasi a escludere l’errore umano. D’accordo per l’informatizzazione, ma un sistema, un software, per quanto complesso, deve essere impostato con parametri e profili che siamo noi a decidere. Altro dato che fa riflettere: allorquando il cittadino maturi il diritto ad un rimborso, o ad un risarcimento da parte dell’Agenzia delle Entrate o di un ente previdenziale, i tempi si allungano smisuratamente. Ci sono dei rimborsi che deve effettuare l’INPS ai superstiti, in caso di morte di un proprio congiunto, che prevedono tempi di sei anni (avete letto bene, proprio sei anni). Viceversa, quando mia madre è scomparsa, il giorno stesso della sua morte ho provveduto ad inviare all’INPS una Posta elettronica certificata attestante il decesso: bene, dopo due ore di numero, la sua pensione era stata rimossa. In compenso, per riscuotere i ratei di tredicesima cui aveva diritto, occorre fare una domanda cartacea da presentare allo sportello, ed attendere mesi, se non anni. Nel primo caso la PEC funziona benissimo, nel secondo non viene accettata, occorre recarsi di persona presso le sedi dell’INPS che ricevono solo al mattino (con la sola eccezione di due ore pomeridiane del lunedì). E’ l’unico caso a me noto di funzionamento della PEC, uno dei fiaschi più clamorosi del Ministro dell’Innovazione. Quando si verifica un errore a danno del contribuente, il cittadino ha l’onere della prova, deve telefonare per ottenere informazioni, recarsi di persona presso l’ufficio preposto, compilare una montagna di carte bollate (altro che PEC!). Per poi, ad ogni sollecito, sentirsi rispondere che il carico di lavoro degli uffici è enorme, si farà il possibile per chiudere la sua pratica, ma che bisogna avere pazienza, e intanto il tempo passa. E intanto, col passare del tempo, cambiano tante cose: un improvviso cambiamento in famiglia, uno spostamento di residenza, un lutto che modifica gli assetti familiari, insomma lo Stato sembra fare affidamento sul trascorrere dei mesi e degli anni, fiducioso che il cittadino, per dimenticanza, per qualche sconvolgimento della sua vita, o semplicemente perché è morto nel frattempo, non avanzerà più pretese su quel credito. In un paese dove il 10% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza della nazione, dove solo l’1% dichiara un reddito superiore ai 100.000 euro, il rapporto fra Stato e cittadino comune si fa sempre più diffidente, sempre più conflittuale, soprattutto in tempo di crisi. Lo stato viene vissuto come un ente che tartassa i soliti noti, coloro che vengono tassati alla fonte, dei quali si conoscono vita morte e miracoli, e che, con una pervicacia degna di miglior causa, si cerca di vessare continuamente con balzelli e imposte di ogni genere; d’altro canto, una parte cospicua dei cittadini vive come in un paradiso fiscale evade, elude il fisco con sfrontatezza, qualche volta è perfino sconosciuta al fisco, e se la spassa alla faccia di quelli che le tasse le pagano. Tutte le volte che il luminare di turno, per il solo fatto di averci concesso un quarto d’ora del suo preziosissimo tempo, ci fa il discorsetto: “sarebbero 150 euro, ma se non le faccio la ricevuta diventano 120”, ci troviamo spiazzati, non sappiamo cosa rispondere, e finiamo per accettare il ricatto. In qualche altra circostanza, il professionista di turno intasca letteralmente i nostri soldi senza battere ciglio, profittando della condizione nella quale ci troviamo: abbiamo bisogno di lui, delle sue prestazioni, pendiamo dalle sue labbra per un possibile verdetto. Bene, questo atteggiamento, assai diffuso come tutti noi sappiamo, non solo infrange il codice penale, ma è profondamente immorale, perché arreca un danno indiretto ma tangibile, al nostro patrimonio. Questi professionisti cui ci rivolgiamo nei momenti del bisogno non devono comportarsi come dei benefattori, devono semplicemente pagare il dovuto. E la Guardia di Finanza, un corpo sostanzialmente utile solo a se stesso, dovrebbe trarre ispirazione da talune trasmissioni televisive che, guarda un po’, dimostrano una efficienza di molto superiore ai finanzieri nello scovare potenziali evasori. Il fatto è che il cittadino avverte che lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti, e siccome, per il momento, viviamo in un sistema economico di tipo liberista, i forti sono quelli che detengono le ricchezze del paese, e per il solo fatto di essere ricchi sono oggetto di sconti e favoritismi che spetterebbero di diritto, semmai, a coloro che veramente hanno bisogno. E’ il mondo alla rovescia. Se poi, allo stato esattore, affianchiamo lo stato inefficiente nella erogazione dei servizi, allora tocchiamo proprio il fondo. Il mio stipendio di dicembre 2010, contenente la tredicesima, contemplava un totale delle ritenute previdenziali e fiscali praticamente pari ad una mensilità. Mi danno la tredicesima e poi se la riprendono. Se, come in Svezia e Danimarca, i soli paesi che superano l’Italia in fatto di pressione fiscale, corrispondessero a quanto dovuto dal cittadino, servizi proporzionali a quanto versato, allora pagare le imposte assumerebbe tutt’altro significato. Ma qui, tra parentopoli, corruzione dei pubblici amministratori (siamo solo dietro a Romania e Grecia), sprechi e dissipazioni per creare posti di lavoro fittizi per amici e congiunti, pagare le tasse diventa solo un tormento insopportabile. Se lo Stato diventa solo un esattore, non ti fornisce i servizi minimi essenziali, o te li fornisce male e a singhiozzo, allora il rapporto fra stato e cittadino si incrina sino a spezzarsi: si vive lo Stato e i suoi enti esattori come un nemico, con cupa diffidenza, si finisce col fare di ogni erba un fascio. Se si continua a procedere con la politica della tassazione alla fonte del 44% e, allo stesso tempo, si concedono condoni e scudi fiscali per i grandi evasori (basta leggere il decreto milleproroghe approvato in via definitiva in questi giorni), non si può pretendere di educare il cittadino alla legalità. Uno stato degno di questo nome deve meritarsi il rispetto del contribuente, non deve comportarsi come un aguzzino che prende i soldi dove può e dove è più comodo. Se questo non accade, allora anche il cittadino più onesto, allorché si presenterà l’occasione, cercherà di eludere, di evadere, di emulare, nel suo piccolo, il comportamento dei grandi evasori. Uno stato che sa solo prendere, ma quando deve restituire al cittadino fa di tutto per rendergli la vita impossibile, imbrigliandolo in una serie di molestie burocratiche e facendogli attendere anni per un rimborso di denari che gli appartengono, non merita rispetto né considerazione. E non è questione di colore politico: si sono avvicendati governi di centro sinistra e centro destra, la musica non è cambiata. Bisognerebbe rifondare questo stato dalle fondamenta, ci vorrebbe una terza repubblica che ritrovasse il senso del rispetto del cittadino, dell’equità e della solidarietà sociale, della persecuzione di sacche di privilegio e corruzione, uno stato che sapesse ritrovare le ragioni del proprio esistere: amministrare la cosa pubblica.

sabato 26 febbraio 2011

(Incredibile ma vero) MENO MALE CHE SILVIO C'E'


Ebbene sì, non ci saremmo mai aspettati di formulare le affermazioni che seguiranno, ma, nello stesso tempo, con le doverose turate di naso, cercando assoluzioni presso i nostri lettori, fatte le debite proporzioni e i distinguo di prammatica, ci accingiamo a dichiarare che, allo stato attuale, sic stantibus rebus, l’on. Silvio Berlusconi si è conquistato il diritto-dovere di governare questo sfortunato paese fino al 2013. Vediamo nel dettaglio, onde evitare lo sconcerto di parecchi di voi e l’accusa di cinismo da realpolitik. Il cavaliere non ha fatto nulla per meritarsi questo voto in pagella, questa è la premessa ed il presupposto del ragionamento che seguirà. Non solo non ha fatto nulla, anzi. Continua imperterrito ad infilare una gaffe dopo l’altra, una gag dopo l’altra, una stupidaggine dopo l’altra. Ha miracolosamente ritrovato un inaspettato rigore morale nel condannare le unioni gay e le adozioni da parte dei single (verrebbe da dire “da che pulpito”). Ma è il sottobosco (ormai il termine “mondo”  è fuori questione) politico che lo circonda che ha fatto tutto il resto. E’ pur vero che il Parlamento, da quando il centro destra  ha conquistato la maggioranza è stato svuotato, nella sostanza delle proprie prerogative legislative: si passa da un decreto all’altro, da un voto di fiducia all’altro, venendo a costituire, nei fatti, il sogno che da tempo accarezza Silvio Berlusconi: una repubblica semipresidenziale. E’ il governo a promulgare le leggi, il parlamento diventa un organo consultivo. Vediamo che ne pensa il Prof. Anais, celebre costituzionalista, dalle pagine del “Sole 24 ore”:
Sta di fatto che le nostre istituzioni parrebbero impegnate in una partita a rubamazzo, e che la partita dura da fin troppo tempo. Funziona così: il Parlamento ha smesso di legiferare, sicché legifera il governo per decreto. Ogni decreto viene presentato alla firma del capo dello Stato, che ne controlla i requisiti d'urgenza, la legittimità costituzionale, infine l'omogeneità dei contenuti, dato che una minestra di cavoli e carciofi ci resterebbe sullo stomaco. Dopo di che comincia il lavoro delle Camere, che hanno 60 giorni per convertire il decreto governativo in una legge. E in genere se li prendono tutti, come è avvenuto puntualmente anche in relazione al milleproroghe: 50 giorni soltanto per l'esame in prima lettura del Senato. Le leggi omnibus sono una frode alla Costituzione, perché si rendono oscure ai cittadini e perché confiscano la libertà di voto dei parlamentari, chiamati a pronunziare un sì oppure un no in blocco al momento della votazione conclusiva. Tanto per dire, a noi elettori non potrebbe mai succedere, non almeno da quando la Consulta (sentenza n. 16 del 1978) ha bocciato un referendum radicale contro 97 articoli del codice penale, e lo ha bocciato proprio per proteggere la libertà del nostro voto, per impedire che venga coartato.”
Ora, è di tutta evidenza che un simile premier non ce lo invidia nessuno: ha parzialmente trasformato le articolazioni del Parlamento, ha dichiarato una guerra alla Magistratura, altra istituzione indipendente dello Stato, da lui definita una accolita di “eversivi malati di mente”, è venuto meno all’art. 54 della Costituzione che impone una disciplina dignitosa a chi ricopre cariche pubbliche, insomma ha fatto tutto quello che un presidente de consiglio non dovrebbe fare. Ha stretto amicizie ed alleanze con i peggiori dittatori del mondo, da Putin a Gheddafi, se la suona e se la canta, divertendosi ad ogni conferenza stampa, facendosi le beffe dei suoi detrattori, irridendo la critica e la satira politica, facendo mostra di divertirsi un mondo. E ne ha ben donde. Ha modificato una democrazia in una plutocrazia: non è cosa da poco. E’ di tutta evidenza che l’uomo più ricco del paese, per il solo fatto di controllare i media non doveva e non poteva scendere in politica, il conflitto di interessi non è mai stato risolto, non per sua colpa, ma per l’ignavia e la collusione delle opposizioni. E qui veniamo alle dolenti note. Stante che Berlusconi non ha fatto nulla per non farsi cacciare, a fronteggiarlo scorgiamo un esercito composito e variopinto  in eterno conflitto con se stesso; una armata Brancaleone. Vediamoli uno per uno: l’”Italia dei valori”, con il suo esclusivo puntare alla sconfitta del tiranno, a lungo andare conduce un gioco che mostra la corda. Non ci sono programmi, non ci sono idee se non quella cieca e vana della caduta del dittatore, Di Pietro, ormai ridotto ad una macchietta, farnetica in Parlamento paragonando il nostro sistema al regime di Gheddafi. Non ci sono idee, c’è solo sete di vendetta e distruzione. Il Partito Democratico si dibatte da anni in faide interne e in dispute sul sesso degli angeli: lo strumento delle primarie ha rivelato la sola utilità di mettere a nudo un partito diviso e rissoso, frazionato in correnti l’una contro l’altra amate, sono più assetati del loro stesso sangue che di quello di Berlusconi. Bersani sembra un disco rotto, non ha idee concrete, soprattutto in economia, e le poche idee che trapelano concorrono solamente all’autodistruzione. Le gioie della “società multietnica” non incantano più nessuno, e della “civiltà dell’accoglienza” ne abbiamo le tasche piene. Appiattire lo stato sociale verso il basso per livellare tutto, allo scopo di trattare tutti alla stessa stregua, cittadini ed ospitati, è un’idea, soprattutto di questi tempi, altamente impopolare. Aumentare la pressione fiscale, che da noi è alle stelle, scovare l’evasione fiscale (ma con quali strumenti, visto che con Prodi i livelli di evasione erano sovrapponibili a quelli attuali), insomma tutto fa pensare ad una sinistra senza idee, confusa e scompaginata, che difficilmente potrà conciliare Vendola con Rosy Bindi. Si tratta di un partito velleitario, che, perduti definitivamente i contatti con le sue origini, non è più in grado di produrre una ideologia che andava ripresa là dove si era interrotta quella del Partito Socialista: una vera, reale, pura e semplice socialdemocrazia. Ma Veltroni con il suo “ma anchismo” ha rivelato il vero volto del suo partito, un recipiente senza contenuto, incapace di essere propositivo al di là di un generico antiberlusconismo. L’UDC di Casini è una compagine troppo debole per impensierire il centro destra. Casini merita un certo rispetto, ma la sua proverbiale coerenza non ha pagato, e alla fine, è destinato a raccogliere pochi consensi. L’idea di riesumare una Democrazia Cristiana ormai stracotta in salsa nuova ha il fiato corto: non si resuscitano i morti, anche in politica. Non parliamo dell’API di Rutelli che finirà ancor prima di nascere: una partito che sceglie come leader un famoso bamboccio, simpatico, piacione, ma vago fino all’inconsistenza, non è destinato a fare strada. E infine, eccoci al caso Futuro e Libertà, il caso più emblematico di questo clima da basso impero. Un numero consistente di deputati e senatori fuoriescono dal PDL, nauseati dai comportamenti del premier e dal suo assoluto controllo del partito, che ha messo in ombra la componente di Alleanza Nazionale. Abbiamo tutti, chi più chi meno, salutato con piacere questo sussulto d’orgoglio, questo altissimo senso dello stato, che ha portato alle dimissioni (evento rarissimo in questo disgraziato paese), componenti di commissioni parlamentari, perfino ministri. Però, però…peccato che dopo la mancata “spallata” al governo del 14 dicembre, piano piano, lentamente, impercettibilmente, tra le fila di Futuro e Libertà, il dubbio di aver commesso un gesto troppo impulsivo, da irresponsabili, non tenendo in debito conto il bene comune e le esigenze di un paese in ginocchio, abbia cominciato a serpeggiare, dapprima in sordina, poi apertamente. Le sirene berlusconiane si sono fatte irresistibili, e l’armiamoci e partite è divenuta una parole d’ordine. Così, per nobilissimi motivi, si è costituito il “gruppo dei responsabili”, pronti a salvare la patria da una pericolosa deriva istituzionale. Se non fosse tutto vero si direbbe la sceneggiatura di una rivista di Macario. Questi signori che prima escono da un partito per dare vita ad una formazione antagonista al partito dal quale sono usciti, nel breve volgere di un paio di mesi si sono accorti di aver commesso una imperdonabile leggerezza : abbandonare una poltrona, rinunciare ad una prebenda, lasciare un posto di potere. E così, ad uno ad uno, lentamente, si sono letteralmente “sfilati” dal neonato partito, lasciando, peraltro, il povero Fini in brache di tela. Questi signori hanno tradito due volte, e per questo saranno d’ora in poi disprezzati e trattati come meritano da esponenti di primo piano come Lupi e Cicchitto che, se non altro, non hanno una simile faccia di bronzo. Un traditore rimane un traditore, se tradisce due volte sarà capace di farlo anche una terza. Questo lo sanno bene i notabili del PDL e Berlusconi stesso. Fatto sta che, paradossalmente, adesso è Fini che farebbe bene a dimettersi, dopo aver costituito un partito antagonista al premier che si è gia dissolto, dovrebbe prendere atto della sconfitta umana e politica e non occupare più la terza carica istituzionale. Da tutte queste vicende (come sempre in Italia tragicomiche) emerge un solo vincitore: lui, sempre lui. A questo punto prendiamo tutti atto che Berlusconi ha vinto ancora una volta, a lui il compito di pilotare questo paese fino al 2013. Se consideriamo che accanto a ministri di cui faremmo volentieri a meno come Brunetta e la Brambilla, ve ne sono altri come Tremonti, Frattini, Maroni  e finanche Romani (che sta cominciando a capire qualcosa del suo mandato), tutto sommato ci potrebbe andare peggio. Tremonti gode in Europa e non solo di una certa considerazione, e il suo, in questo drammatico passaggio economico, è il ministero chiave. Affidarlo ad un dilettante allo sbaraglio capace solo di applicare la patrimoniale sarebbe un tragico errore. Siamo così arrivati alla conclusione che Berlusconi, in questo frangente, è il male minore. Non è di grande consolazione, ce ne rendiamo conto, ma è tutto quello che abbiamo: dall’altra parte c’è solo confusione e assenza di idee. Prendiamo atto, allora, della ennesima vittoria del Cavaliere, teniamocelo, dal momento che non abbiamo di meglio, e stiamo pure allo scherzo che lui stesso ha fatto diventare un tormentone: accodiamoci pure, in buon ordine, al bunga bunga.

CRONACHE DA UN MASSACRO

Non aveva certo bisogno di distinguersi, il colonnello Gheddafi, da 41 anni al potere in Libia, dopo aver rovesciato un monarca con un colpo di stato ed essersi fatto monarca a vita egli stesso. Non aveva bisogno di distinguersi: tutto il mondo conosceva già da tempo le sue stravaganze, la sua ossessione anti italiana, il suo corpo di pretoriane tutte al femminile, le sue tende da piantare ovunque si trovasse. Eppure, questo tristissimo personaggio dal potere quarantennale, ha scelto di passare alla storia non per le sue bizzarrie, ma per la deliberata scelta di scatenare una guerra civile che civile non è, dal momento che a combattere per lui si sono schierati squallidi mercenari sanguinari capaci di tutto, e dall’altra parte, armato approssimativamente, il popolo sovrano e pezzi sempre più ampi dell’esercito regolare che non riconosce più l’autorità del monarca. Fanno riflettere, inevitabilmente, queste ore drammatiche di Tripoli. Una terra che è stata sì una colonia italiana (ma tutta l’Africa, con la sola eccezione della Liberia, è stata colonizzata da europei ben più avidi di noi italiani), una terra dove abbiamo lasciato, considerandola “uno scatolone di sabbia”, infrastrutture tuttora utilizzate dal regime: ponti, strade, acquedotti. Così, nel 1969, deposto il re Idris, si fa strada questo giovanotto neppure generale, con poche idee ma confuse. Scrive un Libro Verde della rivoluzione (ma si è trattato semplicemente di un golpe militare, il popolo non c’entra). In questo libro verde sono contenute le linee guida della rivoluzione di Gheddafi. Una accozzaglia di fondamentalismo islamico, vaghe idee di socialismo, un tenace e troglodita nazionalismo. In questo guazzabuglio, una solo cosa, dopo qualche anno, emerge chiaramente: si tratta della solita dittatura di un autocrate che si crede il padrone e il dominatore assoluto della propria terra. A forza di cercare di farlo credere agli altri, finisce col crederci egli stesso. Abolita la libertà di stampa, imprigionati i pochi oppositori politici, con la proclamazione di “custode eterno della rivoluzione” si garantisce potere e ricchezza assoluti. Ed ora, che sull’onda tunisina, è arrivato il suo momento, che la campana sta suonando per lui gli ultimi rintocchi, non fa come Ben Alì in Tunisia, o Mubarak in Egitto, che, presentendo la fine vicina, riparano alla chetichella all’estero. No, lui non è un codardo, lui non fugge dinanzi al nemico, senza capire che non si tratta di un nemico oggettivo, dai confini ben delineati, dall’identità precisa, è arrivato semplicemente l’appuntamento con la storia, la sua resistenza assomiglia tragicamente alla fuga del cavaliere dinanzi alla morte che sta per ghermirlo della “Samarcanda” di Vecchioni, o agli ultimi giorni di Adolf Hitler, chiuso nel bunker di Berlino mentre i primi carri armati russi stanno sferragliando per la città. Ci sono appuntamenti con la storia che non si possono mancare, sono ineludibili, sono fatali. Questo tragico clown, ridotto a caricatura di se stesso, cerca di trascinare in un bagno di sangue anche la sua nazione. Non ci sono parole per definire una simile stupida, ottusa, feroce resistenza. Stanno arrivando al capolinea anche gli altri regimi cosiddetti presidenziali, dittature mascherate da una patina sottile di democrazia, con periodici plebisciti elettorali simili a liturgie farsesche. Ricordiamo sempre che i regimi di Tunisia, Libia, Egitto, Algeria si sono retti fino ad oggi grazie al  freddo e interessato beneplacito dell’Europa e degli Stati Uniti. Venivano considerati i mali minori dinanzi al pericolo  di una edificazione di repubbliche islamiche sul modello dell’Iran. Le responsabilità dell’Europa non possono essere nascoste, sebbene abbiano una loro motivazione, difficile dire se fondata o meno. Ce lo dirà solo il futuro, al momento imperscrutabile. Non sappiamo ancora bene dove andranno a parare i prossimi governi di questi paesi in fiamme: se saranno i militari a prendere possesso del potere con la scusa della transizione democratica,  se sapranno darsi una forma Stato con istituzioni democratiche, seppure imperfette, o se cadranno preda del fanatismo islamico. E’ difficile cancellare dalla nostra memoria l’ultima  apparizione italiana di Gheddafi, a Roma, vestito come un domatore da circo, a piantare la sua tenda sul Campidoglio, una immagine grottesca e drammatica, come tragicomico è il suo nefando personaggio. In queste ore l’ONU deve decidere su eventuali sanzioni o embarghi che non si realizzeranno mai, sappiamo bene come il Palazzo di Vetro sia divenuto un ente inutile e costoso, paralizzato da veti incrociati, famoso solo per temporeggiamenti, tentennamenti, inconcludenza. Se la vedranno i libici, tra di loro e a casa loro. Ci auguriamo solo che questa amarissima agonia duri il meno possibile, che gli insorti abbiano al più presto la meglio, che questo dittatore da operetta termini i suoi giorni davanti ad un tribunale libico, processato dai suoi stessi compatrioti.

mercoledì 16 febbraio 2011

A CHE PUNTO E' LA NOTTE? (la crisi del mondo arabo)

Riporto di seguito l’interessante articolo di Christian Rocca, pubblicato dal “Sole 24 ore”. E’ l’analisi e la rivelazione di chi sta dietro la crisi del mondo arabo, per una volta in chiave altamente positiva. Il testo menzionato, “From dictatorship to democracy”, un libello scaricabile da un sito internet, è diventato una sorta di “libretto rosso” che percorre il cammino inverso rispetto a quello, più celebre, di Mao Tse Tung. E’ significativo, e sintomatico, che sia passato del tutto inosservato dai nostri media, salvo la felice eccezione di Christian Rocca. (E’ probabile che i nostri mezzi di comunicazione siano assorbiti dai problemi del premier e dal gossip che ci sta intorno.) L’autore, un 83enne di Boston, Gene Sharp, non solo ha scritto un manuale pratico di strategia e di tattica antiautoritaria, da applicarsi nei regimi dittatoriali e autocratici di tutto il mondo, ma è diventato soprattutto un ispiratore ed un maestro di “democrazia” come mai se ne sono visti. Quando pensiamo al Nobel per la Pace, attribuito sulla fiducia a Barack Obama (e non del tutto meritato, peraltro), viene fatto di chiedersi come mai la nobilissima accademia svedese non abbia pensato a questo maestro di pace che è stato per troppo tempo nell’ombra. E’ di queste ore la notizia che il contagio è completo: anche la Libia del tragicomico Gheddafi ha dato fuoco alle polveri. E’ vero che abbattere il tiranno non è che una parte della lunghissima transizione verso la democrazia, ma è altrettanto vero che da qualche parte bisogna pur cominciare. Gene Sharp ha indicato chiaramente come fare. Lo tengano presente gli uomini politici e gli oppositori di tutti i regimi dittatoriali che hanno finora dominato il mondo arabo. E si guardino bene da due fondamentali pericoli: il fondamentalismo islamico, che li precipiterebbe in un regime infinitamente peggiore di quello che hanno abbattuto (lo hanno compreso finanche gli iraniani, stufi delle assurde imposizioni della sharia), e il potere passato all’esercito, con la motivazione della transizione verso il regime democratico. E’ ovvio che in un paese che presenta un vuoto di potere, dove non esista praticamente più un governo, il potere debba passare ai militari, ma occorre anche tenere presente che i militari, sempre pronti a spergiurare che la transizione verso libere elezioni sarà breve e indolore, molto spesso finiscono coll’affezionarsi al potere, e a pensare che in fondo, tutto sommato, non ci si sta così male. Con il risultato di transitare da un presidente – padrone della nazione ad una giunta militare che finisce col diventare, per sua stesa natura, altrettanto autoritaria. Confidiamo che gli oppositori dei regimi arabi sappiano vigilare sulla transizione e riescano ad evitare una deriva diversa nei contenuti dalla precedente, ma uguale nella sostanza.

Uno degli eroi delle rivolte mediorientali è un oscuro signore di ottantatrè anni di Boston. Si chiama Gene Sharp. I militanti democratici egiziani, secondo quanto riportato dal New York Times, lo paragonano a Martin Luther King e al Mahtma Gandhi. Le sue idee hanno influenzato le rivoluzioni democratiche e nonviolente in Serbia, quelle colorate in Ucraina, in Georgia, in Kyrgyzstan e ora quelle tunisine ed egiziane.
Libri tradotti in 28 lingue e studiati dalle opposizioni di Zimbabwe, Birmania e Iran
Quattro anni fa, era stato l'autocrate venezuelano Hugo Chavez ad accusare Sharp di aver ispirato le rivolte antigovernative nel suo paese. Nel 2007, in Vietnam, i militanti dell'opposizione sono stati arrestati mentre distribuivano un suo libro del 1993, From Dictatorship to Democracy, un manuale strategico per liberarsi dalle dittature (93 pagine scaricabili dal sito dell'Albert Einstein Institution). A Mosca, nel 2005, le librerie che vendevano la traduzione in russo dello stesso libro sono state distrutte da incendi dolosi. Gli scritti di Sharp, tradotti in 28 lingue, sono stati studiati dalle opposizioni in Zimbabwe, in Birmania e in Iran. Nel 1997, racconta il Wall Street Journal, un militante polacco-americano, Marek Zelazkiewicz, fotocopiò le 93 pagine di Sharp e le portò con sé nei Balcani, insegnando le tattiche di resistenza nonviolenta in Kosovo e poi a Belgrado.
A Sharp si ispirano gli attivisti di Otpor, "mercenari della democrazia"
Il testo di Sharp è stato tradotto in serbo e distribuito segretamente tra i militanti dell'opposizione, in particolare tra gli iscritti di Otpor, un gruppo di opposizione giovanile anti Milosevic. Otpor, grazie anche ai 42 milioni di dollari americani, ha esportato le tecniche di opposizione, apprese dal libro di Sharp, nelle ex repubbliche sovietiche, organizzando seminari di resistenza democratica in Georgia, in Ucraina, in Ungheria. Nel 2000 la Casa Bianca ha aperto un ufficio a Budapest per coordinare le attività dell'opposizione democratica serba, fornendo anche strumenti e tecnologia per diffondere notizie e informazioni alternative a quelle del regime. Nel 2003, sei mesi prima della rivoluzione delle rose, l'opposizione georgiana ha stabilito contatti con Otpor con un viaggio a Belgrado finanziato dalla Fondazione Open Society del finanziere americano George Soros. I militanti di Otpor hanno addestrato gli attivisti georgiani e in Georgia è nata Kmara, una versione locale di Otpor. I soldi sono arrivati da Soros e da una delle tante agenzie semi-indipendenti di cui si serve il Congresso americano per finanziare i gruppi democratici in giro per il mondo. In Ucraina è nato Pora, un altro gruppo democratico con forti legami con l'Otpor serbo e finanziato con 65 milioni di dollari dall'Amministrazione Bush. I militanti di Otpor sono diventati mercenari della democrazia, hanno viaggiato per il mondo a spese del governo americano per addestrare le opposizioni a organizzare una rivoluzione democratica. Otpor e Sharp hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo
Il modello Otpor e le idee di Gene Sharp, racconta il New York Times, hanno influenzato i ragazzi delle piazze di Tunisi e del Cairo. Promuovere la democrazia non è una politica facile da imporre. Deve seguire una strategia diversa paese per paese, calibrata su un ampio arco temporale e centrata sui diritti umani, sulla rappresentanza politica, sullo stato di diritto, sulla trasparenza, sulla tolleranza, sui diritti delle donne. Ma le tecniche di opposizione, redatte da un anziano signore di Boston, possono essere facilmente trasmesse.

Christian Rocca (“Il sole 24 ore”) RIPRODUZIONE RISERVATA

martedì 15 febbraio 2011

LA SANITA' AI TEMPI DELLA CRISI

Qualche tempo fa, un caro amico doveva subire un banale intervento, in uno dei tre ospedali genovesi, di rimozione di alcuni calcoli alla cistifellea. Si tratta di una operazione di routine, da eseguirsi in laparoscopia. Ma qualcosa andò storto, l’amico dovette essere rioperato, e tuttora, a distanza di due mesi, porta una cannula drenante inserita nel fianco. E’ uno dei tanti, innumerevoli casi di errore umano applicato alla salute. Si dirà: i medici sono uomini come gli altri, possono sbagliare. Verissimo, ma dal momento che la salute non è paragonabile alle scartoffie, il medico deve essere messo in condizione di operare con i mezzi adeguati e nelle strutture adeguate. Ora, è sufficiente fare un giro in uno qualsiasi dei tre nosocomi genovesi per capire che, con l’eccezione di rarissime eccellenze, la quotidianità delle corsie ospedaliere è fatta da sciatteria, pressappochismo, superficialità, menefreghismo, scarsa pulizia, macchinari obsoleti da sostituire e che abbisognano almeno di una costante manutenzione, turni stressanti sempre più prolungati, personale paramedico demotivato e in “burn out”, una sindrome aziendale che affligge il personale chiamato a compiti pesanti fisicamente e psicologicamente. In un altro caso, in seguito ad un incidente di moto occorso ad un mio conoscente, si procedeva ad una osteosintesi dell’intero omero, inserendo una barra lungo il percorso dell’osso, assicurato alle articolazioni della spalla e del gomito da viti fuori misura, che ora impediscono al soggetto di alzare il braccio oltre un certa misura, e, a livello del gomito, la vite è fuoriuscita dalla sede nella quale era stata inserita, invadendo i tessuti molli circostanti e i legamenti. Perchè si è verificato un simile madornale errore? Semplicemente perché al momento dell’intervento i medici presenti avevano a disposizione viti di quella misura e non altre. Se non fosse tragico verrebbe da ridere. Io stesso, al solo pensiero di essere obbligato ad un ricovero ospedaliero, sono colto da un attacco di panico: lo confesso, ho paura, paura di essere fatto a pezzi dai sanitari che dovrebbero aver cura della mia salute, e che invece, con un livello elevato di probabilità , potrebbero sbagliare la somministrazione di un farmaco come un intervento chirurgico e mettere così a repentaglio la mia vita. Ogni volta che si entra in un ospedale, da queste parti, è un po’ come giocare alla roulette: se vinci, non vinci niente, perché ottieni una cosa che ti spetta, se perdi, perdi tutto,  perdi la vita. Ma si può entrare in un ospedale con questo tipo di aspettative? Mio padre, 77 anni, alcune patologie tutte sotto controllo, è entrato in uno degli ospedale genovesi per una banale enterite. Ne uscirà quindici giorni dopo cadavere. Fu somministrato al paziente un tranquillante maggiore, per farlo stare buono, in modo che non rompesse troppo le scatole, un neurolettico, l’aloperidolo, potenzialmente pericolosissimo in un paziente anziano. Si scatenò la cosiddetta “sindrome neurolettica maligna” che avrebbe portato il paziente all’exitus in pochi giorni. Il primario, non sapendo cosa rispondere, dispose l’autopsia, che non rivelò niente di straordinario, se non l’enterite non riconosciuta e non curata. A mio padre, nonostante le mie raccomandazioni, tutti i farmaci che assumeva fino al ricovero all’ospedale furono sospesi. Perché? Non l’ho mai saputo. Fatto sta che se mio padre non fosse mai entrato in quell’ospedale forse sarebbe ancora vivo. Non ho potuto trascinare in tribunale i cosiddetti medici del reparto per il semplice fatto che, considerata l’età del paziente, avrei certamente perduto dinanzi alla lobby medicale. Questi pochi esempi ci fanno riflettere su di un aspetto quasi banale: in tempi di crisi il Sistema Sanitario Nazionale non può permettersi di continuare ad allargare la sanità gratuita a tutti, italiani, comunitari ed extracomunitari. Avere un sistema sanitario appiattito verso il basso, con l’unica motivazione (nobilissima, peraltro) di estendere lo stesso diritto di accesso alle prestazioni sanitarie a tutti, italiani, immigrati regolari ed irregolari ecc. produce il risultato di una Sanità che accoglie tutti, ma li cura in modo approssimativo, generico, maldestro, che finisce, inevitabilmente, con il curare male tutti. La sanità ai tempi della crisi non può essere garantita ai livelli dei tempi del bengodi. L’immigrato deve potersi rendere conto, prima di prendere la decisione di spostarsi nel nostro paese, che, per esigenze di spesa pubblica e di debito pubblico, non possiamo garantirgli istruzione e sanità gratuite, perché questi sono solo retaggi di un’epoca ormai lontani nel tempo; da due anni e mezzo il nostro paese e tutto il mondo, attraversano una crisi epocale che non ha paragoni nella storia recente. E’ amaro, è doloroso, dover innescare una triste marcia indietro secondo la quale i servizi minimi di assistenza devono essere garantiti anzitutto ai cittadini italiani; è triste, lo ammetto. Ma non abbiamo, molto evidentemente, altra scelta. Chi sostiene il contrario o è un demagogo o è in cattiva fede. Dobbiamo seriamente ripensare a tutto il sistema del welfare, non solo perché ce lo chiede ad ogni piè sospinto l’Unione Europea, ma perchè le riforme strutturali che dovranno essere applicate con la manovra correttiva di primavera, consistono nel mettere mano alle pensioni (con l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni) e in una razionalizzazione (cioè ad un taglio) dello stato sociale, che non potrà e non dovrà più essere esteso indiscriminatamente a tutti, per il solo fatto che calcano il territorio italiano. Se non realizziamo queste riforme strutturali, come ci richiede anche il fondo Monetario Internazionale, saremo destinati a vedere crescere a dismisura il divario tra PIL e debito pubblico. Il fatto, infine, che il centro sinistra continui a cavalcare la tigre della società multietnica, continuando a decantarla come un arricchimento per il paese, che intenda mantenere gli stessi livelli di assistenza ai cittadini italiani e non, che l’unica misura seria che prenderebbe in economia sarebbe quella di aumentare la pressione fiscale, si condanna, nonostante il Cavaliere stia facendo di tutto per andare a viso aperto verso lo sfacelo, ad una sconfitta annunciata. La stragrande maggioranza degli italiani ha le tasche piene di crociate a favore della civiltà dell’accoglienza a tutti i costi, l’accoglienza che non facilita seriamente l’immigrato ad integrarsi, ma gli consente di mantenere costumi ed abitudini tipici del paese di provenienza e magari in contrasto stridente con i nostri usi, costumi e la nostra legislazione. Una sinistra divisa, rissosa, incapace persino di portare a termine delle primarie, vuota, inconsistente, paladina di cause perse in partenza, non può che continuare a collezionare sconfitte.

lunedì 14 febbraio 2011

OLTRE LA FINANZA ETICA: LA BANCA ETICA

Salvando le banche si è salvata anche la speculazione, perché la speculazione è sistemica nelle banche.
Giulio Tremonti

Come ha osservato qualcuno, parlare di Banca Etica può sembrare un ossimoro. Eppure Banca Etica è una realtà presente in Italia da ormai 11 anni, con 13 filiali, una rete di “banchieri ambulanti” e 34.000 soci, accomunati dall’idea di usare il proprio denaro  non per inseguire un profitto ravvicinato, ma per creare valore sociale. Banca Etica ha un capitale di 30 milioni di euro e una raccolta di 640 milioni. I progetti finanziati sono mirati esclusivamente ad ambiti di interesse collettivo: dalla cooperazione sociale a quella internazionale, dalla tutela ambientale alla promozione della cultura, dalle energie rinnovabili all’agricoltura biologica. Alla guida di Banca Etica c’è Ugo Buggeri, che spiega come le altre banche, in questi anni, “non abbiano fatto il loro dovere. Il rapporto col cliente ruota intorno a tre punti fondamentali: fiducia, rischio, rendimento. E sono tre elementi da tenere insieme. Invece in questi anni ha prevalso una fast economy del tutto irresponsabile. Come spieghiamo sempre ai nostri clienti, non si può avere sicurezza e poi rendimenti a due cifre. Quello che noi proponiamo è un ritorno alla slow economy, che non vuol dire rinunciare al business, ma essere responsabili, preoccuparsi di cosa c’è dietro alle scelte, guardare all’economia reale”.
Alla realtà di Banca Etica si affianca una società, Etica sgr, che propone fondi di investimento etici. Tra i punti che Banca Etica porta avanti (assieme ad un cartello di soggetti riuniti nella campagna “sbilanciamoci”, www.sbilanciamoci.org) quello di introdurre una tassa del 0,05% sulle transazioni finanziarie, cosa che imporrebbe alla finanza stessa di restituire almeno una parte di quanto la collettività si è sobbarcata per la crisi. Dalla tassazione sarebbero esclusi i titoli di Stato (Bot, Btp, Cct) e quelli emessi da enti territoriali (Comuni, regioni, ecc). Per partire serve l’adesione di almeno sei paesi dell’Unione europea e alcuni leader come il francese Sarkozy e la tedesca Merkel si sono dichiarati favorevoli. Per saperne di più potete consultare il sito
www.bancaetica.com.
Fonte: “Consumatori”, mensile della Coop

venerdì 11 febbraio 2011

IL SUICIDIO RALLENTATO (sono davvero efficaci gli antidepressivi?)

Tra i farmaci in vetta alle classifiche di vendita in Italia, oltre alle statine (molecole anticolesterolo), gli antipertensivi e gli ansiolitici, troviamo i cosiddetti SSRI, antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Prima di loro, che sono considerati tuttora come farmaci “nuovi”, innovativi, anche se sono in commercio da almeno vent’anni, venivano utilizzati i cosiddetti farmaci “triciclici” che, a differenza degli SSRI, non sono inibitori  del reuptake della sola serotonina, ma anche di altri neurotrasmettitori, come la noradrenalina e la dopamina. Ora, mentre è nota la farmacodinamica di queste molecole (il meccanismo di azione) non è ancora chiaro il loro effetto diretto o indiretto sul tono dell’umore del paziente, su quello che si definisce “tono timico”. In pratica questi principi attivi aumentano la biodisponibilità delle amine cerebrali che giocano un ruolo fondamentale nelle sinapsi neuronali: un aumento della loro disponibilità in qualche modo innalza la soglia dell’umore e potrebbe provocare una maggiore rilassamento generale. Sfortunatamente, tutto questo non è stato ancora del tutto dimostrato, e mentre i vecchi triciclici come l’amitriptilina (il Laroxyl) hanno dimostrato in diversi studi a doppio cieco versus placebo una maggiore efficacia rispetto ai più recenti SSRI (fluoxetina – Prozac, paroxetina – Seroxat, Sereupin), il Sistema Sanitario Nazionale continua ad accollarsi una spesa non indifferente per rimborsare dei farmaci non solo la cui efficacia non è completamente dimostrata, ma che presentano un rischio suicidarlo spiccatamente maggiore rispetto ai triciclici, pur essendo meno efficaci di questi ultimi. In sostanza, come sostiene il Prof. Garattini nell’intervento che riporto di seguito, questa tipologia di farmaco deve essere impiegata solo nei casi di depressione severa, mai in una banale distimia, deve essere affiancata ad una psicoterapia di supporto, e, soprattutto, la scelta del farmaco, sebbene da valutarsi caso per caso, è bene che ricada su di un vecchio triciclico, sicuramente più efficace di un più recente SSRI, dotato di effetti collaterali praticamente sovrapponibili, ma soprattutto, infinitamente meno costoso (un triciclico arriva a costare fino a cinque volte meno di un SSRI). Ma vediamo che cosa pensa a questo proposito il direttore dell’Istituto “Mario Negri” Silvio Garattini:

Erano gli anni ’50 quando nacque il primo farmaco antidepressivo, si chiamava imipramina – ancora oggi in commercio – ed era stato scoperto per caso.  Sintetizzato negli anni ’40 sperando sulle sue proprietà antistaminiche, era arrivato alla clinica come un debole farmaco antipsicotico, e alla fine aveva rivelato un’attività antidepressiva. Fra incredulità ed entusiasmo aveva creato una classe di composti detti antidepressivi “triciclici”. In seguito utilizzando le conoscenze sul suo meccanismo d’azione, arrivarono i farmaci che agiscono sulla serotonina, noti con la sigla SSRI. La serotonina  divenne il mediatore chimico dell’umore e la fluoxetina (nome commerciale più conosciuto Prozac) fu celebrato come “il” farmaco antidepressivo. La “pillola della felicità” ebbe un grande successo nella stampa, ma soprattutto per chi ne deteneva il brevetto ed incassava il prezzo delle vendite. Alla fluoxetina seguirono molti altri farmaci del gruppo SSRI, che si appropriarono di fette di mercato soprattutto quando la fluoxetina divenne un farmaco generico. Contemporaneamente prese vigore un’altra classe di farmaci che seguiva un altro meccanismo d’azione, quello dell’interazione con un altro mediatore chimico, la noradrenalina. Poi cominciarono i primi problemi perché il mercato – ovvero la propaganda – può spingere un farmaco fino ad un certo punto: prima o poi, soprattutto quando si tratta di una malattia grave come la depressione, la verità finisce per venire a galla. In realtà per farmaci antidepressivi c’è voluto molto tempo, perché, pur non trovando impiego per la “malattia” depressione, questi farmaci hanno potuto godere di un mercato molto più ampio. Si tratta di un mercato rappresentato dagli “stati” depressivi, situazione determinata da eventi avversi della vita che non sono malattie nel senso classico del termine. Infatti molti di questi situazioni – ad esempio la perdita di una persona cara, la perdita del posto di lavoro, problemi finanziari – si rimettono a posto da sole con il tempo. Se nel frattempo il medico ha prescritto un  farmaco antidepressivo, il merito del risultato verrà  indebitamente attribuito al farmaco. I casi positivi trovano sempre una eco sproporzionata alla loro importanza, ma inducono fiducia e perseveranza nel medico che ha fatto la prescrizione. In questi ultimi 10 anni tuttavia crescevano perplessità e pessimismo circa la reale importanza dei farmaci antidepressivi insieme ad una notevole preoccupazione per il continuo aumento delle vendite. Finalmente la “bomba” è scoppiata. Un articolo-rapporto scritto da psichiatri inglesi, canadesi e statunitensi e pubblicato su una rivista internazionale molto selettiva ha determinato una serie di reazioni anche a livello della stampa laica. La pubblicazione è tanto più importante in quanto si basa su tutti i risultati delle ricerche cliniche depositati presso la Food and Drug Administration (FDA), l’organo che negli Stati Uniti presiede alla regolamentazione dei farmaci. Lo studio effettuato si chiama, in gergo meta-analisi e consiste nella raccolta di tutte le ricerche cliniche effettuate con i farmaci antidepressivi che agiscono sulla serotonina in confronto con il placebo (un prodotto inerte). La ricerca consiste nel sommare tutti i risultati “pesandoli” per il numero di pazienti presenti in ogni studio. I risultati possono essere presentati in vario modo: in rapporto all’uso di uno specifico farmaco, oppure globalmente, oppure ancora in rapporto alla gravità della malattia depressiva. I risultati sono molto chiari: le differenze tra i farmaci antidepressivi e il placebo sono molto modesti, al limite della significatività clinica e ciò vale per fluoxetina, venlafaxina, nefazodone e paroxetina. In altre parole, il vantaggio dovuto all’impiego dei farmaci antidepressivi è trascurabile rispetto a quello che si può ottenere con il semplice placebo. Qualcosa di più si ottiene in rapporto con la gravità della malattia, il che indica la mancanza di efficacia in tutte quelle condizioni citate prima e, definite come “stati depressivi”. Questi dati sono diversi dalle analisi fatte precedentemente perché questa volta sono stati presi in considerazione anche i risultati di studi clinici non pubblicati, mentre precedenti analisi avevano esaminato solo gli studi pubblicati. Evidentemente si pubblicano prevalentemente gli studi positivi e si sottraggono all’attenzione dei medici tutti gli studi che non danno i risultati sperati. La nuova indicazione può essere perciò così riassunta: i farmaci antidepressivi di nuova generazione – SSRI – devono essere impiegati solo in pazienti con una depressione molto severa; quindi non c’è alcuna ragione per impiegarli nella grande maggioranza dei casi. Sorge ora spontanea una domanda: come mai sappiamo solo ora che questi farmaci non sono attivi? Che cosa hanno fatto finora le autorità regolatorie, quelle che dovrebbero proteggere i pazienti? Chi rimborserà il Servizio Sanitario Nazionale per tutti i miliardi di euro spesi inutilmente in tutti questi anni? Chi risarcirà gli ammalati che hanno avuto effetti tossici senza aver avuto alcun beneficio? Qualcuno dovrà pur dare qualche risposta!

martedì 8 febbraio 2011

APOCALYPSE NOW A MONTECITORIO

Qualcuno, negli ultimi giorni, mi ha domandato quale sistema ritenevo idoneo alla rimozione del presidente del consiglio dall’esercizio della sua carica. Non è una domanda peregrina. La situazione politica italiana è bloccata da almeno un anno (tra lodi Schifani ed Alfano, legittimi impedimenti, processi brevi, riforme della giustizia sempre annunciate e mai approvate, case di Montecarlo, andirivieni di prostitute prezzolate, beneficenze a maggiorate, festini con avvilenti compagni di merende ecc.). La condizione economica dell’Italia, checchè ne dicano giornali e TV è talmente drammatica da rasentare l’emergenza. Non è purtroppo vero che cresciamo dell’1%. E’ vero che non solo il PIL non cresce, ma, udite udite, siamo entrati nella recessione. Questo significa che il segno del PIL non è positivo, ma è sotto lo zero percentuale. Questo non ce lo racconta nessuno, ma basta guardarsi intorno. Le attività commerciali chiudono una dopo l’altra. I pochi che resistono lo fanno perché hanno ancora risorse da spendere per coprire i passivi, non si consuma perché non si guadagna, i risparmi sono vigorosamente intaccati, un numero sempre più crescente di famiglie non riesce più ad onorare il mutuo della prima casa, si moltiplicano le pubblicità dei compraoro, (è di questi giorni una pubblicità che vede come testimonial una discutibile Maria TeresaRuta) attività, questa, che sfiora lo sciacallaggio, le casse integrazione sono terminate e i quarantenni o cinquantenni esclusi dal mondo del lavoro sanno perfettamente che ne sono stati esclusi una volta per tutte, i giovani un lavoro non lo cercano neppure più. E’ il ritratto di un paese allo sbando, alla paralisi, che non prende provvedimenti, non attua nessuna politica di sviluppo (il ministro Romani sembra non avere ancora capito bene quello che sta facendo), lo stesso Tremonti, in altri tempi stimabile, appare sbiadito, inerme, privo di iniziativa. La Lega non toglie l’ossigeno al governo Berlusconi per il solo motivo di conseguire il proprio obiettivo intermedio: il federalismo fiscale, ma con lo sguardo sempre fisso alla sua vera meta: la secessione incruenta. Se consideriamo l’immagine che passa dell’Italia in tutto il mondo, gli sberleffi, le satire, il dileggio quotidiano di cui siamo bersaglio, il quadro si completa. Si meraviglia tutto il mondo occidentale della nostra tolleranza, della nostra acquiescenza nei confronti di un premier che si comporta al di fuori di qualsiasi regola di decoro e dignità. Non è solo sotto accusa l’uomo Berlusconi, ma una popolazione intera che lo lascia al suo posto, con una alta percentuale di italiani che, nel caso di elezioni anticipate, non gli negherebbe il consenso. Tutto questo accade soprattutto perché il conflitto di interessi non è mai stato risolto, complice una sinistra alle corde, priva di finalità e di linea politica, divisa e rissosa, e di un D’Alema complice volontario o meno della non risoluzione di tale conflitto. Un uomo che controlla la maggior parte dei mezzi di comunicazione, che possiede una ricchezza personale smisurata, non può e non deve scendere in politica, per il semplice fatto che sarebbe per lui difficilissimo sfuggire alla tentazione di legiferare a proprio favore, tenendo in scacco un paese intero che mai come oggi ha bisogno di riforme strutturali che non si limitino ai famosi tagli lineari alla spesa. Grazie alla propria ricchezza personale, nonostante la fuoriuscita di Futuro e Libertà dalla compagine governativa, ha potuto reclutare parlamentari sensibili ad argomenti non propriamente politici per rafforzare la propria risicata maggioranza, e tirare a campare fino al 2013. Ora, il sig Berlusconi può sicuramente tirare a campare per un paio d’anni, l’Italia, viceversa, no. Siamo letteralmente sull’orlo di un precipizio, paradossalmente, proprio nel momento storico in cui dal mondo della finanza cominciano ad arrivare i primi, timidi, segnali positivi, è l’economia che ci sta trascinando nel baratro, contagiando, purtroppo, anche il nostro sistema finanziario.
Se fossimo una repubblica presidenziale (e, di fatto, lo siamo diventati) e ci trovassimo in un altro scacchiere, come quello mediorientale, con ogni probabilità ci sarebbero i presupposti per l’esplosione di una guerra civile, tra i sostenitori del governo e coloro che vorrebbero la cacciata del tiranno. Gli elementi non mancano: la paralisi politica dovuta agli affari personali del premier, la considerazione della donna come merce di scambio, l’induzione alla prostituzione, una condotta incompatibile con l’art 54 della Costituzione che obbliga coloro che ricoprono cariche pubbliche all’esercizio delle proprie funzioni con dignità ed onore, il disprezzo per la Magistratura considerata come un’accolita di comunisti incarogniti, la chiusura nel bunker, asserragliato, sempre più solo, deciso a resistere fino all’ultimo. E’ pur vero che tutto questo accade nel quadro di una democrazia, per quanto drogata dalla enorme differenza di mezzi che divide il leader in carica da tutti gli altri partiti, che non hanno lo stesso potere di penetrazione mediatica, e la domanda che  sempre più spesso serpeggia in molti di noi è: fino a che punto è lecito sopportare tutto questo? Un governo che si regge per qualche voto di parlamentari indegni di questo nome, grazie ad una Lega che ha in testa una sola cosa, il federalismo, dopo di che tutto può franare, tutto si può sgretolare, fino a che punto può durare? Non sottovalutiamo la grande responsabilità dei leghisti: sembrano un disco rotto: non fanno che parlare del federalismo come della panacea per tutti i nostri mali, facendo finta di non capire che il federalismo fiscale non serve a nessuno, neppure a Lombardia e Veneto, moltiplicherà solamente i centri di spesa, metterà ancor più le mani nelle tasche dei cittadini, inventandosi le tasse municipali più disparate. Questo abbraccio mortale tra Berlusconi e la Lega produrrà appunto solo questo: una svolta epocale, secondo l’ottuso ministro Tremonti, che non farà altro che continuare ad impoverire un paese già allo stremo.
Insomma, il dubbio che circola sempre più spesso è: che cosa si può fare per far ripartire il paese e porre fine al potere di Berlusconi? Inutile attendere  dimissioni che non verranno mai, occorre pensare a qualcos’altro. Vanno bene le manifestazioni di piazza, ad Arcore, il sussulto d’orgoglio da parte di molte donne, ma tutto questo non basta, non può bastare. Occorre, parafrasando le parole, nel film “Apocalypse now”, del capitano Willard inviato nel cuore di tenebra del Mekong a caccia dell’impazzito Kurtz, “porre fine al suo comando”. Ribadiamo ancora una volta che la nostra, al punto in cui siano arrivati, è una democrazia camuffata, una tirannide allentata, più metaforica che reale, ma, insomma, il senso non cambia. Stiamo scivolando nel fango, giù, sempre più giù, internazionalmente l’Italia non ha più alcun peso specifico, abbiamo una crisi che potrebbe rivelarsi irreversibile, possiamo andare a nuove lezioni, il PDL conserverebbe un numero considerevole di consensi, ma Berlusconi, con i mezzi leciti previsti dal nostro ordinamento, andrebbe rimosso dalle sue funzioni, se non altro per evitare un conflitto istituzionale intollerabile in uno stato di diritto. La parola a questo punto potrebbe passare al Presidente della Repubblica che vede, tra i compiti a lui affidati, quello di garante di una armoniosa convivenza tra le diverse istituzioni delo Stato.

lunedì 7 febbraio 2011

GRANDE E' LA CONFUSIONE SOTTO IL CIELO (ma la situazione non è ottimale)

Prima di analizzare lo stato dell’arte, desidero formulare un paio di riflessioni che, spero, siano di aiuto a chiarire, almeno in parte, quello che sta accadendo a livello economico e sociale.
La prima riflessione riguarda l’assenza di conflitti mondiali da circa settant’anni. A parte diversi focolai di guerra abbastanza localizzati e comunque circoscritti, un conflitto di proporzioni almeno continentali non si verifica dalla seconda guerra mondiale. Può sembrare una obiezione piuttosto azzardata, ma, riflettendoci meglio, un periodo di pace prolungato, considerato che non ne abbiamo avuto ancora esperienza, può provocare degli effetti geopolitici distorsivi. L’uomo è un animale che ha scolpito nel DNA l’istinto di sopraffazione, di dominio, di potenza, quindi di guerra. La pace forzata produce la conseguenza che il conflitto si trasferisca dalle armi belliche a quelle finanziarie. A rigore, dunque, la guerra c’è, non solo, è appena agli inizi. La guerra tra le economie emergenti e quelle dei vecchi continenti è un dato di fatto, la guerra finanziaria che si rappresenta tutti i giorni nei teatri delle borse e dei mercati ormai non meraviglia più nessuno. Le conseguenze più immediate che avevano le guerre guerreggiate, oltre al deplorevole spargimento di sangue, era l’azzeramento, il reset di tutti i sistemi coinvolti nel conflitto. Le economie e le finanze ripartivano da zero, magari con regole nuove, ma soprattutto con obiettivi diversi. C’erano traguardi da raggiungere, magari a tappe forzate, piani quinquennali da perseguire, c’era la motivazione formidabile data dal rinascere dalle proprie macerie, risorgere dopo la distruzione di cose e persone . C’era voglia di fare, di costruire, di ricominciare da capo, gli spazi per le oziose e vigliacche speculazioni di pochi tycoon non trovavano spazio per svilupparsi. Questo spostamento della conflittualità tra popoli e nazioni dal piano della guerra combattuta con le armi a quella combattuta sui mercati ha prodotto sì l’evitamento di una “inutile strage”, ma genera pur tuttavia la sconfitta dei paesi più deboli, che si credevano i più forti, fa le sue vittime, produce i suoi disastri.
La seconda riflessione riguarda il capitalismo. Il capitalismo è un sistema economico finanziario che funzione bene solo ne mercati chiusi. Fino a quando sono esistiti i blocchi contrapposti est-ovest, le economie socialiste e quelle liberiste dell’occidente, tutto è filato liscio. Dal momento in cui ha preso avvio la globalizzazione, il capitalismo non ha più retto, e ha cominciato ad implodere per le sue contraddizioni. Un sistema che pareva concepito per le sole economie ricche e potenti ha finito col privilegiare quelle più povere ed emergenti, ha dato loro la possibilità di schiacciare quelli che una volta erano i paesi ricchi. L’occidente, nel concepite e sostenere in ogni caso (soprattutto con la mancanza di regolamentazioni serie dei mercati), continuando a sostenere le politiche della redditività a tutti i costi,  abolendo qualunque etica che non sia quella del solo profitto, ha finito per “sparasi sui piedi” per usare una felice espressione del presidente Barroso. Così, con buona pace degli anticomunisti ad oltranza, ci ritroviamo con un sistema che abbiamo escogitato per diventare sempre più ricchi, ed ora, che i comunisti non ci sono più, questo stesso sistema ci si ritorce contro, facendo sì che i paesi che abbiamo per decenni dominato con il colonialismo, adesso si rivoltano e deprimono le nostre economie  sviluppando delle crescite vertiginose, polverizzando i nostri miseri PIL, dettando loro le condizioni del mercato.
Terminate queste due piccole riflessioni, riporto di seguito l’analisi di Walter Riolfi del “Sole 24 ore” sulla “leva finanziaria”che, malauguratamente, non contribuiscono a sollevare il nostro morale.

Ricorda molto la crisi del credito del 2007-2008 la presente situazione. E sebbene la marea di un nuovo incipiente disastro possa ancora essere arginata dalla determinazione dei politici del Vecchio continente e soprattutto dalla volontà di quelli tedeschi, questa volta potrebbe essere anche peggio.
I contorni della crisi sono assai simili a quelli già visti nel dopo Lehman. C'è una forte contrazione della liquidità sui mercati finanziari, si sono quasi ingessati gli scambi sui titoli di stato, è iniziata una sorta di fuga dalle azioni che continuano ad essere il mercato più liquido, si rincorrono le voci di primary dealer (le grandi banche d'affari) che pretendono margini di garanzia più alti dai loro clienti. Infine gli hedge fund, che sono gli investitori più rapidi a percepire i cambiamenti, hanno iniziato a liquidare le posizioni.

Anche parecchi sintomi sono ricorrenti: le banche europee cominciano ad aver problemi nel reperire i fondi e si rivolgono con più insistenza alla Bce, come suggerisce uno studio di UniCredit; i tassi interbancari, come pure Euribor e Libor, sono in rialzo a dimostrazione che tra le banche cresce la diffidenza a prestarsi vicendevolmente denaro; gli investitori cercano rifugio nei titoli considerati più sicuri (come il Bund tedesco o il T-bond Usa) e aumenta la propensione a parcheggiare denaro nei titoli di liquidità, come lo Schatz a 2 anni europeo i cui rendimenti sono caduti allo 0,45%. Poco più di un mese fa erano ancora all'1%, in linea quindi con il tasso della Bce. Nel 2008-2009 era accaduto qualcosa di simile con i T-bill Usa a uno e 3 mesi, i cui rendimenti erano addirittura diventati negativi. Pur di mettere al sicuro la liquidità, gli investitori (leggi, soprattutto, le banche) sono disposti a sacrificare anche i guadagni.
Nonostante le borse siano in ribasso da oltre un mese, la marea di una nuova crisi del credito è ancora nella fase iniziale: quella in cui gli investitori non stanno ancora liquidando pesantemente le attività finanziarie, ma cercano di proteggere i portafogli vendendo i future sui titoli di stato, quelli sugli indici di borsa e anche quelli sulle materie prime. Ma se si lascia montare la marea, i rischi diventano ancora peggiori di due anni fa. Per due motivi: perché, se allora c'erano i governi pronti a salvare banche e società finanziarie sull'orlo del fallimento, ora gli stati sono incapaci di agire dopo essersi fatti carico dei debiti del sistema; e perché la leva finanziaria del sistema è probabilmente ancora più grande di prima. Soprattutto le banche (e non gli hedge fund su cui si vorrebbe scaricare la colpa di ogni disastro) sono più indebitate di un tempo.

Rispetto a tre anni fa, c'è meno carta costruita sui mutui casa nei loro portafogli (o comunque meno subprime), ma i nuovi titoli tossici rischiano di essere adesso proprio i tranquilli titoli di stato. Lasciamo perdere quelli greci che i subprime li possono ricordare. Il fatto è che anche le attività più sicure possono diventare tossiche: succede lo stesso con i buoni funghi porcini se li si assume in grandi quantità. E di titoli di stato le banche, specie alcuni istituti tedeschi di piccola e media grandezza, hanno fatto incetta da un anno a questa parte. Considerati liberi da rischio nella generale convenzioni degli investitori e senza rischio pure dai principi contabili di Basilea, al punto da non richiedere ratio patrimoniali aggiuntivi per chi li compera, i titoli sovrani sono finiti in abbondanza nei portafogli degli istituti di credito finanziati con la liquidità presa a prestito dalle banche centrali a tassi quasi a zero. Ci si indebita a breve all'1% e s'investe al 3% e oltre in titoli a lunga scadenza: due punti di guadagno senza alcuna fatica e nella convinzione di non correre rischio. Così, la facilità del gioco ha spinto alcuni istituti a indebitarsi per oltre 50 volte il patrimonio.

Invece il rischio c'era. O, meglio, il rischio, pur piccolo in generale, s'è moltiplicato per enne volte in proporzione alla leva finanziaria, innescato dalla Grecia e dai titoli portoghesi, irlandesi e spagnoli le cui quotazioni sono scese a partire da novembre. Del resto basta guardare ai bilanci della banche per capire come queste fanno i soldi. Negli Stati Uniti e in Europa, il 50-75% dei profitti arriva dal trading sul reddito fisso: in sostanza significa indebitarsi a breve per comperare titoli a lunga scadenza, una prassi che fino a 20 anni fa sarebbe stata considerata folle. Si aggiunga che l'euforia aveva colto anche il mercato dei bond societari (solo per quelli a miglior rating i rendimenti sono saliti in un mese di quasi 45 centesimi, quindi è sceso sensibilmente il valore) e quelli delle materie prime, e si capisce come l'urgenza di fare un poco di liquidità abbia finito per far grippare il mercato.

In settimana il pretesto dei crolli di borsa sono state le disposizioni tedesche sulle vendite allo scoperto, di per sè assai ragionevoli nei contenuti, ma assai meno nel modo in cui sono state attuate. È tuttavia evidente che se i mercati finanziari hanno bisogno di una maggior regolamentazione, sono proprio le banche e le società finanziarie a necessitare di una nuova disciplina. O si impongono limiti al loro indebitamento oppure si devono pretendere requisiti patrimoniali sufficientemente alti da scoraggiare gli eccessi speculativi.

Riproduzione riservata (“Il sole 24 ore”)



sabato 5 febbraio 2011

SPIACENTI, MARCHIONNE, SEI ARRIVATO SECONDO

Dobbiamo, nostro malgrado, dare un dispiacere al Dott. Marchionne, che con il cosiddetto “accordo di Mirafiori”, ha creduto di essere un innovatore e di avere introdotto nel nostro sempre più sfortunato paese un nuovo modo di lavorare, di gestire i rapporti con i lavoratori, di fare (o meglio non fare) più contratti collettivi. Caro dott. Marchionne, forse lei non se ne è neppure accorto, ma ha sfiorato il plagio. Molto tempo prima di lei, un signore che ho promesso dalle pagine di questo blog di non nominare più (per il semplice fatto che il suo nome non è neppure degno di menzione) ha applicato i suoi stessi metodi alla Pubblica Amministrazione. Vediamo nel dettaglio le convergenze e le pochissime divergenze tra le due metodologie. Il ministro della Pubblica amministrazione, ispirandosi al modello corporativo del fascismo (come vedremo non ha inventato nulla neppure lui) ha attuato, nel silenzio assordante delle organizzazioni sindacali, un sistema delle relazioni, dell’organizzazione e della disciplina delle sanzioni che nulla hanno da invidiare al modello Fiat. Vediamole punto per punto, con una avvertenza: quando confrontiamo le due modalità di approccio al problema ci riferiamo, ovviamente per omogeneità, al ceto impiegatizio. Non è paragonabile un lavoratore della catena di montaggio ad un impiegato amministrativo. Ricordiamo, peraltro, che il voto della Fiat è risultato favorevole a Marchionne proprio in forza dei voti portati al suo mulino dagli amministrativi.
1)      La restrizione o lo spostamento delle pause. Nella pubblica amministrazione, facciamo l’esempio della scuola, le pause dedicate al pranzo semplicemente non esistono. Non sono previsti, per tale personale, i buoni pasto, quindi ciascuno si ritaglia una pausa come e quando può, magari portandosi da casa un gamellino, dal momento che pagarsi anche il pranzo, con gli stipendi erogati dal MEF, sarebbe davvero troppo oneroso.
2)      La decurtazione dello stipendio nel caso di malattia. Nella Pubblica amministrazione è già operativa tale decurtazione, applicata per i primi dieci giorni dell’evento morboso. Tale decurtazione, è bene precisarlo, è incostituzionale, in quanto un lavoratore non può essere penalizzato a motivo della sua salute. Il presidente Napolitano, quando ha firmato questa castroneria, era probabilmente distratto.
3)      La disciplina delle visite fiscali. E’ più favorevole ai lavoratori del settore privato, in quanto le fasce di reperibilità sono due, di due ore ciascuna. Per i lavoratori pubblici sono sempre due,  ma  di sette ore complessive. Si tratta di un altro provvedimento incostituzionale, data la disparità di trattamento, altra distrazione del Capo dello Stato.
4)      La premialità della produttività. La disciplina della riesumazione del “cottimo” esiste già nella pubblica amministrazione, benché, a rigore, risulta in tal caso di più difficile applicazione rispetto al privato. Un operaio Fiat può essere premiato per avere prodotto in un giorno 50 pezzi oltre la media giornaliera, la misurazione è facile, mentre un impiegato della P.A. è sottoposto al giudizio del dirigente, che valuterà motu proprio, l’eventuale accrescimento della sua produttività. Serpeggia il timore, anche tra le anime più candide, che tale dirigente, non disponendo di criteri oggettivi di  misurazione, utilizzi criteri, per così dire, “personalistici” di valutazione, a seconda che il dipendente in questione sia un amico o un nemico, un uomo o una donna, un parente o un affine ecc.
5)      L’estinzione dei contratti collettivi. Anche in questo caso il ministro in questione ha già previsto tutto. Nella Pubblica amministrazione i contratti nazionali sono stati svuotati di significato, ne rimane la sola impalcatura, dal momento che la parte più significativa degli argomenti oggetto di contrattazione saranno regolati non più dalla concertazione con le OO.SS. ma dal vecchio sistema di leggi e leggine che arrivano sul capo dei dipendenti direttamente dai singoli ministeri. Basterà una semplice circolare a spostare gli assetti normativi, come negli anni cinquanta, anzi  negli anni trenta.
6)      L’istituzione dei sindacati aziendali. Si tratta, in questo caso, non di una innovazione del ministro, ma di una conseguenza dell’estinzione dei contratti. Con la sola eccezione della CGIL, gli altri sindacati (CISL, UIL, UGL ecc.) si sono modificati progressivamente in “sindacati aziendali”, come nella Italia delle Corporazione di Bottai nel ventennio fascista. Sono dei simulacri di sindacato, che in realtà invece di cercare di far la propria parte nella logica di una dialettica che dovrebbe essere ovvia in uno stato di diritto, fanno gli interessi dell’amministrazione, cercando di gettar un po’ di fumo negli occhi dei lavoratori. Anche in questo caso Marchionne è arrivato secondo.
7)      Il sistema delle sanzioni. Il piccolo ministro ha partorito, ancora una volta (ispirandosi a diversi regi decreti e al codice “Rocco”) un sistema sanzionatorio smisurato, articolatissimo, noioso fino alla pedanteria. Sono previste sanzioni disciplinari anche per delle emerite scemenze, in un numero infinito di pagine si parla di come colpire questo o quell’altro, non una riga è dedicata a come contribuire a motivare il dipendente, a come cercare di renderlo orgoglioso (ammesso che ciò sia possibile) di quello che sta facendo. L’unico pensiero dominante è quello di bastonare, di piegare il dipendente con la logica della schiavizzazione non quella dell’appartenenza.

Ora, è ovvio che una persona della statura (è il caso di dirlo) di Marchionne non deve certo ispirarsi ad un ministro berlusconiano che vuole trasformare la Pubblica amministrazione in una corporazione, abbiamo capito tutti che l’attuale politica dell’amministratore della Fiat è solo un passaggio intermedio per cercar di rendere meno dolorosa la definitiva delocalizzazione della Fiat (come di tutte le altre imprese di Federmeccanica, del resto) dall’Italia a paesi più competitivi. Il ministro di cui abbiamo parlato viceversa, sarebbe felice di ispirarsi a Marchionne, affidando la Pubblica amministrazione ai romeni o ai polacchi, pagandoli, magari, 400 euro al mese.
Racconto, in conclusione, un piccolo aneddoto, cercando così di dimostrare che non sono solo parole quelle che ho scritto, ma hanno un considerevole riscontro con la realtà.
In seguito ad un intervento odontoiatrico compiuto da un signore che farebbe bene a cambiare mestiere, mi è esploso un dolore insopportabile ad un molare. La mattina in questione entro nel luogo di lavoro, ma dopo un’ora non riesco più a sopportare il dolore e mi reco al Pronto Soccorso odontoiatrico di un ospedale della mia città, il Galliera. Mi fanno passare come “urgenza”, mi visitano, dopo avermi fatto pagare venti inutilissimi euro, un paio di ragazzi specializzandi, che, pur  non capendo vistosamente nulla, mi propongono di aprire il dente, avvertendomi che, in questo caso, lo dovranno devitalizzare. Ovviamente mi sottraggo al ruolo di cavia, chiedo un certificato che rechi la prognosi di un giorno, dal momento che il dolore non è passato e non posso far intervenire due dilettanti. Mi si dice che non possono rilasciare prognosi me solo la dichiarazione del tempo trascorso presso di loro. Questo perché il ministro in questione ha stabilito l’invio telematico dei certificati medici sia per le strutture pubbliche che per i medici convenzionati con il S.S.N. Non avendo voglia di farmi il certificato, i sanitari del Galliera mi rimandano al medico di famiglia, che però aveva, a quel punto, già svolto l’orario di studio. Cerco di contattarlo ma, trovandosi in giro per la città e non avendo a disposizione un computer , non è in grado di produrre una certificazione medica con la prognosi di un giorno. Risultato: o rientro al lavoro con un dolore accecante, o prendo un feria per motivi di salute (che è una contraddizione in termini).
E’ capitato a me, sembra una sciocchezza, eppure rende l’idea di come, questo signore che ha riportato l’Italia indietro di sessant’anni, rendendo la normativa ancor più ingarbugliata e farraginosa, è un figlio prediletto del berlusconismo. Speriamo tutti che dedichi il resto della sua esistenza a cercare di conseguire il Nobel per l’economia, come lui stesso ha dichiarato. In questo caso, ponti d’oro, e tappeti rossi.

venerdì 4 febbraio 2011

CHE COSA MANCA ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE?

Come ho ribadito in più di una circostanza, una prossima consultazione elettorale sarebbe salutata con giubilo dal sottoscritto, non solo per la coltivazione della speranza che ci si libererebbe dalla inqualificabile presenza dell’inquilino di palazzo Grazioli, ma soprattutto, per chi lavora nella Pubblica amministrazione, si presenterebbe l‘occasione di sbarazzarci dell’ingombrante presenza di un personaggio che, non solo non ha ancora capito quello di cui si sta occupando, ma continua a demolire quanto di buono permaneva nelle P.A. Il suo approccio, totalmente sbagliato (non si parte dal principio che i pubblici dipendenti sono fannulloni, ad eccezioni di alcuni, si parte dal principio inverso, solo alcuni sono fannulloni), il suo modo di porsi, di relazionarsi con i suoi interlocutori, di fare apparire le sue parole come verità rivelate, il suo cinismo, la sua arroganza dettata dalla frustrazione, tutto concorre a fare di quest’uomo l’uomo sbagliato nel posto sbagliato. La Posta Elettronica Certificata non la usa nessuno, tanto meno la Pubbliche amministrazioni, i tassi di assenteismo non sono affatto diminuiti, anzi, sono accentuati, per il semplice fatto che il pubblico dipendente, falcidiato dai tagli inferti agli organici, costretto a svolgere una mole di lavoro che fino a pochi anni fa era suddivisa in più persone, l’essere incalzato da scadenze, rilevazione dati, monitoraggi, statistiche (insomma, tutto quello che la CGIL definisce “molestie burocratiche”) fanno sì che si rifugi sempre più spesso nella malattia, nell’infortunio, nelle ferie, nei permessi, nelle aspettative. Si sta scivolando nella sindrome aziendale denominata “Burn out” che si palesa quando un dipendente è “bruciato”, sviluppa una tale intolleranza per il posto di lavoro che lo ospita da pensare al ricorso alla malattia come ad una ancora di salvezza, e quando è in servizio è di cattivo umore, tratta male i colleghi, ha difficoltà nei rapporti con la dirigenza, sviluppa sindromi psicosomatiche ecc.
Ora, non ci voleva un genio per capire che se la pubblica amministrazione presenta delle sacche di privilegi e di nullafacenza non è da addebitarsi al singolo lavoratore , ma allo smisurato livello di corruzione che affligge i dirigenti pubblici. Pubblico di seguito un illuminante articolo di Rosaria Amato tratto da “Repubblica”. Riporta il tentativo compiuto dall’Istat di concerto con la Corte dei Conti di misurare i livelli di corruzione dei Pubblici amministratori.


Prima di noi ci sono la Grecia, la Bulgaria e la Romania: la classifica redatta dalla Commissione Europea vede l’Italia in coda alla graduatoria della corruzione della Pubblica Amministrazione. Non è un granché, ha ammesso oggi il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, annunciando in un convegno un accordo con la Corte dei Conti e la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione per mettere a punto un metodo affidabile di misurazione del fenomeno della corruzione. Perché, nonostante i tentativi, e nonostante la ricerca della Commissione Europea, che è stata condotta dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Goteborg, i confini del fenomeno rimangono piuttosto sfuggenti. A oggi sulla corruzione, ha detto Giovannini, “abbiamo soltanto aneddoti e report parziali”. Infatti considerare solo i reati denunciati porta senz’altro a una sottostima del fenomeno, mentre le percezioni, “possono essere distorte da fatti di cronaca eclatanti” che, ancora una volta, “nascondono una riduzione del fenomeno”.
Detto questo, e in attesa di conoscere le stime approfondite sulla corruzione che l’Istat riuscirà a mettere a punto prossimamente, i dati consegnati qualche giorno fa alla Commissione Europea sono, come sempre, sconfortanti per il nostro Paese. L’Italia è agli ultimi posti non solo per corruzione, ma anche per l’efficacia del governo e delle leggi. In dettaglio, l’Italia è terzultima nella classifica del ‘buon governo’ (dopo ci sono solo Bulgaria e Romania, nei primi posti invece spiccano Danimarica, Svezia e Finlandia). Per efficacia del governo l’Italia è al venticinquesimo posto, dopo vengono, ancora, Bulgaria e Romania. Per efficacia delle leggi le cose non cambiano (del resto l’aveva già detto Manzoni in ‘Storia della colonna infame’…). Per il controllo della corruzione l’Italia guadagna un modestissimo posto, e quindi, oltre alle solite Bulgaria e Romania, la segue anche la Grecia, nel fondo della graduatoria.
C’è un però: se si passa dalla considerazione dell’Italia come Paese alla considerazione delle Regioni le cose cambiano, perché a questo punto le virtuosissime Valle d’Aosta, Trentino e Alto Adige salgono in cima alla graduatoria, mentre Campania e Calabria sprofondano.

Chissà se qualcuno si prenderà il fastidio di informare il Ministro Brunetta che quello che manca alla Pubblica amministrazione sono semplicemente dei dirigenti onesti, e, in subordine, capaci e competenti. E' pretendere troppo?

mercoledì 2 febbraio 2011

TUTTA LA VITA IN UN GIORNO


La notte, da queste parti, cade all’improvviso, con un crepuscolo che si tuffa nel mare nel breve volgere di un minuto, con l’ultimo bagliore (l’afterglow degli anglosassoni) che traluce nel raggio verde di Resnais. Dopo di che è buio. Io mi ritrovo a vivere in questo brevissimo spazio temporale, e per il resto non esisto. O meglio, il resto della nottata e la giornata successiva non sono che un dipanarsi di quello che in questo spazio è concentrato come in un buco nero. Ci sono, ma sono altrove, soprattutto dove ho lasciato un amore, un’amicizia, uno scambio anche frettoloso di abbracci e tenerezze. Ma anche dappertutto, in ogni luogo della terra, dei mari, dei corsi d’acqua dolce, nel vento che gira le banderuole e scarmiglia i capelli, negli occhi dei viaggiatori che riempiono la notti su convogli sferraglianti di timidi sorrisi e i giorni assolati di menzogne e sortilegi, nelle piazze dei mercati affollate di profumi e di brusii. La penombra è il mezzo attraverso il quale mi propago, come si propaga la luce nel vuoto: lo spettro dei colori mi appartiene così come il sogno sognato ieri diventa rivelazione di oggi e di domani. E’ un sogno senza trama, fatto solo di luce e colori, dove il non detto conta più delle parole sprecate durante il giorno, e tutto si consolida in un grumo spesso di colore. Ripercorro con la mente le vite che non sono state mie, ma potevano essere mie, e rivedo la tua figura stagliata contro l’aurora di qualche anno fa, rivedo i luoghi che abbiamo visitati, le persone che ci hanno parlato, e i nostri discorsi seduti sotto il pergolato a picco sul mare. Ricordi? Parlavamo di un piatto che tardava ad arrivare, già ebbri del vino rosso rubino, denso e forte. Io ti guardavo cercando di fissare quel momento, che si sarebbe dilatato nella mia memoria, restandovi una volta per sempre, come fissato su di una radiografia. Ma, ancora una volta, tutto quello che mi passa davanti agli occhi, in questo giorno freddo di febbraio, e che pure riesco a decifrare fino al particolare, è così rapido e silenzioso da tramutarsi in un solo colore: è l’indaco degli ibisco, è lo smeraldo delle colline dolci piene di lenzuola, è il magenta incerto degli specchi d’acqua, il viola intenso delle distese immense di ciclamini, è il turchese della porta della nostra camera, che aprimmo insieme e insieme lasciammo aperta. Nello spazio brevissimo di questo mio essere di adesso, che è l’intervallo fra il mio ora e il nostro allora, mi passa davanti agli occhi tutta le vita che ho trascorso e quella che mi resta, ma nella mia memoria non vedo una sequenza, non vedo i volti, le pianure, i viaggi, gli incontri e poi gli addii, riesco solo a distinguere i colori finalmente scomposti come in una lanterna magica. E allora tutta la materia si concentra e si condensa in questi colori, fatti solo di luce rarefatta, che tutto contiene e tutto porta via. In un giorno, questo giorno, ho visto per un momento tutto il mio tempo, ho ancora in bocca il sapore del pane appena sfornato e dell’olio appena versato. Chiudo gli occhi e ti aspetto, aspetto il tuo bacio e la mia carezza, tra le reti dei pescatori e le barche trascinate in secca. 
A Fiorella
Il presente post è liberamente ispirato a "Messaggio nella penombra" di Antonio Tabucchi