domenica 27 febbraio 2011

SE LO STATO DIVENTA UN ESATTORE

Tutti noi siamo incorsi almeno una volta in una cartella “pazza”, nel diritto ad un rimborso da parte dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, nel pagamento di multe, sanzioni a vario titolo, cartelle esattoriali e quant’altro. A prima vista, ad una panoramica sommaria, un dato colpisce immediatamente: nel caso di errore (sempre possibile nelle umane cose), tale errore, se imputabile all’ente preposto alla riscossione, non è mai a danno dell’ente medesimo, ma sempre, dico sempre, a danno del cittadino. Già questo dato, di per sé, fa sorgere qualche legittimo sospetto. Si dirà: ci sono i sistemi informativi, tutto è informatizzato, quasi a escludere l’errore umano. D’accordo per l’informatizzazione, ma un sistema, un software, per quanto complesso, deve essere impostato con parametri e profili che siamo noi a decidere. Altro dato che fa riflettere: allorquando il cittadino maturi il diritto ad un rimborso, o ad un risarcimento da parte dell’Agenzia delle Entrate o di un ente previdenziale, i tempi si allungano smisuratamente. Ci sono dei rimborsi che deve effettuare l’INPS ai superstiti, in caso di morte di un proprio congiunto, che prevedono tempi di sei anni (avete letto bene, proprio sei anni). Viceversa, quando mia madre è scomparsa, il giorno stesso della sua morte ho provveduto ad inviare all’INPS una Posta elettronica certificata attestante il decesso: bene, dopo due ore di numero, la sua pensione era stata rimossa. In compenso, per riscuotere i ratei di tredicesima cui aveva diritto, occorre fare una domanda cartacea da presentare allo sportello, ed attendere mesi, se non anni. Nel primo caso la PEC funziona benissimo, nel secondo non viene accettata, occorre recarsi di persona presso le sedi dell’INPS che ricevono solo al mattino (con la sola eccezione di due ore pomeridiane del lunedì). E’ l’unico caso a me noto di funzionamento della PEC, uno dei fiaschi più clamorosi del Ministro dell’Innovazione. Quando si verifica un errore a danno del contribuente, il cittadino ha l’onere della prova, deve telefonare per ottenere informazioni, recarsi di persona presso l’ufficio preposto, compilare una montagna di carte bollate (altro che PEC!). Per poi, ad ogni sollecito, sentirsi rispondere che il carico di lavoro degli uffici è enorme, si farà il possibile per chiudere la sua pratica, ma che bisogna avere pazienza, e intanto il tempo passa. E intanto, col passare del tempo, cambiano tante cose: un improvviso cambiamento in famiglia, uno spostamento di residenza, un lutto che modifica gli assetti familiari, insomma lo Stato sembra fare affidamento sul trascorrere dei mesi e degli anni, fiducioso che il cittadino, per dimenticanza, per qualche sconvolgimento della sua vita, o semplicemente perché è morto nel frattempo, non avanzerà più pretese su quel credito. In un paese dove il 10% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza della nazione, dove solo l’1% dichiara un reddito superiore ai 100.000 euro, il rapporto fra Stato e cittadino comune si fa sempre più diffidente, sempre più conflittuale, soprattutto in tempo di crisi. Lo stato viene vissuto come un ente che tartassa i soliti noti, coloro che vengono tassati alla fonte, dei quali si conoscono vita morte e miracoli, e che, con una pervicacia degna di miglior causa, si cerca di vessare continuamente con balzelli e imposte di ogni genere; d’altro canto, una parte cospicua dei cittadini vive come in un paradiso fiscale evade, elude il fisco con sfrontatezza, qualche volta è perfino sconosciuta al fisco, e se la spassa alla faccia di quelli che le tasse le pagano. Tutte le volte che il luminare di turno, per il solo fatto di averci concesso un quarto d’ora del suo preziosissimo tempo, ci fa il discorsetto: “sarebbero 150 euro, ma se non le faccio la ricevuta diventano 120”, ci troviamo spiazzati, non sappiamo cosa rispondere, e finiamo per accettare il ricatto. In qualche altra circostanza, il professionista di turno intasca letteralmente i nostri soldi senza battere ciglio, profittando della condizione nella quale ci troviamo: abbiamo bisogno di lui, delle sue prestazioni, pendiamo dalle sue labbra per un possibile verdetto. Bene, questo atteggiamento, assai diffuso come tutti noi sappiamo, non solo infrange il codice penale, ma è profondamente immorale, perché arreca un danno indiretto ma tangibile, al nostro patrimonio. Questi professionisti cui ci rivolgiamo nei momenti del bisogno non devono comportarsi come dei benefattori, devono semplicemente pagare il dovuto. E la Guardia di Finanza, un corpo sostanzialmente utile solo a se stesso, dovrebbe trarre ispirazione da talune trasmissioni televisive che, guarda un po’, dimostrano una efficienza di molto superiore ai finanzieri nello scovare potenziali evasori. Il fatto è che il cittadino avverte che lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti, e siccome, per il momento, viviamo in un sistema economico di tipo liberista, i forti sono quelli che detengono le ricchezze del paese, e per il solo fatto di essere ricchi sono oggetto di sconti e favoritismi che spetterebbero di diritto, semmai, a coloro che veramente hanno bisogno. E’ il mondo alla rovescia. Se poi, allo stato esattore, affianchiamo lo stato inefficiente nella erogazione dei servizi, allora tocchiamo proprio il fondo. Il mio stipendio di dicembre 2010, contenente la tredicesima, contemplava un totale delle ritenute previdenziali e fiscali praticamente pari ad una mensilità. Mi danno la tredicesima e poi se la riprendono. Se, come in Svezia e Danimarca, i soli paesi che superano l’Italia in fatto di pressione fiscale, corrispondessero a quanto dovuto dal cittadino, servizi proporzionali a quanto versato, allora pagare le imposte assumerebbe tutt’altro significato. Ma qui, tra parentopoli, corruzione dei pubblici amministratori (siamo solo dietro a Romania e Grecia), sprechi e dissipazioni per creare posti di lavoro fittizi per amici e congiunti, pagare le tasse diventa solo un tormento insopportabile. Se lo Stato diventa solo un esattore, non ti fornisce i servizi minimi essenziali, o te li fornisce male e a singhiozzo, allora il rapporto fra stato e cittadino si incrina sino a spezzarsi: si vive lo Stato e i suoi enti esattori come un nemico, con cupa diffidenza, si finisce col fare di ogni erba un fascio. Se si continua a procedere con la politica della tassazione alla fonte del 44% e, allo stesso tempo, si concedono condoni e scudi fiscali per i grandi evasori (basta leggere il decreto milleproroghe approvato in via definitiva in questi giorni), non si può pretendere di educare il cittadino alla legalità. Uno stato degno di questo nome deve meritarsi il rispetto del contribuente, non deve comportarsi come un aguzzino che prende i soldi dove può e dove è più comodo. Se questo non accade, allora anche il cittadino più onesto, allorché si presenterà l’occasione, cercherà di eludere, di evadere, di emulare, nel suo piccolo, il comportamento dei grandi evasori. Uno stato che sa solo prendere, ma quando deve restituire al cittadino fa di tutto per rendergli la vita impossibile, imbrigliandolo in una serie di molestie burocratiche e facendogli attendere anni per un rimborso di denari che gli appartengono, non merita rispetto né considerazione. E non è questione di colore politico: si sono avvicendati governi di centro sinistra e centro destra, la musica non è cambiata. Bisognerebbe rifondare questo stato dalle fondamenta, ci vorrebbe una terza repubblica che ritrovasse il senso del rispetto del cittadino, dell’equità e della solidarietà sociale, della persecuzione di sacche di privilegio e corruzione, uno stato che sapesse ritrovare le ragioni del proprio esistere: amministrare la cosa pubblica.