venerdì 11 febbraio 2011

IL SUICIDIO RALLENTATO (sono davvero efficaci gli antidepressivi?)

Tra i farmaci in vetta alle classifiche di vendita in Italia, oltre alle statine (molecole anticolesterolo), gli antipertensivi e gli ansiolitici, troviamo i cosiddetti SSRI, antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Prima di loro, che sono considerati tuttora come farmaci “nuovi”, innovativi, anche se sono in commercio da almeno vent’anni, venivano utilizzati i cosiddetti farmaci “triciclici” che, a differenza degli SSRI, non sono inibitori  del reuptake della sola serotonina, ma anche di altri neurotrasmettitori, come la noradrenalina e la dopamina. Ora, mentre è nota la farmacodinamica di queste molecole (il meccanismo di azione) non è ancora chiaro il loro effetto diretto o indiretto sul tono dell’umore del paziente, su quello che si definisce “tono timico”. In pratica questi principi attivi aumentano la biodisponibilità delle amine cerebrali che giocano un ruolo fondamentale nelle sinapsi neuronali: un aumento della loro disponibilità in qualche modo innalza la soglia dell’umore e potrebbe provocare una maggiore rilassamento generale. Sfortunatamente, tutto questo non è stato ancora del tutto dimostrato, e mentre i vecchi triciclici come l’amitriptilina (il Laroxyl) hanno dimostrato in diversi studi a doppio cieco versus placebo una maggiore efficacia rispetto ai più recenti SSRI (fluoxetina – Prozac, paroxetina – Seroxat, Sereupin), il Sistema Sanitario Nazionale continua ad accollarsi una spesa non indifferente per rimborsare dei farmaci non solo la cui efficacia non è completamente dimostrata, ma che presentano un rischio suicidarlo spiccatamente maggiore rispetto ai triciclici, pur essendo meno efficaci di questi ultimi. In sostanza, come sostiene il Prof. Garattini nell’intervento che riporto di seguito, questa tipologia di farmaco deve essere impiegata solo nei casi di depressione severa, mai in una banale distimia, deve essere affiancata ad una psicoterapia di supporto, e, soprattutto, la scelta del farmaco, sebbene da valutarsi caso per caso, è bene che ricada su di un vecchio triciclico, sicuramente più efficace di un più recente SSRI, dotato di effetti collaterali praticamente sovrapponibili, ma soprattutto, infinitamente meno costoso (un triciclico arriva a costare fino a cinque volte meno di un SSRI). Ma vediamo che cosa pensa a questo proposito il direttore dell’Istituto “Mario Negri” Silvio Garattini:

Erano gli anni ’50 quando nacque il primo farmaco antidepressivo, si chiamava imipramina – ancora oggi in commercio – ed era stato scoperto per caso.  Sintetizzato negli anni ’40 sperando sulle sue proprietà antistaminiche, era arrivato alla clinica come un debole farmaco antipsicotico, e alla fine aveva rivelato un’attività antidepressiva. Fra incredulità ed entusiasmo aveva creato una classe di composti detti antidepressivi “triciclici”. In seguito utilizzando le conoscenze sul suo meccanismo d’azione, arrivarono i farmaci che agiscono sulla serotonina, noti con la sigla SSRI. La serotonina  divenne il mediatore chimico dell’umore e la fluoxetina (nome commerciale più conosciuto Prozac) fu celebrato come “il” farmaco antidepressivo. La “pillola della felicità” ebbe un grande successo nella stampa, ma soprattutto per chi ne deteneva il brevetto ed incassava il prezzo delle vendite. Alla fluoxetina seguirono molti altri farmaci del gruppo SSRI, che si appropriarono di fette di mercato soprattutto quando la fluoxetina divenne un farmaco generico. Contemporaneamente prese vigore un’altra classe di farmaci che seguiva un altro meccanismo d’azione, quello dell’interazione con un altro mediatore chimico, la noradrenalina. Poi cominciarono i primi problemi perché il mercato – ovvero la propaganda – può spingere un farmaco fino ad un certo punto: prima o poi, soprattutto quando si tratta di una malattia grave come la depressione, la verità finisce per venire a galla. In realtà per farmaci antidepressivi c’è voluto molto tempo, perché, pur non trovando impiego per la “malattia” depressione, questi farmaci hanno potuto godere di un mercato molto più ampio. Si tratta di un mercato rappresentato dagli “stati” depressivi, situazione determinata da eventi avversi della vita che non sono malattie nel senso classico del termine. Infatti molti di questi situazioni – ad esempio la perdita di una persona cara, la perdita del posto di lavoro, problemi finanziari – si rimettono a posto da sole con il tempo. Se nel frattempo il medico ha prescritto un  farmaco antidepressivo, il merito del risultato verrà  indebitamente attribuito al farmaco. I casi positivi trovano sempre una eco sproporzionata alla loro importanza, ma inducono fiducia e perseveranza nel medico che ha fatto la prescrizione. In questi ultimi 10 anni tuttavia crescevano perplessità e pessimismo circa la reale importanza dei farmaci antidepressivi insieme ad una notevole preoccupazione per il continuo aumento delle vendite. Finalmente la “bomba” è scoppiata. Un articolo-rapporto scritto da psichiatri inglesi, canadesi e statunitensi e pubblicato su una rivista internazionale molto selettiva ha determinato una serie di reazioni anche a livello della stampa laica. La pubblicazione è tanto più importante in quanto si basa su tutti i risultati delle ricerche cliniche depositati presso la Food and Drug Administration (FDA), l’organo che negli Stati Uniti presiede alla regolamentazione dei farmaci. Lo studio effettuato si chiama, in gergo meta-analisi e consiste nella raccolta di tutte le ricerche cliniche effettuate con i farmaci antidepressivi che agiscono sulla serotonina in confronto con il placebo (un prodotto inerte). La ricerca consiste nel sommare tutti i risultati “pesandoli” per il numero di pazienti presenti in ogni studio. I risultati possono essere presentati in vario modo: in rapporto all’uso di uno specifico farmaco, oppure globalmente, oppure ancora in rapporto alla gravità della malattia depressiva. I risultati sono molto chiari: le differenze tra i farmaci antidepressivi e il placebo sono molto modesti, al limite della significatività clinica e ciò vale per fluoxetina, venlafaxina, nefazodone e paroxetina. In altre parole, il vantaggio dovuto all’impiego dei farmaci antidepressivi è trascurabile rispetto a quello che si può ottenere con il semplice placebo. Qualcosa di più si ottiene in rapporto con la gravità della malattia, il che indica la mancanza di efficacia in tutte quelle condizioni citate prima e, definite come “stati depressivi”. Questi dati sono diversi dalle analisi fatte precedentemente perché questa volta sono stati presi in considerazione anche i risultati di studi clinici non pubblicati, mentre precedenti analisi avevano esaminato solo gli studi pubblicati. Evidentemente si pubblicano prevalentemente gli studi positivi e si sottraggono all’attenzione dei medici tutti gli studi che non danno i risultati sperati. La nuova indicazione può essere perciò così riassunta: i farmaci antidepressivi di nuova generazione – SSRI – devono essere impiegati solo in pazienti con una depressione molto severa; quindi non c’è alcuna ragione per impiegarli nella grande maggioranza dei casi. Sorge ora spontanea una domanda: come mai sappiamo solo ora che questi farmaci non sono attivi? Che cosa hanno fatto finora le autorità regolatorie, quelle che dovrebbero proteggere i pazienti? Chi rimborserà il Servizio Sanitario Nazionale per tutti i miliardi di euro spesi inutilmente in tutti questi anni? Chi risarcirà gli ammalati che hanno avuto effetti tossici senza aver avuto alcun beneficio? Qualcuno dovrà pur dare qualche risposta!