sabato 29 novembre 2014

COMPARAGGIO MEDICO. DI CHE SI TRATTA?



Un grandissimo plauso va ai carabinieri del Nucleo Anti Sofisticazioni (NAS) di Livorno che stanno eseguendo 18 ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari per corruzione nei confronti di 12 pediatri, tra cui due primari, 5 informatori scientifici e un dirigente d'azienda di alimenti per l'infanzia, nonché 26 decreti di perquisizioni in Toscana, Lombardia, Marche e Liguria.
Il motivo? Stando alle indagini vi sarebbe stato un giro di mazzette per centinaia di migliaia di euro utilizzati per pagare i “regalini” ai medici.
Stiamo parlando di smartphone, iphone, computer, climatizzatori, televisori e viaggetti in rinomate mete turistiche come Sharm el Sheik, India, Stati Uniti, Parigi, Londra, Istanbul e crociere e tour con tanto di famiglia (i cui figli non sappiamo se sono stati allattati al seno oppure no) nel Mediterraneo e nord Europa.
Tali regalini servivano a corrompere i medici in modo tale che convincessero le neomamme a usare latte in polvere di alcune note marche (i soliti brand), anziché il latte materno! Qui purtroppo si parla di banali accuse di corruzione, e come sempre la giustizia fa acqua da tutte le parti.

Tralasciamo i poveri (di spirito) informatori scientifici, il cui triste e assai frustrante lavoro consiste nel corrompere i medici a prescrivere una molecola chimica piuttosto di un’altra, e la scelta non sta nella qualità o nell’efficacia, ma nei soldi che ricevono dai propri datori di lavoro: le case farmaceutiche. “Lei dottore più ci soddisfa e più la soddisfiamo”, era il mantra ripetuto dagli informatori collusi.
Tralasciamo anche il dirigente dell’azienda di alimenti per l’infanzia, perché è ovvio che il suo lavoro è vendere quello che produce.
Senza pietà invece per i pediatri. Convincere delle mamme con le mammelle grondanti bianco amore, a fornire ai loro bambini dei vergognosi surrogati, delle polveri chimiche spacciate per latte e vendute a prezzo salato, è un crimine contro l’infanzia!

Questi dottori in medicina, e non uso appositamente il termine Medico perché non lo meritano, violando il codice deontologico, i principi sacrosanti del Giuramento di Ippocrate e violando la stessa Ars Medica, si sono venduti l’anima al diavolo per pochi spiccioli ed è giusto che paghino.
Ho più rispetto per i ladri patentati, perché almeno rubano a chi ne ha di più, ma questi infimi dottorucoli, facendo perdere il latte materno specie-specifico e dando al suo posto delle polveri chimiche prodotte dalle industrie, rubano letteralmente una delle esperienze più importanti di tutta la vita dell’uomo: il contatto diretto del neonato con il seno e l’amore materni!

Se c’è giustizia in questo Paese e se ovviamente le accuse saranno confermate, questi signori dovrebbero per prima cosa chiedere umilmente scusa in diretta televisiva, poi essere radiati a vita dall’albo professionale e naturalmente venire incarcerati per un po’ di tempo.
La condanna poi dovrebbe anche contemplare il bere ogni giorno almeno due litri di quel sano latte in polvere che loro hanno così caldamente consigliato alle mamme, assieme alla crema di riso delle medesime ditte.
Dico questo perché le intercettazioni hanno registrato un medico che diceva “oggi ho fatto anche un riso”, ovvero avrebbe convinto una mamma ad acquistare oltre al latte anche una squisita e naturale crema di riso!

Per concludere, prima di lasciare la parola al pediatra americano Robert Mendelsohn, vorrei dire alcune cose alle mamme che si sono fatte infinocchiare così facilmente dai pediatri. Forse è arrivato il momento di svegliarsi, iniziando a prendere in mano la propria vita e a prendersi la responsabilità della salute dei propri figli.
E’ bene sapere che il medico è un uomo normale, una persona in carne e ossa e nonostante sfoggi un camice candido, non è il sostituto di Dio e quindi può sbagliare. E infatti, stando alle statistiche, sbaglia assai spesso: gli errori medici sono tra le prime tre cause di morte nel mondo occidentale. Quindi cara mamma, prima di andare da un pediatra e magari danneggiare la salute di tuo figlio, pensaci molto bene…(source)

venerdì 28 novembre 2014

I NODI AL PETTINE



Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine dei giornalisti, appare più determinato che mai. Dopo la denuncia presentata nei confronti di Barbara d'Urso per esercizio abusivo della professione che tanto fa discutere in queste ore, potrebbero arrivare a breve nuove iniziative. Iacopino, intervistato da Giulio Pasqui e Simona Sassetti a 'TeleFatti - La tv in radio' (la puntata andrà in onda alle ore 20 su Antenna Radio Esse) ha annunciato: Abbiamo messo sull'avviso tutti i direttori di rete e delle testate perché possono essere chiamati a rispondere a titolo di omesso controllo per porcherie che vengono mandate in onda. A proposito del caso d'Urso è tornato a chiedere: Se la 14enne figlia di Elena Ceste fosse stata figlia di qualcuno di noi avremmo permesso e consentito che la madre venisse descritta come viene stabilmente fatto in tante trasmissioni, non solo della d'Urso? A Iacopino è stato chiesto se anche un'altra non giornalista Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, potrebbe subire lo stesso trattamento della conduttrice di Pomeriggio Cinque e Domenica Live (del suo caso se ne parlerà oggi in Commissione di Vigilanza Rai). Ecco la sua risposta: Stiamo per assumere delle iniziative, d'intesa con gli avvocati perché vogliamo fare una valutazione serena, non vogliamo ragionare per mucchi. Stiamo ragionando anche su questo. Senza preclusioni. L'obiettivo è uno: tutelare i diritte della persona. Si possono dare informazioni, senza essere reticenti e senza maramaldeggiare. Nel corso dell'intervista Iacopino, che ha tenuto a precisare che da parte dell'Ordine dei giornalisti non c'è voglia di censura, per quella di tutelare "un dovere di rispetto per le persone", ha commentato un articolo pubblico da Il Giornale nel quale viene ricordato che in passato l'odg denunciò per abuso della professione anche il direttore della tv antimafia Telejato, Pino Maniaci: Pino Maniaci è stato assolto. Ragionare così per accreditare la voglia di ghigliottina e censura è piuttosto sgradevole. Ma tutto sommato è plausibile passare sopra a questa caduta di stile.

giovedì 27 novembre 2014

I 300 MILIARDI DI JUNCKER PER LA CRESCITA? IL NULLA INFINITO (ma chi vogliono prendere in giro i burocrati di Bruxelles?)



C’è una cosa più inutile di una stupidità? Sì, commentarla!
Per questo faccio fatica a capire come alcuni giornalisti economici abbiamo potuto pubblicare articoli nei quali hanno cercato di “analizzare” il piano di investimenti presentato ieri dal Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker.
Mi chiedo infatti come si faccia a commentare il “nulla”.
Sembra un’operazione materialmente impossibile, ma non è così, esiste un modo per farlo: occorre prima costruirsi mentalmente qualcosa, cioè un immaginario, e poi lo si commenta.
Insomma, alla fine non si discute di ciò che esiste, bensì di un’astrazione.
Un’operazione inutile, mi direte. Certo! Non c’è alcun dubbio, ma che permette di riempire “il nulla” di contenuti. E così si va avanti.
Ciò che mi ha fatto più sorridere di questi “articoli” pubblicati anche su “autorevoli” giornali è l’accento posto sul cosiddetto “effetto leva” che caratterizza il piano di investimenti di Juncker.
Alcuni parlano di una leva pari a 5 visto che per arrivare ai 300 miliardi partono da 60 miliardi che dovrebbe essere l’ammontare complessivo dei Bond emessi, per altri è all’incirca 15 visto che partono da 21 miliardi cioè la garanzia apposta per l’emissione dei Bond, ed altri ancora invece calcolano una leva pari a 60 perché (più correttamente) prendono in esame i soli fondi che non sono già stati stanziati negli scorsi anni, e quindi i 5 miliardi che ci mette la Bei.
Ma la domanda da porsi non è se un piano può funzionare con effetti leva di queste proporzioni, bensì che non ha senso parlare di un investimento nel quale avvengono effetti moltiplicativi, potenzialmente infiniti, superiori a 1 e che quindi avrebbero come risultato finale necessariamente infinito!
Perdonatemi, non voglio fare il professore di matematica, ma perché si parla di un piano da 300 miliardi? Intendo dire, perché limitarci a soli 300 miliardi se per arrivare a questa cifra basta partire da 8 miliardi, che magicamente raddoppiano e poi sommiamo altri 5 arrivando così a 21 miliardi che mi sono sufficienti per garantirne 60 che poi investendo al 20% quintuplicano a 300.
Perché allora non utilizzare i 60 come garanzia per emetterne 180 e poi perché non partecipare con una percentuale del 10% che così decuplichiamo ed arriviamo a 1.800 miliardi di euro di investimenti totali?
E’ chiaro il concetto?
Un qualsiasi liceale sa che una serie infinita di termini che divergono tende ad infinito, solo quelle convergenti tendono ad un limite finito.
E’ ovvio! Banale rimarcare come la somma di un numero infinito di termini di una serie potrà avere come risultato un numero finito solo se i termini di questa serie sono decrescenti!
Achille, partendo cento metri più indietro, se va al doppio della velocità della tartaruga la raggiungerà dopo duecento metri!

La soluzione al paradosso Zenone è stata data dalla matematica con la teoria dei limiti sulle serie convergenti, ma la logica aveva dato una risposta immediata, 500 anni prima di Cristo, nessuno, infatti, nemmeno la persona più stupida, poteva mettere in dubbio che andando a velocità doppia rispetto alla tartaruga, prima o poi, Achille non la raggiungesse.
Quindi, per tornare al nostro Juncker, sarà anche possibile che l’economia in Europa torni a crescere nei prossimi anni, ma certamente ciò NON accadrà per il piano di investimenti prospettato dal Presidente della Commissione europea che NON avrà alcun effetto concreto essendo fondato sul NULLA.  (source)

mercoledì 26 novembre 2014

L'AFFLUENZA ALLE URNE? UN PROBLEMA SECONDARIO



“L’astensione è la vera vincitrice delle elezioni. Il partito di maggioranza relativa in questo Paese è il partito di chi si astiene o vota scheda bianca o nulla. Su questo tutti dobbiamo riflettere”. No, non è questo il commento di Matteo Renzi alle elezioni in Emilia Romagna e in Calabria, disertate rispettivamente dal 62,3 e dal 56,2% degli elettori (cioè, se valesse la regola referendaria del quorum, nulle). Quello era il commento alle regionali del marzo 2010, quando le vinse il Pd di Bersani. E non è nemmeno questo: “Chi gridasse al trionfo e stappasse champagne farebbe un errore: abbiamo vinto, però c’è stata un’astensione strabiliante che supera la maggioranza assoluta. E il Pd quasi dimezza i suoi voti sulle ultime regionali”. Qui Renzi parlava del voto in Sicilia dell’ottobre 2012.

E non è neppure quest’altro: “Il Pd ha eletto tanti sindaci, ma un sacco di gente non è andata a votare e l’astensionismo fa paura: dobbiamo recuperarlo. Abbiamo fatto il sorpasso in retromarcia. C’è stata una altissima astensione; abbiamo perso meno degli altri, ma decine di migliaia voti sono andati via. Non è importante che poltrona occupi, ma avere idee. Mi piace la politica come passione e coinvolgimento, è il modo per dire alle persone che sono state a casa ‘venite a darci una mano’”. Qui Renzi si riferiva alle comunali del maggio 2013, vinte dal Pd di Epifani.

No, il commento alla fuga dalle urne calabro-emiliano-romagnole è questo: “2-0 netto. La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare, ma è secondario. Checché se ne dica, oggi non tutti hanno perso: chi ha contestato le riforme può valutare il suo risultato. Negli ultimi 8 mesi ci sono state 5 elezioni regionali, che il mio partito ha vinto 5 a 0. Oggi una qualsiasi persona normale dovrebbe essere felice per questo”. Proprio quando l’astensionismo diventa il primo partito e prende la maggioranza assoluta, cambia nome: si chiama “non grande affluenza”. E cessa di essere un problema primario: diventa secondario.

Cos’è cambiato da prima a dopo la cura? Che prima il Pd era in mano ad altri, ora è in mano a Renzi. Infatti non si chiama più Pd, ma “il mio partito”. Ed, essendo suo, non può sbagliare. Altrimenti sbaglierebbe Renzi, che invece – com’è noto – ha sempre ragione. Dunque, se gli elettori non votano, è colpa loro, non sua.

La svolta anche semantica della Democrazia Renziana era già stata anticipata alle Europee di fine maggio, quando il Pd raccolse il 40,8% dei votanti, che però erano appena il 57,2% degli aventi diritto: ergo fu scelto da poco più del 25% degli elettori, con meno voti di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando fu sconfitto da B. Pur chiamandola ancora astensione, Renzi si consolò col fatto che altrove s’era astenuta ancora più gente: “Abbiamo il primato come paese del numero di chi ha votato”. Ora che ha preso il 50-60% del 40%, gli manca anche la consolazione dei dannati e allora fa come i bambini: rimuove l’elemento negativo come “secondario”. E pazienza se il Pd, fra Emilia e Calabria, ha perso 769.336 voti da maggio e 322.504 dal 2009. Un bel paradosso, per un leader che ha sempre puntato tutto sul consenso popolare, dalle primarie al mitico Quarantunpercento.

Ma c’è del metodo in questa follia. Mentre desertifica gli iscritti al Pd (il “mio partito” ne fa a meno) e diserta le piazze (ne fugge di continuo e sputtana chiunque – dai sindacati ai 5Stelle alla Lega – osi metterci piede), Renzi non fa altro che tentar di convincere gli elettori della loro inutilità: è andato al governo senza passare per le urne e vuole far nominare i deputati dai segretari di partito e i senatori dai consigli regionali.

Gli elettori servivano alla retorica del sindaco d’Italia e delle primarie (solo le sue, però: quelle “aperte”, drogate dai votanti berlusconiani). Ora meno sono e meglio è: vedi mai che, una volta votato, pretendano di controllare che chi hanno eletto non faccia il contrario di quanto aveva promesso. Pussa via, rompicoglioni. Sempre in vista del traguardo finale: un solo elettore, Lui. Che si vota da solo e prende il 100 per cento.
Marco Travaglio

martedì 25 novembre 2014

VERONESI: PORTO DENTRO DI ME LA FOSSA COMUNE DI TUTTI I PAZIENTI CHE HO PERSO



Come a volte succede con le grandi storie, tutto è cominciato per caso: «Era un giorno d’estate, inizio Anni 50, io giovane assistente all’Istituto tumori di Milano. Il responsabile del reparto va in ferie, il vice pure, mi chiamano, “Tocca a te”. Era la prima volta che operavo una donna al seno».Umberto Veronesi ricorda bene la paziente di quel giorno, passo iniziale di un percorso che lo ha portato a diventare il simbolo della lotta ai tumori: 30 mila donne operate, quasi 300 mila visitate, circa 5 milioni nel mondo che hanno salvato il seno grazie alla sua tecnica rivoluzionaria.
 Oggi, alla vigilia di scadenze importanti - venerdì compie 89 anni, a fine anno lascerà la direzione scientifica operativa dello Ieo, Istituto europeo di oncologia, la sua creatura, per rimanere come emerito -, l’oncologo più famoso riflette sulla sua straordinaria esperienza di medico con parole non scontate: «Vivo da sempre una situazione di schizofrenia. Sono l’uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore. Devo trasmettere fiducia e ottimismo, ma nel profondo sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso». Un concetto, quello della doppia condizione psicologica, che Veronesi spinge ancor più in là: «Sono ermafrodita, in senso intellettuale: un corpo da uomo con una mente femminile». Per questo ha dedicato la vita ad aiutare le donne?
«Quando feci quel primo intervento, ero convinto della tecnica che si usava: mastectomia bilaterale con rimozione dei muscoli del torace. Si pensava fosse l’unico modo per salvare la vita delle pazienti, ma era un massacro. Quasi il 50% dei mariti lasciava la moglie che perdeva un seno per il tumore, le donne stesse rifiutavano l’intimità. Probabilmente è stato il rispetto sacrale che ho fin da bambino per il corpo femminile - io, orfano di padre, cresciuto in un ambiente di donne - a farmi dire no a quella mutilazione. Mi sono messo a pensare, studiare, ricercare». E ha maturato la convinzione che essendo la ghiandola mammaria composta da diversi lobi, forse si poteva rimuovere soltanto quello colpito dal tumore e salvare il seno. Ma non è stato facile rovesciare il credo dominante, vero?
«Esposi l’intuizione ai miei colleghi e ricevetti accuse feroci, fui considerato un ciarlatano che voleva scardinare i dogmi per fare carriera e soldi. Ci fu chi disse che volevo sacrificare vite umane per diventare famoso. Ma non mi arresi, conclusi la sperimentazione nell’isolamento e fra dubbi atroci. Furono anni bui. Poi arrivò la vittoria scientifica, il mio lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine e rilanciato nel 1981 dal New York Times in prima pagina. Fu la svolta: altri media ne parlarono, le donne andavano dai medici col giornale in mano chiedendo che salvassero loro il seno». Oggi la sua tecnica, la quadrantectomia, è patrimonio globale. E negli ultimi 15 anni le sue pazienti sono guarite nel 94% dei casi. Ma che cosa vede, oggi, nei loro occhi?
«Paura, ancora. La diagnosi di cancro provoca alle donne un corto circuito cerebrale. Il primo pensiero sono i figli, “Chi si prenderà cura di loro?”. A dispetto di indici di guaribilità sbalorditivi, se pensiamo che all’inizio del secolo scorso le guarigioni erano vicine allo zero e negli Anni 50 al 20%». Oggi il rapporto con il malato è più facile o difficile?
«Direi più complesso. La paziente arriva dopo aver letto tutto su Internet e questo è spesso un disastro, perché il web informa, però non spiega. Si legge “carcinoma”, ma la parola in sé dice poco, perché è la dimensione a fare la differenza tra la vita e la morte. Il cancro del seno è malattia legata alla dimensione, dunque alla diagnosi precoce. Uno studio dello Ieo ha scoperto che in caso di tumore impalpabile la guarigione arriva al 99%. Se ogni donna facesse regolarmente mammografia, ecografia, risonanza magnetica, il problema sarebbe risolto. Ma non è così semplice, dipende da dove vivi, dai costi, dall’organizzazione». Al paziente dice la verità?
«Distinguo due momenti, diagnosi e prognosi. La diagnosi, cioè che cosa ha il paziente, è certa e come tale va comunicata. Ma per la prognosi - come evolverà la malattia, come reagirà il corpo, quanto vivrà il paziente - c’è sempre un margine di incertezza e in quel margine abita la speranza. Nessun medico ha il diritto di togliere la speranza, perché quando si dice a una persona che dovrà morire, è come se morisse in quell’istante. Attenzione: questo non è tradire la fiducia del paziente, ma provare a capire». Capire che cosa?
«Che una malattia colpisce un organo, ma viene elaborata da una mente. Lo stesso male può essere più o meno sopportabile a seconda della persona che lo percepisce. Ecco perché dico che bisogna tornare alla “Medicina della persona” (di cui Veronesi parlerà oggi alla Statale di Milano nell’incontro “Uniti per i pazienti”, ndr).Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per cosa gioisce e soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei disturbi. Oggi le cure sono fatte con un manuale di cemento armato: “Lei ha questo, faccia questo; ha quest’altro, prenda quest’altro”. Ma così non è curare». Professore, questa sarebbe un’altra rivoluzione...
«È quella che a livello internazionale si chiama “Medicina narrativa”. Curare è prendersi cura della persona senza lasciare che abbia il sopravvento la medicina d’organo. Sono stufo di sentire in sala operatoria “Che cosa abbiamo oggi? Un polmone, un fegato...”, senza sapere a chi appartengono quel polmone e quel fegato. Ai medici non piace legarsi al paziente, nel timore di perdere obiettività, e spesso non disdegnano di drammatizzare la malattia perché così aumenta la loro missione salvifica e dunque il potere». I medici italiani sono pronti a questo salto?
«Devono imparare a fare un lavoro diverso. Oggi la tecnologia offre scenari inediti, possono fare una diagnosi senza palpare un paziente o operarlo senza toccarlo, attraverso un robot. Questo dà più tempo per conoscere la persona che si ha davanti».C’è anche un problema legato alle parole da usare?
«Penso spesso che la parola cancro vada eliminata per il potere paralizzante di cui ho parlato. Tumore è già meglio. Oppure neoplasia. Allo Ieo quasi non usiamo più carcinoma». Però la questione di fondo è la sconfitta definitiva del cancro. Succederà?
«Io non la vedrò, ma succederà. Fra qualche anno cureremo tutti i tumori. Lo faremo grazie alla diagnosi precoce, per ora abbiamo farmaci risolutori solo per alcune forme di tumore». Professore, come vorrebbe essere ricordato?
«Come uno che ha contribuito a migliorare la qualità della vita, soprattutto delle donne. Dopo secoli di maschilismo, le donne stanno prendendo più potere in tanti campi, nella sanità, nei media, nella magistratura. È una fortuna: la donna è pacifista, conciliatrice, l’uomo è violento e aggressivo. Si va verso una maggiore parità e il prezzo da pagare è anche una più bassa attrazione fra i sessi. Andiamo verso un’umanità bisessuale. Non è detto sia un male».
Luca Ubaldeschi – La Stampa