sabato 2 luglio 2011

CALME DI LUGLIO


Bene. Ed ora è venuto il momento di fare una pausa, di riprendere fiato, come dopo una lunga camminata. La crisi economica e finanziaria non ci dà tregua, leggere i giornali del settore è, di giorno in giorno, sempre più avvilente. Ma adesso basta. Fermiamoci un momento qui, a riflettere, ad osservare quello che ci circonda, oppure a non riflettere per niente, godiamoci qualche istante senza pensare. Usciamo di casa, prendiamo la strada che porta fuori città, e abbandoniamoci , finalmente, alla stagione che entra dentro di noi con il respiro, attraverso gli occhi, con i rumori, gli odori e i sapori dell’estate che s’inoltra.
Ricordo, quando mia madre era ancora in vita, la strada che si inerpicava sulle colline della mia città, era una strada stretta, angusta, non facile da percorrere, costeggiata da olivi e rododendri, orlata da orti e giardini curati e verdeggianti. Portava all’istituto che ospitava mia madre, e sebbene ogni volta, nei quattro anni che la vita si è protratta in lei, provassi la stretta angosciosa di entrare in quel luogo, ogni volta che ne uscivo sperimentavo un senso molto vicino alla liberazione, soprattutto nella stagione che adesso viviamo. Nelle giornate di luglio, in quei pomeriggi limpidi ed assolati, percorrevo con la moto quella strada a ritroso, e spesso mi fermavo, mettevo la moto sul cavalletto, e mi sporgevo sul muretto dal quale si poteva godere lo splendido panorama sulla città e sul mare, reso ancora più suggestivo dal silenzio di quei meriggi interminabili, nei quali il sole pareva non volere mai tramontare. L’aria era cristallina, il cielo si colorava di un azzurro speciale, specchiato da un mare calmo e turchino. Il vento era così sottile e profumato da procurare una sensazione simile all’ebbrezza, tutto, intorno parlava della stagione che cominciava, nell’assoluta immobilità di uomini e cose. Anche il tempo pareva rallentare nella calura secca ed abbagliante di quell’ora; le poche presenze nelle quali mi imbattevo rallentavano il passo ed abbassavano la voce, per non turbare la quieta serenità di quei luoghi. Ed io, seduto sul muretto, con gli occhi pieni di una vita venata di malinconia, cercavo di trovare chissà quale segreto sbirciando di nascosto nei giardini delle ville signorili che lambivano la strada con discrezione, respiravo profondamente i profumi deliziosi che esalavano dagli orti appena innaffiati, quell’odore che sprigiona l’erba appena bagnata in una giornata piena di sole. Solo allora, in quei momenti, e anche adesso, che sono tornato in quei luoghi, nel mese presente, comprendo in cosa consistono le “calme di luglio” di cui parla, in uno dei suoi libri più belli, un autore che abbiamo trascurato fino a dimenticarlo, Vittorio G. Rossi, un giornalista ed uno scrittore che aveva navigato il mondo, che ci ha lasciato una testimonianza incredibilmente affascinante dei luoghi e delle persone che ha incontrato nel suo girovagare. E’ l’unico scrittore che conosca che sia perfettamente riuscito a trasmettere, attraverso la parola scritta, una sensazione, un’emozione, i colori, i profumi, il vociare delle terre da lui visitate. Leggere i suoi libri significa partecipare pienamente, calarsi completamente in quei luoghi, nessuno prima e dopo di lui è riuscito a fare tanto. Ricordo a memoria la descrizione che, da buon ligure, riuscì a forgiare dei vini di Liguria:"sono fatti dalla pietra, dal sole, dal respiro del mare e hanno il profumo dell' alba nelle calme di luglio". Ecco cosa sono le “calme di luglio” (il titolo di uno dei suoi capolavori): c’è l’amore per la sua terra, ma c’è anche l’amore per la natura quando è una tenera madre, che sa essere a volte assai generosa, l’amore per i suoi simili quando riescono ad entrare in sintonia con i tempi, le rime ed i ritmi della stagione che regola le nostre esistenze. Le calme di luglio non sono  solo una pausa nell’alternarsi delle stagioni, non sono un quadro oleografico del panorama che si offre da un belvedere, sono il paradigma della nostra vita e della nostra morte, sono un paesaggio interiore, uno stato di grazia del nostro spirito, sono la proiezione sul mondo di quanto di bello, buono e giusto contiene la nostra anima. Non è vero che l’uomo è fatto solo di egoismo, volgarità e corruzione: se viviamo appieno, se entriamo in sintonia con le calme di luglio, se riusciamo a cogliere, almeno per un attimo, il battito del cuore del creato, sia pure attraverso un paesaggio immerso nell’azzurro dorato di una marina di luglio, allora è vero che la nostra anima, il nostro spirito non sono fatti per il degrado e il disfacimento della morte, allora è vero che qualcosa di eterno, di indistruttibile e incorruttibile persiste dentro di noi, che non siamo al mondo solo per condurre una vita piena di cose inutili, di carabattole senza senso, è vero piuttosto che la nostra anima rivela quello che di eterno ci ricondurrà, un giorno, al nostro principio e alla nostra vera vita. In quei pomeriggi, dopo aver sostato a lungo in quei luoghi, dopo una rapida passeggiata all’ombra degli oleandri, mi attardavo ancora un poco, alzando lo sguardo su, nel cielo, come a cercar qualcosa. In realtà non cercavo altro che di trattenere dentro di me quello che mi circondava, nel tentativo vano di conservare tutte quelle sensazioni e quelle percezioni che così bene ha descritto Vittorio G. Rossi. Anche oggi, 2 luglio, sono tornato in quei luoghi come a cercare qualcosa che mi appartiene, ma il tempo era infausto, il cielo greve di nubi, l’aria appesantita dall’umidità; non sono riuscito a ritrovare nulla di quel tempo. Ma pazienza, aspetterò il bel tempo e tornerò su quelle strade, con la stessa infantile serenità, l’identica fanciullesca ebbrezza. La vita è fatta anche di questi momenti tutti per noi, da non sciupare, da conservare, da non buttare mai. E’ il palpitare dell’eterno che rivive nei nostri cuori, che ci scalda l’anima e il pensiero, che ci fa sentire parte di un mondo meraviglioso, non qui , non adesso, ma che verrà, presto verrà anche per noi.

Oggi ho partecipato alle esequie di Claudio, l’amico di cui ho parlato nel post “A spasso per i Campi Elisi”. Qualcuno ha criticato aspramente questo mio intervento, considerandolo prematuro e inopportuno. Non poteva essere prematuro perché, checché ne dica il Prof. Veronesi, chiunque conosca vagamente la medicina sa che queste patologie hanno una malignità velocissima e conducono a morte in tempi assai brevi. Tutti quelli che hanno avuto la bontà di leggere questo post hanno certamente capito che non si trattava né di un epitaffio, né di un necrologio. Lo spirito con il quale l’ho scritto mi sembra limpido e sincero. Se qualcuno non lo ha capito me ne dispiace, ma ne devo trarre le dovute conseguenze. La mia non è stata una omelia, come quella pronunciata oggi dal sacerdote cattolico che ha celebrato il funerale. Ha detto le parole che ci aspettiamo da un prete cattolico, né più, né meno. Ad alcuni sono sembrate bellissime, ad altri, come il sottoscritto, un po’ meno. L’omelia che avrei pronunciato io, che prete non sono e tantomeno cattolico, sarebbe assomigliata molto a quello che ho scritto. La differenza, incolmabile ed ineliminabile, tra cattolici e protestanti, si misura anche dalla differenza profonda che corre tra le parole del prelato e quelle che, immodestamente, ho scritto io. Mi dispiace per la persona che ha giudicato prematuro il mio scritto. Quella persona crede nei miracoli, io no. Non credo nei miracoli in questo i mondo, credo nel miracolo della Giustizia di Dio, nel fatto che il Padre, nonostante le nostre infinite debolezze e lacune, ci accoglierà tra la sue braccia e ci darà ristoro, al termine del percorso terreno. E’  Dio che ci giustifica al cospetto del Padre, non le nostre azioni, la nostra cattiva fede e, soprattutto, la nostra ipocrisia. Questo è il miracolo vero, che si compie al termine delle nostre vite. Accetto, come dico sempre, tutte le critiche. Ma non posso che rimanere quello che sono: un credente fuori dalla chiesa.