venerdì 15 luglio 2011

CANCRO. IL BUSINESS DEI FARMACI

Quando un team di ricercatori comincia a immaginare una nuova cura antineoplastica, si avvia la cosiddetta fase preclinica, che consiste nello studio, in laboratorio e su modelli in vivo, delle proprietà chimiche e tossicologiche della sostanza. Non basta infatti che una cura sia efficace nei confronti del bersaglio previsto (e che quindi curi la malattia): bisogna anche che non sia tossica, altrimenti non sarà di nessuna utilità.

Una volta passata questa fase, che coinvolge diverse molecole spesso chimicamente simili tra loro, la migliore viene avviata alla cosiddetta sperimentazione clinica, ovvero viene testata sull’uomo. Dalla prima idea alla commercializzazione della cura passano in media dai 10 ai 12 anni, e sebbene molti pazienti (e anche molti medici!) desiderino accorciare questi tempi, ciò non è possibile.

Il farmaco uscito dal laboratorio viene avviato alla cosiddetta fase 1. Obiettivo: valutare per la prima volta se la sostanza è tossica nell’uomo e qual è la dose soglia oltre la quale è meglio non andare. Poiché lo scopo non è quello di curare la malattia, i volontari selezionati possono anche essere soggetti sani (quasi mai per i farmaci antitumorali) e poco numerosi (qualche decina).

Se la molecola ottiene la ‘patente di sicurezza’, passa alla fase 2. Lo scopo di questa tappa è ancora diverso: si vuole, per la prima volta, verificare se effettivamente la cura è attiva contro la malattia per la quale è stata inventata, per cui si selezionano pazienti (in genere non più di un centinaio) il più possibile simili tra loro per caratteristiche individuali e della patologia. In questo modo i dati ottenuti sono chiaramente interpretabili. Anche in questa fase si fa attenzione a eventuali effetti collaterali e tossici, e si stabilisce qual è la posologia ottimale (dosaggio e tempi della somministrazione).

Se anche questa fase trascorre senza incidenti di rilievo, e se il farmaco dimostra la sua attività, si passa alla fase 3: la nuova cura viene confrontata alla terapia standard già esistente per verificarne la reale efficacia; partecipano diversi ospedali in tutto il mondo e il numero dei pazienti reclutati aumenta (nell’ordine delle migliaia). Solo facendo crescere il numero di persone sottoposte alla sperimentazione (sempre però nell’ambito di un preciso protocollo) è possibile verificare se essa è veramente efficace e se esistono effetti collaterali rari, che difficilmente si possono scoprire finché la cura è somministrata a poche persone.

A questo punto tutta la documentazione viene portata dalla casa farmaceutica detiene il brevetto del nuovo farmaco all’ente regolatore, che la esamina e approva la messa in commercio. Ora la nuova cura è a disposizione di tutti, ma non viene abbandonata a se stessa: poiché possono comparire effetti collaterali rarissimi, nell’ordine di un caso su milioni di utilizzatori, è stata istituita la cosiddetta fase 4, chiamata anche sorveglianza postmarketing. Qualsiasi effetto collaterale, sia pur minimo e non notato nelle fasi precedenti, viene segnalato alle autorità che ne considerano l’importanza ed eventualmente cambiano le indicazioni o il foglietto illustrativo del farmaco, o, in casi veramente estremi, dispongono il ritiro della cura dal commercio.
In questi ultimi anni si è assistito ad un considerevole aumento dell' immissione sul mercato di nuovi farmaci antitumorali conosciuti con l' appellativo di "intelligenti", in quanto promettono selettività per il bersaglio terapeutico con conseguente aumento dell' efficacia e diminuzione della tossicità associata. L' approvazione della commercializzazione di un farmaco avviene da parte dell' EMEA, un organismo che risponde direttamente alla direzione generale dell' Industria e non, come sarebbe più logico, alla direzione generale della Sanità. Tutta la documentazione necessaria per la registrazione è preparata dalla stessa industria farmaceutica che detiene il brevetto per la commercializzazione del nuovo farmaco. L' approvazione di un nuovo farmaco non richiede studi di carattere comparativo nei confronti di farmaci già utilizzati nel trattamento della patologia di interesse. Da ultimo, l' intero processo di registrazione è contraddistinto dal segreto più assoluto, salvo pubblicazione di un documento riassuntivo. Il problema è che l' immissione sul mercato di un nuovo farmaco, indipendentemente dalla sua reale efficacia, è sempre e comunque associato ad un aumento di spesa. Esistono esempi di nuovi farmaci antitumorali il cui costo può arrivare a 30mila euro (circa 60 milioni di vecchie lire) per anno di trattamento. Una fiala di cetuximab da 100 mg. costa 199 euro, con cicli di trattamento che richiedono circa 350 mg. alla settimana, per un costo di oltre 600 euro; una fiala di bevacizumab da 100 mg. costa 1289 euro: l' utilizzo di 300 mg. ogni 14 giorni comporta una spesa di 3900 euro. Bevacizumab e cetuximab sono utilizzati per il trattamento del carcinoma del colon-retto con risultati terapeutici assai modesti. Ad esempio, il cetuximab aumenta la sopravvivenza media di circa due mesi. Nelle scorse settimane il NICE, l' organismo pubblico che decide la rimborsabilità di un farmaco in Inghilterra, ha sconsigliato l' utilizzo di queste molecole per lo sfavorevole rapporto costo-beneficio. Un ospedale inglese ha recentemente calcolato che un nuovo farmaco anti-tumorale ampiamente utilizzato per il trattamento del tumore al seno, il trastuzumab, salva in media 3 donne al costo di 2.8 milioni di euro, cifra 4 volte superiore a quella necessaria per salvare 16 donne portatrici di tumore con altri trattamenti. Appare quindi necessario che i nuovi farmaci antitumorali arrivino sul mercato quando esistano maggiori evidenze di efficacia. E' inoltre auspicabile che il costo dei nuovi farmaci sia più ragionevole, anche in considerazione dei vantaggi relativamente piccoli che tali farmaci garantiscono. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale è basato sul sacrosanto principio della solidarietà: spendere male, quindi, sottrae risorse che potrebbero essere utilizzate con maggior beneficio per gli ammalati.
I farmaci dei quali stiamo parlando sono i cosiddetti anticorpi monoclonali. Il loro effetto è considerato specifico, certamente meno tossico dei classici farmaci antitumorali, ma il loro costo ha creato non pochi problemi al Servizio Sanitario Nazionale e in particolare alle Aziende ospedaliere. A fronte dei pochi euro dei comuni citotossici si devono spendere per ogni ciclo di terapia parecchie migliaia di euro. La pressione per il loro impiego è molto forte: mass media, medici, società scientifiche, tutti stimolati dall'industria farmaceutica, richiedono a gran voce che si stabilisca un fondo speciale. Chiunque susciti qualche dubbio sull'impiego di significative risorse economiche per questo scopo viene tacciato di crudeltà ed è destinato alla impopolarità.

Ovviamente tutti attendiamo farmaci efficaci per i tumori: averli a disposizione vorrebbe dire, per quanto il costo sia elevato, risparmiare alla lunga in termini di ospedalizzazioni e cure palliative. Ma è proprio così chiaro il beneficio? Non stiamo soggiacendo ai miraggi di una biotecnologia che promette miracoli? In realtà se si guarda ai risultati non si rimane molto impressionati; spesso questi farmaci non vengono impiegati da soli, ma in associazione con i classici citotossici in disegni sperimentali che non sempre sono adeguati. I risultati sono misurati con parametri deboli, mentre mancano completamente dati che misurino la qualità di vita dei pazienti portatori di tumore. Mancano confronti adeguati, spesso riferiti a controlli storici anzichè a trattamenti standard studiati in contemporanea.

Venendo alle modalità con cui sono stati valutati i nuovi farmaci, occorre ricordare che le linee-guida delle agenzie regolatore richiedono per l'approvazione, oltre alle consuete indagini pre-cliniche e cliniche, studi di fase 3. Nel caso in cui si tratti di ricerche cosiddette di seconda o terza linea su pazienti resistenti alle terapie correnti è richiesta la dimostrazione di superiorità.

Contrariamente a quanto raccomandato da queste linee-guida i criteri con cui sono stati approvati i nuovi farmaci antitumorali, così come si desume dagli EPAR (European Product Assessment Report, i documenti ufficiali che giustificano le decisioni dell'EMEA, ente responsabile per la commercializzazione dei farmaci nei Paesi dell'Unione Europea) si possono riassumere in questo modo: per i dettagli rimandiamo a Apolone et al.; Brit. J. Cancer 2005, 93, 504-509.

Negli ultimi 10 anni, l'EMEA ha approvato 14 nuovi farmaci antitumorali per 27 indicazioni terapeutiche. Tuttavia solo per 14 indicazioni erano disponibili studi fase 3. Solo pochi studi riportavano parametri che fossero di reale interesse clinico: nel 89% dei casi si misuravano solo la massa del tumore e la progressione del tumore. Solo per quattro indicazioni esistevano studi per determinare la durata di vita, con risultati che riportavano un aumento di sopravvivenza da 0 a 3,7 mesi.

In conclusione i farmaci antitumorali vengono approvati e commercializzati con deboli evidenze di efficacia, senza confronti e in generale per indicazioni di nicchia. La disponibilità del farmaco accompagnata dalla promozione dell'industria ne estende poi rapidamente l'impiego “ off-label”. Non sempre viene rispettato l'obbligo di condurre ricerche nel periodo “post-marketing” per cui l'impiego del nuovo farmaco non viene rivalutato da parte delle autorità regolatorie. Gli oncologi utilizzano i farmaci nella speranza di ottenere risultati: ma anche in questo, come in molti altri casi in medicina, la loro decisione non è certamente basata sull'evidenza, ma su fattori soggettivi, una pratica che spesso sottrae risorse umane ed economiche al Servizio Sanitario Nazionale.
Non si terrebbe conto, insomma, del reale miglioramento della qualità della vita dei pazienti o della loro sopravvivenza, ma si cercherebbe solo la strada più breve per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione.
Le case farmaceutiche, infatti, hanno tutto l’interesse a velocizzare le procedure per recuperare gli ingenti investimenti in ricerca, e spesso sperimentano le nuove molecole allo stadio più precoce consentito, arrivando ad arruolare pazienti in condizioni molto particolari al solo scopo di poter richiedere lo status di “approvazione accelerata” o “sotto eccezionali circostanze” e disegnando lo studio nel modo più semplice possibile.
Fare in fretta sembra essere la parola d’ordine e, sotto le pressioni esercitate dagli investitori, spesso molti farmaci vengono immessi sul mercato “senza che sia stato compreso fino in fondo il reale meccanismo attraverso cui esercitano l’ azione clinica”.
Le linee guida adottate dall’EMEA permetterebbero, insomma, molte scappatoie ai danni della sicurezza e della salute pubblica e andrebbero riviste, come sottolineano i ricercatori del Mario Negri, che concludono: “La necessità dell’industria di guadagnare una fetta fiorente di mercato andrebbe bilanciata dal dovere di fornire farmaci efficaci senza porre un indebito carico sui servizi sanitari nazionali europei”.