martedì 17 novembre 2015

L'ISIS E' UN PROGETTO POLITICO E COME TALE VA AFFRONTATO



Le ultime tre giornate di lutto nazionale - quella francese a seguito delle stragi di Parigi (13 novembre), quella libanese dopo i due attentati di Beirut (12 novembre) e la lunga marcia di Kabul (11 novembre) per denunciare l'ennesima decapitazione da parte del sedicente "Stato Islamico" (Isis, come d'uso comune) - sono il segno di un'escalation in corso, mentre tradiscono l'insofferenza sociale diffusa rispetto alla brutalità del terrorismo. È evidente come l'Isis abbia raffinato la capacità di organizzare ovunque attacchi a sorpresa, prerogativa classica del terrorismo di ogni colore ed epoca, anche in paesi dotati, come la Francia, di sistemi di sicurezza estremamente sofisticati.
Le rivendicazioni su Twitter da parte dello stato islamico - canti digitali di vittoria bellica nell'era della guerra postmoderna - individuano e circoscrivono chiaramente il nemico: la Francia che bombarda i territori controllati dall'ISIS, il partito sciita libanese Hezbollah che combatte in Siria contro il califfato (assieme a tutto il resto dell'opposizione al regime di Asad). Nella stessa serie di "vendette" s'inscrive anche l'abbattimento dell'Airbus A321-200 russo in Egitto, in risposta alla decisione di Mosca di bombardare l'Isis in Siria. Anche quell'attacco fu condotto con la stessa strategia: uccidere civili innocenti per punire governi, attori e poteri ostili.
In questa triste rassegna è giusto però menzionare anche tutti gli attentati rivendicati dallo Stato Islamico contro mercati, moschee, cortei funebri e luoghi pubblici - non minori nella loro portata omicida rispetto ai sei attacchi simultanei che due giorni fa a Parigi hanno ucciso 128 persone, anche se meno vicini a noi geograficamente e, soprattutto, politicamente. Si conta che l'Isis abbia ucciso circa 10.000 persone solo dall'inizio dei bombardamenti americani, tra esecuzioni sommarie e attacchi a sorpresa. In molti dei territori che fanno da teatro a queste stragi spesso non vi sono autorità in grado di proclamare un lutto nazionale, eppure lo scopo ultimo è quello di reprimere e punire chi resiste al totalitarismo dell'autoproclamato Califfato.
Comprensibilmente lo stupore per gli eventi di Parigi deriva dal fatto che la strage del 13 novembre ha squarciato un venerdì sera qualunque della più romantica capitale europea, avvolta nella sua grandeur, dove servire il vino in tavola è un principio identitario irrinunciabile (al punto da far saltare una cena di stato), e dove, mentre si esce di casa per andare ad un concerto, a tutto si pensa fuorché alla minaccia incombente di un attacco terroristico. Certo, non è la prima volta che il terrorismo di matrice islamista si presenta, ospite ingrato, nel cuore dell'Europa. Si ricordino gli attentati di Madrid, della metropolitana di Londra, di Copenaghen, di Charlie Hebdo e il fallito tentativo sul treno Amsterdam-Parigi l'estate scorsa. Ma è altrettanto evidente che tragedie simili a quella vissuta venerdì scorso a Parigi - anzi identiche per forma di attacco, natura della minaccia e soggetto rivendicante (lo Stato Islamico) - quando avvengono a Baghdad, Kabul, Aleppo, Sana'a o Beirut, non siano affatto considerate "attacchi all'umanità", come il presidente americano Barack Obama ha definito la strage francese; vengono anzi spesso taciute del tutto dalla stampa occidentale o annoverate come l'ennesimo episodio di sangue in posti esotici dove si presume la violenza sia endemica; figurarsi se degne di un "SafeButton" su Facebook, attivato a Parigi ma non, per esempio, a Beirut appena il giorno prima. Eppure i social network sono molto diffusi nei paesi arabi - anche in quelli molto insicuri - e il "Safe Button" di Facebook rappresenterebbe un mezzo utilissimo e gratuito per accertarsi rapidamente dello stato di salute di cari e amici in caso di attentati terroristici o bombardamenti.
Questa sensibilità selettiva è di certo ben spiegabile foucaultianamente, quando si analizzano le narrazioni delle guerre e dei conflitti mediorientali (o la loro assenza) che recepiamo ogni giorno nei nostri paesi. Tuttavia, prestare maggiore attenzione a quello che succede a sud del Mediterraneo e comprendere le cause profonde dei conflitti in corso, oltre le strumentali narrative religiose, non si limita all'esercizio intellettuale di "decolonizzare" la nostra visione dell'Oriente e delle società orientali. Essa assume una valenza estremamente pragmatica e strategica all'indomani della strage di Parigi.Nel momento in cui le nostre vite diventano sempre più vulnerabili rispetto a minacce imprevedibili, è importante tracciare il filo che lega il terrore del 13 novembre a Parigi e la guerra in corso nel Levante arabo, in Iraq dal 2003 e in Siria dal 2011.
Si tratta in primo luogo di realizzare, contrariamente alla saggezza cinica che ha guidato molte decisioni politiche nel passato anche recente, che la sicurezza dell'Europa dipende fortemente dalla sicurezza (e non l'insicurezza) dei paesi mediorientali e dalla loro emancipazione politica. emancipazione politica - dall'interferenza occidentale e dai brutali regimi sostenuti dai governi occidentali anche contro il volere esplicito dei loro popoli (si pensi per esempio al Bahrain) o legittimati in quanto economicamente utili (come l'Egitto di al-Sisi). È invece giusto riconoscere, senza drammi identitari, quanto nei processi storici più e meno recenti l'Europa e l'Occidente più in generale abbiano contributo ad ostacolare la trasformazione politica e lo sviluppo economico e sociale dei paesi mediorientali, pur di preservare una vantaggiosa gerarchia nei rapporti politici, economici e strategici con il Medio Oriente.
La breve storia del conflitto siriano in queste particolari circostanze storiche è piuttosto esemplare. L'abbrivio della rivoluzione siriana incapsulava idee e rivendicazioni di libertà, giustizia, democrazia, laicità e pluralismo confessionale. E includeva anche una specifica richiesta all'Occidente: imporre una "no fly zone" sulla Siria per impedire che il regime di Bashar al-Asad bombardasse e sganciasse le famose bombe a grappolo su quartieri e villaggi, uccidendo prevalentemente civili. Se si considera quanto cruciale sia stato il ruolo dell'aviazione siriana nel garantire la persistenza del regime di Asad, si comprende anche quanto importante fosse per la rivoluzione impedire al regime di usare quello specifico strumento.
La strategia dei paesi occidentali, e in particolare di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, è stata invece, sin dalla fine del 2011, quella di assecondare o entrare direttamente in una "guerra per procura", ovvero innescare un processo di penetrazione indiretta della Siria, attraverso l'invio di armi e combattenti sul terreno. Il modello non è nuovo: la militarizzazione della società aveva già segnato l'infelice decorso della guerra in Iraq dopo la rimozione di Saddam Hussein e lo scioglimento dell'esercito iracheno da parte americana. Si pensi anche alla guerra dei mujahidiyyn in Afghanistan contro l'Armata Rossa, o alla guerra in Yemen degli anni '60 tra il nord filoccidentale e il sud socialista filosovietico, saldatasi a quella tra monarchici filo-sauditi e repubblicani filo-egiziani. Come in passato, invece di sostenere un cambio di regime a Damasco attraverso un processo di trasformazione politica endogena, l'Occidente ha allacciato l'auspicata caduta Asad ad interessi esterni.
Il sostegno di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna alla Turchia e ai paesi arabi del Golfo - monarchie autoritarie e principali esportatori di petrolio, oltre che grandi investitori di fondi sovrani nelle nostre capitali europee - cela una connivenza importante sui canali informali di finanziamento del terrorismo. Ma comprendere il filo sottile tra i petrodollari investiti nelle nostre capitali e nei quartieri finanziari di Parigi, Londra o Milano e quelli investiti nella creazione della macchina jihadista (commercio di armi, indottrinamento, reclutamento, logistica e trasporto, pensioni alle famiglie dei jihadisti dall'Europa, dal Medio Oriente e dall'Asia Centrale verso la Siria) è fondamentale per comprendere al contempo il risorgere dell'islamismo radicale, la nascita del sedicente Stato Islamico e l'esodo dei rifugiati siriani, in fuga tanto dalle bombe di Asad quanto dalla brutalità dell'Isis. Dietro la narrazione del movente ideologico e religioso si è in altri termini deliberatamente celata l'importanza dei flussi finanziari che attivano e nutrono i vari anelli della catena del terrorismo tra il Levante arabo e il resto del mondo. Questo perché molto spesso i finanziatori del terrorismo islamico sono gli stessi investitori che sostengono le nostre economie e le nostre piazze finanziarie. È singolare che all'indomani degli attentati di Parigi, per la prima volta i leader europei, riuniti ieri al G20 di Antalya, si siano impegnati a tracciare e bloccare le transazioni finanziarie a favore del terrorismo. Quasi a voler riconoscere tardivamente che gli attentatori di Parigi non avrebbero potuto compiere quella strage se non avessero avuto a disposizione importanti risorse
Al netto di queste premesse, il fondamentalismo ideologico del califfato rappresenta un prodotto storicamente contingente e niente affatto strutturale al Medio Oriente. Questa regione ha d'altra parte ha conosciuto idee liberali, democratiche, socialiste, comuniste e laiche nei decenni precedenti, prima che il proselitismo prevalentemente finanziato dell'Arabia Saudita a partire dagli anni 70 non andasse a sradicare e neutralizzare il pluralismo intellettuale e culturale.
Da questo punto di vista, lo stato islamico rappresenta l'esprit du temps - e di un tempo evidentemente molto buio perché privo di alternative credibili di organizzazione socio-politica in un territorio - quello dell'Iraq e della Siria - dove un longevo conflitto ad alta intensità, la distruzione delle infrastrutture e la conseguente sfaldatura del tessuto sociale hanno reso possibile ciò che la creatività potrebbe produrre con la terra bruciata: la riesumazione maldestra e anacronistica di un califfato utopistico. L'Isis ha colmato questo gigantesco vuoto politico e sociale e, per quanto utilizzi la religione per giustificarsi ontologicamente, non incarna un progetto meramente - e neppure essenzialmente - religioso. Si tratta, al contrario, di un progetto politico che come tale va combattuto.
In questa fase storica, la sconfitta dello stato islamico e lo sgonfiamento del fascino che esso emana può passare solo attraverso il ripristino di condizioni minimali sul terreno per indurre gli attori ad abbondonare la violenza e riattivare un processo di ricostruzione materiale e politica. Il principale ostacolo a ciò è stato finora rappresentato dall'intrecciarsi di rivalità regionali e internazionali, che hanno militarizzato le società, producendo una debolezza strutturale dei sistemi politici del Levante.
Certo, la Siria di oggi è molto diversa dalla Siria del 2011 e a mano a mano che il conflitto si esacerba, sempre più difficile diventa il tentativo che si possano produrre alternative politiche praticabili che ne garantiscano l'unità territoriale e la coesione sociale. In questo senso, si dovrebbe cercare di trasformare il negoziato politico avviato a Vienna il 30 Ottobre scorso in un quadro utile per raggiungere un compromesso minimale tra gli attori coinvolti nel conflitto, a partire dai siriani, curiosamente assenti nel meeting inaugurale. Un credibile negoziato politico, tuttavia, non può che avere come premessa l'arresto del flusso multidirezionale di armi verso la Siria e il contenimento della lucrosa economia di guerra (di cui continua a beneficiare anche lo Stato Islamico), gettando le premesse per un'economia della ricostruzione del paese. Coscienti del fatto che prima che si esauriscano le molte munizioni sul terreno, le armi continueranno a far rumore. E consapevoli che un compromesso politico che non rispecchi la natura della distribuzione del potere sul terreno non potrà mai essere sostenibile. Ma si tratta di una tappa obbligata se davvero si vuole annichilire il progetto politico del Califfato.