lunedì 23 novembre 2015

IL CONFLITTO CON I DAESH SOTTO L'ASPETTO GIURIDICO



Com'è opportuno che sia, ai margini dei terribili, inqualificabili, attacchi che hanno segnato Parigi venerdì 13 novembre, (oltre a quelli che hanno segnato Beirut, e i passeggeri del volo civile abbattuto sulle montagne del Sinai) si accendono appassionate discussioni, e si abbozzano primi tentativi di analisi. Vi si incrociano temi di diritto, e specificamente di diritto internazionale. È su questi ultimi che desidero soffermare l'attenzione.
Un'avvertenza è necessaria. I temi affrontati in questo Post non intendono in alcun modo relativizzare - da nessuna prospettiva - l'oscena insensatezza degli attentati. Si tratta di atti disumani, e non conosco aggettivi che, includendo uno o più caratteri, rendano meglio l'idea di quest'ultimo che, invece, li esclude. Ma proprio in virtù della loro terrificante gravità, questi attentati interrogano una varietà di competenze, tra le quali quelle dell'esperto di diritto. E più precisamente dell'esperto di diritto internazionale.
Beninteso, non è detto che i giuristi siano i meglio equipaggiati anche solo per individuare le questioni chiave che emergono da tali scenari. Il diritto segue la realtà, e spesso arranca ad una certa misura di distanza (la Carta delle Nazioni Unite del 1945 - ad esempio - era stata ideata tenendo a mente la Seconda guerra mondiale, e non certo quelle che sarebbero venute dopo). Per questa ragione, è probabile che gli economisti, gli esperti di relazioni internazionali, gli storici o i filosofi, dispongano di un numero maggiore di strumenti per comprendere, oltre che di misuratori più sensibili. Ma ci sembra giunto il momento di porre qualche domanda anche nel campo del diritto.
"La Francia è in guerra, gli atti compiuti [...] sono degli atti di guerra [e] costituiscono un'aggressione contro il nostro Paese, contro i suoi valori, contro la sua gioventù e il suo stile di vita". Sono le prime parole pronunciate dal Presidente della Repubblica francese, Hollande nel discorso dinanzi al Parlamento eccezionalmente riunito a Versailles il 16 novembre 2015. Non sono proferite con leggerezza, così come gravi sono le dichiarazioni rilasciate due giorni prima, al termine della riunione del Consiglio di difesa del 14 novembre 2015.
L'insieme di questi due interventi ha prodotto degli effetti, pressoché immediati, su almeno due livelli. Sul piano interno, è stata decretata una legislazione d'urgenza che certamente solleverà delle questioni di legalità e/o di legittimità agli occhi della dottrina di diritto pubblico francese. Su quello internazionale, si è deciso di intensificare immediatamente l'azione armata sul territorio controllato dall'Isis o dal Daesh (secondo come si preferisca denominarlo).
Su entrambi questi fronti temi una riflessione approfondita, anche nel dibattito pubblico, ci sembra augurabile. E non tanto per supporre delle risposte a problemi severamente discussi, a volte per decenni, nelle comunità scientifiche, quanto per porre le domande giuste.
Dal punto di vista del diritto internazionale, dunque, gli elementi problematici che - ad oggi (la situazione muta giorno per giorno) - più di altri hanno catturato la mia attenzione, sono i seguenti. Come abbiamo accennato, il Presidente Hollande qualifica gli attacchi subiti nei termini di "guerra", di "atto di guerra", di "aggressione". Ma cosa significa detta qualifica? E quali conseguenze può comportare? Una breve panoramica, sul punto, appare necessaria, pur nella consapevolezza che essa apparirà eccessivamente sintetica (agli addetti ai lavori) e smodatamente articolata (ai non-addetti).
Il sistema di sicurezza collettiva, e cioè la regolamentazione dell'uso della forza come si è configurato a partire dalla fondazione delle Nazioni Unite nel 1945, si fonda su tre pilastri: (1) un principio generale in forma di divieto (l'obbligo di astensione dalla minaccia o dall'uso della forza nelle relazioni internazionali); (2) un'eccezione a questo divieto generale (la legittima difesa, individuale o collettiva, che si può esercitare nel caso in cui uno Stato abbia subito un attacco armato-aggressione fintanto che il Consiglio di sicurezza non agisca); e (3) un garante della tensione tra il principio e l'eccezione, e cioè il medesimo Consiglio, organo esecutivo della massima organizzazione internazionale, nonché ideale monopolista dell'uso della forza nelle relazioni internazionali (com'è noto, esso è composto da 15 membri, cinque dei quali - USA, Russia, Cina, Francia e Regno Unito - permanenti e dotati del c.d. potere di veto).
Preso atto del cattivo funzionamento di quest'ultimo organo, paralizzato quasi immediatamente dai contrastanti interessi sopraggiunti nel corso della guerra fredda, tanto la regola, quanto l'eccezione, hanno registrato delle variazioni, che talvolta sono sfociate in autentiche "torsioni". Pertanto, se è vero che oggi il principio generale del divieto dell'uso della forza ha assunto un valore di diritto consuetudinario, addirittura cogente.. al fine di regolamentare le nuove forme di violenza, che non concernono più le classiche situazioni di "uno Stato che muove una guerra di aggressione contro un altro Stato", sono state esplorati due filoni principali.
Il primo consiste nel restringere la portata della divieto generale dell'uso della forza. Si è sostenuto, ad esempio, che tale divieto non trovi applicazione nel caso degli interventi umanitari, o ancora che non sussista nel caso degli interventi per combattere il terrorismo.
Il secondo consiste nell'allargare lo spettro delle eccezioni. È questo il caso dell'allargamento del concetto di legittima difesa preventiva (e cioè nelle more di un attacco certo e immediato), che secondo la c.d. dottrina Bush si estenderebbe sino ad includere la legittima difesa preclusiva (cioè atta ad impedire anche attacchi solo possibili e ipotetici, come nel caso dell'intervento militare condotto in Iraq per eliminare delle armi di distruzione di massa... che però non sono mai state trovate).
Ciascuno di questi scenari pone una pletora di problemi molto peculiari, che non si possono esaminare in questa sede. Si consideri, tuttavia, che se si sottopone la situazione che si è venuta a verificare ad un esame in controluce, emergono, quanto meno in filigrana, diverse questioni aperte che meritano di essere evocate.
Si considerino, per cominciare, queste quattro domande:
1) Chi è il nemico, in questo caso?
La risposta più comune è che si tratti dell'Isis. Ma cosa potrebbe accadere, se si dimostrasse (o se vi fosse un ragionevole dubbio) che gli attentatori hanno agito di propria iniziativa? La recente normativa anti-terrorismo adottata in Italia nel febbraio del 2015, ad esempio, estende la punibilità non solo al terrorista "addestrato", ma anche a chi acquisisce, "autonomamente" le istruzioni per il compimento di atti terroristici. Ma questo è un modello pensato per le esigenze di un ordinamento giuridico interno. Siamo certi che esso possa trovare applicazione anche in un ordinamento giuridico internazionale, dove non si tratta di sanzionare penalmente individui, ma di accertare la responsabilità degli Stati?

2) L'Isis, o Daesh, è uno Stato?
È questa una domanda importante, oltre che, sempre, di difficile risoluzione. Importante, perché non manca chi interpreta la possibilità della legittima difesa in chiave essenzialmente inter-statuale (ragione per cui l'istituto non troverebbe applicazione nel caso della lotta al terrorismo). E di difficile risoluzione, perché se intendiamo qualificare l'entità di cui stiamo trattando nei termini di Stato, occorre verificare che la larga porzione di territorio che essa controlla sia soggetta ad un autorità di governo effettiva e indipendente.

3) Come qualificare, giuridicamente, gli attacchi compiuti a Parigi?
Un buon numero di sotto-questioni si pongono, a questo livello. Ad esempio, se si sia trattato di un 'attacco armato' o di 'un'aggressione', oppure di un 'atto di terrorismo', o ancora di 'un crimine contro l'umanità' (altresì definito come "un attacco generale o sistematico condotto contro la popolazione civile"). Dal momento che ognuna di queste determinazioni può condurre a conseguenze diverse, la redazione di una lettera aperta, come quella che David Van Reybrouck (autore del pluripremiato Congo, una storia) ha scritto al Presidente Hollande, ci sembra un esempio di opinione opportunamente critica. In essa, si sottolineano alcune incoerenze rilevabili nelle scelte lessicali che sono state adoperate nel corso del (riconosciamolo: politicamente delicatissimo) discorso pubblico svolto il giorno seguente gli attacchi. Alcune di esse, come il richiamo ad atti di guerra compiuti da un 'esercito di terroristi' (armée terroriste), sono definite "straordinariamente irragionevoli".

4) Come qualificare, giuridicamente, la risposta agli attacchi di Parigi?
Ragionando semplicemente, la violenta contro-offensiva armata provocata dagli attacchi di Parigi è apparsa inevitabile. Dal punto di vista giuridico, tuttavia, si pone un problema di qualifica. Così, se essa è inquadrabile, almeno in parte, all'interno delle azioni militari che erano già in corso nei territori occupati dall'Isis, per la parte eccedente (ammesso, e non concesso, che vi sia una parte eccedente), si pone un nuovo problema di legittimazione del ricorso alla forza. Al riguardo, il titolo più plausibile sarebbe quello di 'rappresaglia armata'... se non fosse che quest'ultima è vietata ai sensi del diritto internazionale! (ed è proprio per tale ragione che tutte le volte in cui gli Stati... la esercitano, si affrettano a denominarla in altro modo: per lo più legittima difesa, la cui qualifica, tuttavia, non è esente dai problemi indicati in precedenza). Ma anche altre soluzioni interpretative non appaiono immuni da una certa problematicità. Si consideri, ad esempio, la dottrina 'dell'intervento umanitario'. Essa è stata invocata contro gli Stati che massacravano (o lasciavano massacrare) la propria popolazione civile, mentre... nel caso degli attacchi compiuti a Parigi, essa verrebbe richiamata a protezione della popolazione stanziata nel medesimo territorio dello Stato che la invoca.

Di tutte queste incertezze interpretative ci sembra che permangano echi nell'atteggiamento attendista della Comunità internazionale, giacché al momento che in cui si pubblica questo Post, e cioè ad una settimana dagli attentati, a parte l'invocazione dell'articolo 42 comma 7 del Trattato dell'Unione Europea, né il Consiglio del Patto Atlantico (Nato), né il Consiglio di sicurezza (Onu), si sono ancora pronunciati sul tema (mentre la prima risoluzione con la quale quest'ultimo condannava "inequivocabilmente e nei termini più forti gli orrendi attacchi terroristici avvenuti l'11 settembre 2001" era del.... 12 settembre!).
In conclusione, quello che ho cercato di evidenziare - nel limitato spazio di un Post rivolto ad un pubblico generalista - è che le questioni giuridiche poste sul tappeto sono numerose e aperte a molteplici soluzioni.