Uno
studioso americano ha messo le mani sulle carte segrete delle aziende che
producono antidepressivi. E ha scoperto che non sono più efficaci dei
placebo. Lo abbiamo intervistato. Colloquio con Irving Kirsch
L’imperatore
è nudo: parola di Irving Kirsch, professore al Department of Psychology
dell’Università di Hull, in Gran Bretagna, e docente emerito dell’Università
del Connecticut. Che ha pubblicato diversi studi per dire che quei farmaci che
dovrebbero aiutare a sconfiggere il male di vivere, al contrario, non fanno
nulla. Per dimostrarlo, Kirsch si è avvalso del Freedom of Information Act, la
legge statunitense che tutela il diritto di accesso alle informazioni di
interesse pubblico. E ha costretto l’Fda a tirare fuori dai cassetti ciò che,
altrimenti, non sarebbe mai diventato di dominio pubblico, ossia i dati in base
ai quali erano stati approvati sei tra gli antidepressivi più venduti, e cioè
citalopram (elopram e altri), fluoxetina (prozac e altri), nefazodone (reseril,
ritirato per danni epatici), paroxetina (seroxat e altri), sertralina (zoloft e
altri), venlafaxina (efexor e altri).
Kirsch
ha così dimostrato che, in 47 studi clinici controllati, in gran parte
sponsorizzati dalle industrie produttrici, solo il 10-20 per cento dei pazienti
avverte un beneficio dovuto effettivamente all’azione farmacologica della
molecola, mentre l’80-90 per cento dei depressi si sente meglio grazie al
placebo. E aggiunge: tutti lo sanno, ma tutti continuano a sostenere le pillole
della felicità. Per questo ha voluto intitolare un suo articolo ‘I farmaci
nuovi dell’imperatore: la disintegrazione del mito degli antidepressivi’.
Un
mito che oggi vacilla sotto l’autorità di un grande studio pubblicato su ‘Jama’
che sostiene chiaramente l’inutilità di questi farmaci in chiunque non sia
depresso in maniera molto grave. La ricerca si basa sui dati ottenuti sulle 160
mila donne partecipanti alla Women’s Health Initiative, così come quella che
dimostra come gli antidepressivi nelle donne in menopausa aumentino il rischio
di ictus e morte (dati pubblicati sugli ‘Archives of Internal Medicine’). Un
colpo ferale, che arriva dopo anni di polemiche su quanto l’uso intenso di
questi farmaci aumenti il rischio di suicidio. Che cosa concludere? Ecco che
cosa ne pensa lo studioso.
Professor
Kirsch: dati nascosti, per coprire la scarsa efficacia, ambiguità degli enti
regolatori per farmaci sostenuti da imponenti campagne pubblicitarie. Come è
stato possibile?
“Ci
si muove su un terreno scivoloso. Nelle sperimentazioni, i malati che assumono
questi farmaci spesso migliorano; tuttavia, ciò che non si è detto per anni è
che anche i pazienti trattati col placebo migliorano all’incirca allo stesso
modo. In altre parole, i farmaci funzionano non grazie al loro meccanismo d’azione,
bensì all’effetto placebo, ma questa verità è stata taciuta per anni. Nella
pratica clinica, d’altro canto, se un depresso migliora, il medico non ha alcun
modo per stabilire perché ciò accade. E quindi, spesso, pensa sia a causa del
farmaco e continua a darlo”.
Nessuna
cattiva coscienza dei medici, allora? Chi ha sbagliato?
“Le
informazioni più rilevanti sono state tenute nascoste per due decenni, anche se
tutti gli specialisti erano a conoscenza di quello che qualche mio collega
coinvolto negli studi registrativi ha in seguito pubblicamente e senza vergogna
definito ‘il nostro piccolo sporco segreto'”.
Che
ruolo hanno – o dovrebbero avere – oggi gli antidepressivi?
“Iniziano
a esserci timidi segnali di cambiamento, via via che vengono pubblicati nuovi
risultati: per esempio, un recente sondaggio condotto in Gran Bretagna ha
mostrato che il 44 per cento degli specialisti incomincia a considerare
alternative a questi medicinali. Tuttavia non bisogna illudersi, i consumi sono
ancora in aumento, e molti medici li prescrivono subito, come primo approccio a
depressioni anche lievi, mentre nella stragrande maggioranza dei casi
dovrebbero essere considerati come l’ultima spiaggia, e usati solo dopo che
tutte le altre cure hanno fallito”.
Perché
invece sono tanto amati, dai medici in primo luogo?
“Negli
ultimi vent’anni ci hanno raccontato che tutto era dovuto alla serotonina. Ma i
dati genetici e di laboratorio dimostrano che non è così. Così come lo dimostra
il fatto che esistono antidepressivi che aumentano la serotonina (come la
fluoxetina), altri che la diminuiscono (come la tianepina) e altri che non
hanno alcun influenza su di essa, e il loro effetto è identico. Perché la
serotonina non c’entra: ciò che funziona è l’effetto placebo”.
Riducendo
il ruolo dei farmaci, qual è il modo più efficace per affrontare la
depressione?
“I
dati degli ultimi anni dimostrano che la psicoterapia, soprattutto quella di
tipo cognitivo-comportamentale, è l’alternativa migliore ai farmaci. Infatti,
anche se i benefici immediati possono essere analoghi a quelli ottenibili con
gli antidepressivi, quelli a lungo termine sono molto più consistenti e
stabili. Sappiamo che la maggior parte dei depressi trattati con i farmaci è
destinato prima o poi a ricadere, ma la psicoterapia dimezza tale rischio.
Inoltre, anche se i suoi costi iniziali possono essere superiori a quelli di un
protocollo farmacologico, molti dati dimostrano che negli anni è costo-efficace
e più economica rispetto agli antidepressivi. A essa poi si può aggiungere la lettura
di alcuni libri scritti da specialisti. In commercio se ne trovano diversi,
incentrati su aspetti differenti quali il perseguimento di attività gradite, il
rafforzamento delle relazioni sociali, la percezione di sé e così via, che
anch’io consiglio sovente ai miei pazienti; riconosco che il ricorso ai libri
potrebbe sembrare una soluzione semplicistica e inadeguata, ma ci sono ormai
diversi studi che dimostrano che alcuni testi, da soli o in aggiunta alla
psicoterapia, hanno un’efficacia ancora misurabile dopo tre anni, soprattutto
quando la depressione non è troppo grave. Come lo sport”..
L’attività
fisica? Che ruolo ha?
“Ha
un ruolo fondamentale e spesso sottovalutato nella cura delle depressioni.
Molti studi lo hanno rilevato, mentre altri hanno messo a confronto l’efficacia
di vari tipi di esercizi con quella delle diverse psicoterapie e dei farmaci, e
altri ancora hanno provato a sommare l’effetto degli uni e degli altri. Il
risultato, così come emerso in alcune rassegne di studi, è sempre lo stesso: lo
sport aiuta a controllare le depressioni lievi, e la sua efficacia è
paragonabile a quella delle terapie psicologiche o farmacologiche, soprattutto
sul lungo periodo. Da queste ricerche, inoltre, sono emersi risultati
sorprendenti. Per prima cosa le ricerche hanno rilevato che l’esercizio fisico
ancora funziona meglio sulle depressione medio-gravi che su quelle più lievi. E
hanno visto che gli effetti benefici dello sport sono duraturi e, anzi,
aumentano nel tempo, se il depresso è costante nello svolgimento dell’attività
scelta, che deve consistere in media in venti minuti di allenamento tre volte
alla settimana”.
Qualunque
attività?
“Va
bene tutto, purché sia gradito e ben accetto. Sul perché lo sport faccia così
bene, per ora ci sono solo teorie: probabilmente in gran parte è dovuto al
rilascio di endorfine. Comunque, anche se tutto causato dall’effetto placebo,
per convincersi di quanto lo sport sia positivo basta confrontare i suoi
effetti collaterali con quelli dei farmaci. Con questi ultimi il depresso va
incontro a disfunzioni sessuali, nausea, vomito, insonnia, convulsioni,
diarrea, cefalea, rischio di pensieri suicidi e sonnolenza. Con lo sport si ha
la possibilità di mettere sotto controllo il proprio colesterolo, di perdere il
peso in eccesso, di dormire meglio, di avere un miglioramento della libido, del
tono muscolare, della funzionalità cardiaca e vascolare e, in definitiva, di
vedere la propria aspettativa di vita allungarsi. Non mi resta che dire:
potendo scegliere, quale dei due effetti placebo preferireste?”.
PARERE DEL PROF. PAOLO
MIGONE
I
dati riportati in questo articolo del n. 6/2010 de L’Espresso sono corretti, anzi – cosa che qui
non viene detta – lo studio di Kirsch et
al. del 2002 di cui si parla è stato replicato da altri autori
ottenendo gli stessi risultati (vedi ad esempio Whittington et al., 2004; Kirsch &
Moncrieff, 2007; Turner et al.,
2008¸ Hughes & Cohen, 2009; vedi anche Kirsch, 2009). Per di più, i
successivi studi sono stati pubblicati su riviste molto prestigiose (ad esempio
anche sul New England Journal
of Medicine, una delle riviste più qualificate al mondo, su cui ad
esempio scrivono i premi Nobel). Tutti i ricercatori hanno sempre saputo che i
farmaci antidepressivi hanno una efficacia molto simile al placebo (c’è una
piccola significatività statistica ma non una significatività clinica). Questo
infatti è sempre stato considerato dai ricercatori il loro “piccolo sporco segreto”
(little dirty secret),
come è stato detto testualmente (Hollon et
al., 2002). Nessun ricercatore ha mai contraddetto questi
risultati. Esiste solo uno studio molto recente (Fournier et al., 2010) che mostra che
i farmaci possono essere un po’ efficaci ma solo nelle depressioni gravi,
mentre nella stragrande maggioranza dei casi sono inefficaci (Kirsch et al. invece non avevano
trovato differenze tra pazienti lievi e gravi).
Sono
stato io per primo a pubblicizzare queste ricerche in Italia in un articolo
uscito sul n. 3/2005 di Psicoterapia
e Scienze Umane, che è reperibile anche su Internet (“Farmaci antidepressivi nella pratica
psichiatrica: efficacia reale“). Esistono anche dati di ricerca ben
consolidati che dimostrano che la psicoterapia è nettamente superiore ai
farmaci. A proposito di psicoterapia, nel n. 1/2010 di Psicoterapia
e Scienze Umane, che esce tra circa un mese, vi è un
importante review
di Shedler sull’efficacia della terapia psicodinamica in cui, tra le altre
cose, vi è una tabella che paragona le “dimensioni del risultato” (effect size) di vari tipi di
psicoterapia, emerse dalle principali meta-analisi esistenti (15 in tutto, 2
delle quali sono “mega-analisi”, cioè meta-analisi di meta-analisi), e in
questa tabella vengono mostrate anche, come elemento di paragone, le effect size dei farmaci antidepressivi:
queste variano da .17 a .31, mentre quelle della psicoterapia variano da .62 a
1.46 secondo le diverse meta-analisi, è cioè enormemente più efficace la
psicoterapia dei farmaci (se può interessare un paragone tra le diverse
tecniche psicoterapeutiche, da questo studio emerge che la terapia
psicodinamica [PDT] è più efficace della terapia cognitivo-comportamentale
[CBT]: le effect size
della terapia psicodinamica variano da .69 a 1.46, mentre quelle della terapia
cognitivo-comportamentale variano da .58 a 1.0; questo è un dato nuovo, che va
in controtendenza rispetto a precedenti studi, che penso farà molto discutere).
Questa review di
Shedler esce proprio in questi giorni sulla rivista American Psychologist, organo dell’American Psychological Association,
e viene pubblicata quasi in contemporanea in italiano grazie a un accordo tra Psicoterapia e Scienze Umane
e l’American Psychological
Association.
Qual
è la ripercussione di questi studi sulla pratica psichiatrica in generale?
Forse non molta, perché queste cose si sapevano da tempo eppure i farmaci
antidepressivi hanno continuato ad essere prescritti a vasti settori della
popolazione, anzi sempre di più, e vengono proposti persino per i bambini. Vi
sono varie forze che sinergicamente spingono verso a un massiccio uso di
farmaci. Innanzitutto la pressione delle case farmaceutiche che condiziona
pesantemente la cultura dei medici, finanziando pressoché quasi tutte le
riviste scientifiche, i congressi, “informando” costantemente i medici tramite i
rappresentanti farmaceutici i quali pagano la loro partecipazione ai congressi
scientifici e così via. Poi vi è in molti pazienti una grande aspettativa verso
il farmaco che risolva in modo rapido i problemi di cui soffrono, e questa
aspettativa deriva da una cultura diffusa (alla cui diffusione non sono
estranee le case farmaceutiche); questa cultura del resto è quella da cui
deriva il potente effetto placebo (però pochi ricordano che i benefìci ottenuti
coi farmaci potrebbero essere ottenuti quasi allo stesso modo con un placebo).
Infine gli psichiatri, che molto spesso hanno poca cultura psicoterapeutica,
non sono preparati a rispondere ai pazienti trasmettendo altri valori, anzi,
quasi sempre colludono con loro elargendo farmaci antidepressivi (cioè in sostanza
placebo) e quindi “non curandoli” nel senso scientifico del termine. E’ stato
dimostrato infatti che i farmaci antidepressivi non solo producono risultati
inferiori alla psicoterapia, ma anche più ricadute e una graduale diminuzione
del risultato raggiunto, mentre la psicoterapia produce meno ricadute e un
progressivo aumento dell’effetto terapeutico nel tempo, come se si mettessero
in moto processi psicologici autonomi che evolvono negli anni.
Come
fare per aumentare la consapevolezza di questi dati nei medici e nella cultura
psicologica in generale, migliorando così le prestazioni psichiatriche? Non è
facile dirlo, occorrerebbe una modificazione dei processi formativi,
introducendo maggiormente una cultura psicodinamica e interpersonale nella formazione
degli psichiatri, che tra l’altro è più in linea con le evidenze scientifiche
che paradossalmente vengono vantate proprio da quel mondo accademico che, in
sinergia con le case farmaceutiche, continua a diffondere una cultura secondo
la quale sono soprattutto le variabili farmacologiche, e non psicologiche,
quelle importanti nella salute mentale.