I dipendenti pubblici? Una mandria
di sfaticati. I loro dirigenti? Mandarini del Celeste Impero. Le burocrazie
locali? Centri di spreco e corruzione. Nella furia iconoclasta che s’abbatte
sugli uomini (e le donne) dello Stato, non si salva più nessuno. E il
presidente del Consiglio offre un megafono a questo sentimento popolare,
trasformando il rancore in urlo di battaglia: promette una lotta «violenta»
alla burocrazia, annuncia che a maggio il suo governo entrerà «con la ruspa»
nelle casematte della pubblica amministrazione. Giusto, se l’offensiva riuscirà
a sgominare le inefficienze e prepotenze burocratiche. Sbagliato, se vi
fiammeggia un odio verso tutto ciò che è pubblico, di tutti.
Perché siamo noi, lo Stato. È la
maestra che insegna matematica ai nostri bambini, guadagnando meno d’una colf.
È il poliziotto che fa il turno di notte nelle strade, a bordo di volanti
scalcinate e sempre a corto di benzina. È il medico del Pronto soccorso, che
s’arrangia risparmiando sulle garze. Ed è anche il burocrate con la sua penna
d’oca in mano, come no. Ma per difenderci dalle vessazioni burocratiche, per
ritrovare la nostra libertà perduta, dobbiamo restituire all’amministrazione
pubblica la sua propria dignità perduta. Sfatando innanzitutto dicerie e
leggende sul corpaccione dello Stato.
Non è vero che l’Italia sia la
patria dei dipendenti pubblici: ne abbiamo 3,4 milioni, contro i 5,5 milioni
del Regno Unito o della Francia. E sono 58 per ogni mille abitanti, come in
Germania. Peraltro in calo del 4,7% nell’ultimo decennio, a differenza di tutti
gli altri Stati europei. Non è vero che costano troppo: pesano l’11,1% del Pil,
circa la metà di quanto si spende in Danimarca. Mentre il loro contratto di
lavoro è bloccato dal 2010. È vero però che sono troppo vecchi (solo il 10% ha
meno di 25 anni), con troppi marescialli e pochi soldati semplici (la Francia
ha un terzo dei nostri dirigenti), ed è vero infine che sono mal ripartiti (in
Calabria gli statali rappresentano il 13% degli occupati, in Lombardia il 6%).
Da qui il farmaco più urgente:
razionalizzare. Con l’intelligenza, non con la violenza. Significa distribuire
meglio i ruoli, ma significa altresì semplificare i procedimenti e gli
accidenti del diritto amministrativo. Dove la legge annuale di semplificazione
non interviene mai ogni anno, e si traduce per lo più nell’ennesimo fattore di
complicazione. Dove regna (dal 1889) l’astrusa distinzione fra diritti
soggettivi e interessi legittimi, ciascuno col suo giudice, ciascun giudizio un
rebus per i cittadini. E dove s’accalca una folla di custodi, che ovviamente
passano i giorni a litigare sulle rispettive competenze. Ma in un Paese che
ospita 6 forze di polizia nazionali e 2 locali questa è la regola, non certo
l’eccezione.
Ecco, è lì il virus che infetta
l’organismo dello Stato. S’annida nell’eccesso dei controlli, delle
giurisdizioni, dei procedimenti, delle norme (che peraltro fanno da scudo ai
poco volenterosi). Quante ne abbiamo in circolo? Nel 2007 la commissione Pajno
ha fatto un po’ di conti: 21.691 leggi statali, cui però dovremmo aggiungere 30
mila leggi regionali e 70 mila regolamenti. Ma in un sistema tortuoso come un
labirinto nessuno risponde più di nulla: c’è sempre un comma che ti lava la
coscienza. La fuga dalle responsabilità ha origine perciò da un pieno, non da
un vuoto. Giacché troppi controllori vanificano il controllo, giacché troppe
leggi equivalgono a nessuna legge. E allora tagliamo le norme, non le teste. source