lunedì 12 marzo 2012

ASTRAZENECA


Mi affaccio alla finestra, sono appena rientrato a casa, è quasi sera, il tramonto appare più duraturo del solito, le giornate si allungano. Ma questa sera  l’aria ancora frizzante porta profumi che non sentivo da tempo. Siamo all’imbrunire, il momento più bello della giornata, il trapasso della luce del giorno nel grigio della tenebra. L’inverno è finito, ma non lascia il passo alla nuova stagione. E’ bello vedere la prima penombra che si insinua tra i palazzi, e il volto della gente, i loro occhi che riflettono l’ultimo barlume del crepuscolo. Il cielo sereno si colora di turchino, e una falce di luna comincia a delinearsi sopra di noi. Che dolce malinconia, appena un velo di tristezza imporpora la mia fronte, ma passa subito, come gli stormi d’uccelli che si odono da lontano. C’è un momento, che può durare da  diversi istanti a pochi minuti, in cui, a quest’ora della sera, tutto si ferma per incanto, o meglio, rallenta, come per far posto al passo del viandante, al cammino della natura. E’ il momento dei ricordi vaghi, delle struggenti fantasie, delle placide memorie. Come tutto s’intona al mio stato d’animo! Rimango alla finestra, le mani poggiate sul davanzale, rimango così, in maniche corte, il freddo non è pungente. Una madre fa uscire il proprio bimbo dall’auto appena parcheggiata, lo bacia e lo prende in braccio, un’anziana incespica nel guinzaglio allungabile che a stento trattiene un cane desideroso solo di correre e di ansimare, una coppia cammina con calma verso il portone, lui sussurra qualcosa che provoca una risata argentina nella ragazza impertinente che sta al suo fianco. Si accendono i lampioni, la luce bianca dell’illuminazione urbana trafigge come una spada la sera che cade. E’ una luce innaturale, che deprime tutto quello che sfiora, lo comprime, anzi, uniformandolo al resto. Ma questo non ha più importanza, alzo lo sguardo nel cielo che si trasfigura, lasciando trapelare le prime stelle della sera. Sono uscito nel terrazzo, con una coperta che mi avvolge, mi siedo sulla sdraio davanti alla balaustra, come si fa in montagna, o in certe navi da crociera quando il tempo è indulgente, il mare calmo, e soffia una brezza che scompiglia i pensieri ma non le chiome. E’ il momento dei ricordi, quelli messi da parte, quelli inconfessati, quelli che emergono come la schiuma di un vino giovane e frizzante stappato con fretta e malagrazia. E’ il tempo della memoria. Rivedo davanti a me il cimitero di Amalfi, un giardino pensile sul mare ornato dalle tombe, i ruderi di Cuma, solenni e ripensati, la terra nera e fertile, giallastra di zolfo e cinabro degli scavi di Pozzuoli, rivedo i luoghi che ho visitato molti anni fa, sul percorso delle terre natali di mia madre. Ho ancora negli occhi una sera di Paestum, di là dalle rovine, poche vestigia in mezzo ad un mare verde azzurro, una nuotata in una piscina che pareva improvvisata, nel dehor di un albergo insospettabile quanto misterioso, sorto quasi dal nulla nel giro di una notte. Ora che è buio, alzando lo sguardo su nel cielo, vedo la stella che da tempo, tanto tempo, vado cercando nelle nottate terse, senza una nuvola. E la vedo, finalmente, poco dopo Alpha Centauri, è lei, Astrazeneca, la stella che brilla e accende mondi  meravigliosi, riscalda terre e acque, foreste e savane, ruscelli e colline come da noi, dentro di noi. Cammino a cavallo del tempo, sul crinale del presente che non diventerà futuro, rivedo i mondi che ho sognato a lungo, prima ancora di essere un bambino, quando mia madre mi cullava adagio dondolando nel suo ventre. Astrazeneca, che ne sarà di noi? Se solo potessi gettare uno sguardo anche solo per un momento nel tuo mistero! Potresti dare un senso alla mia vita, alla nausea che provo tutti i giorni guardandomi allo specchio, facendo e rifacendo gesti insensati, lontani dalla mia natura. A te vorrei tornare, libero, mondo da tutti i mali che ho radunato nella mia anima, di tutto quel livore che gli anni e le sconfitte hanno scavato nel mio spirito, una volta ardito, una volta bello. Chiudo gli occhi, mentre il vento si alza ed il freddo comincia a gelare le mie gote, chiudo gli occhi e sono di nuovo ad Ankara, dove qualcuno mi aspettava, mi cercava, ed io non sono stato capace di trovare. Credevo vanamente in  una risposta, una rivelazione  prima ad Istanbul, poi nella Cappadocia, ma sono tornato a casa a mani vuote, ed il senso del mistero resta, sempre lo stesso. Le corse da ragazzo, nel paesino di villeggiatura, dietro un pallone, un treno o una ragazza, il fiato corto, le mie fantasie, i tuffi nelle acque gelide del fiume, la voglia di scappare, via, via, per non tornare più. Ho ancora nel cuore quella voglia, sembrava sopita, nascosta in qualche remoto angolo del mio spirito, da qualche tempo l’ho ritrovata, mi assale all’improvviso, mentre sono intento a sbrigare il triste quotidiano, e allora per  un attimo sento come un vuoto intorno a me, una assenza spettrale che mi chiama, a gran voce, mi chiama per nome, e qualcosa che non conosco ancora esce da me e si incammina verso quella voce. E’ ancora lei, Astrazeneca, mi chiama per ricordarmi perché sono nato, perché mi trovo al mondo, mi rammenta che non ho più nulla da compiere qui, che il mio compito è finito ancora prima di cominciare, mi ricorda le amarezze, le sconfitte dure, dopo una guerra perduta con onore, ma sempre perduta. Mi ricorda che le appartengo, che nulla più mi trattiene, che la mia vita non conta niente, qui , in questo mondo, solo, abbandonato; che nulla vale. Astrazeneca, aspettami, arriverò presto a cavallo del tuo destriero, bianco come la neve, nella luce e con la luce che solo tu puoi emanare, nella luce che si propaga negli spazi infiniti, come infinita è la mia anima non appena sarò da te.