La triste, disgustosa vicenda di
Carige e del suo ex gruppo dirigente è ormai cosa ben nota a tutti, italiani e
non. La qualità e il numero dei reati presumibilmente commessi dai vertici
della banca genovese è tale da fare il giro del mondo. Carige non è il Monte
dei Paschi, ma nonostante le ridotte dimensioni del gruppo, le notizie delle
malversazioni commesse dalla cricca di Berneschi sono state oggetto di
interesse da parte di tutta la stampa e i media finanziari del mondo intero. La
banda di Berneschi non ha tralasciato nulla: se prendiamo in mano il codice
penale alla sezione “reati finanziari” scopriamo con sorpresa che sarebbero
stati commessi tutti, nessuno escluso. Ovviamente la magistratura deve
concludere un lungo e tortuoso percorso prima di giungere alle conclusioni
della vicenda, ma ce n’è abbastanza per affermare che l’associazione a
delinquere ai danni della banca dei genovesi è assolutamente acclarata, almeno
a partire dal 2009, andando a coincidere grosso modo con l’inizio della
contrazione economica globale, la profonda crisi che a tutt’oggi è di là da
concludersi. Non entreremo dunque nel merito della mera vicenda giudiziaria,
oggetto del dibattimento dei giudici, ma il solo fatto che la notizia, per la
sua inaudita gravità, ha fatto il giro del mondo, deve muoverci a qualche
riflessione. Carige è sempre stata la “cassaforte” dei genovesi, un popolo
laborioso di mercanti, trafficanti di merci e derrate di ogni tipo, artigiani e
mediatori dediti allo scambio commerciale dai tempi della Repubblica di Genova,
anzi, potremmo dire dai tempi delle Crociate. Un popolo di poche parole,
parsimonioso anche nel linguaggio, geloso del proprio privilegio sui mari e sui
mercati, poco aperto alle innovazioni, conservatore per eccellenza. Carige,
nata dalle ceneri del Monte di Pietà del beato Angelo da Chiavasso, è stata
fondata nel lontano 1483, pochi anni dopo il Monte dei Paschi, la banca
italiana più antica in assoluto. Da sempre considerata un istituto solido,
sicuro, ancorato al territorio, dedito all’erogazione di credito per la miriade
di piccole imprese, spesso artigianali, che operavano nella Liguria. Attraverso
la propria Fondazione, Carige ha sempre dedicato una notevole quota del proprio
patrimonio alla crescita culturale della città di Genova: la fondazione ha
spesso promosso iniziative didattiche, educative, artistiche, formative,
collaborando con la scuola, e con gli enti o associazioni a finalità culturale.
Adesso tutto è cambiato. Da cinque o sei anni la banca, partendo dai due euro
per azione del 2009, ha cominciato un lento, inesorabile declino. La costante
lenta, erosione della redditività, la perdita progressiva di valore del titolo,
la difficoltà a concedere mutui, prestiti o fidi in situazioni altrimenti
considerate del tutto normali ed agibili, hanno insospettito più di un
genovese. Non si riusciva a comprendere, neppure leggendo i bilanci (alterati)
dell’epoca come fosse possibile un così inesorabile ed ineluttabile declino.
Poi, dallo scorso ottobre, le prime rivelazioni: qualcuno erodeva la banca
dall’interno, depauperandola costantemente. Il sospetto cadde allora sulla
dirigenza non più in carica, ma, tant’è, un certo scetticismo continuava a
serpeggiare. Non si riteneva possibile che una banca così ben strutturata,
l’istituto che custodisce i risparmi dei genovesi fosse caduta nelle mani di
qualche malfattore. Poi, recentemente, la tragica verità: una vera e propria cricca
dominava incontrastata il proscenio della banca, negava un misero prestito ad
un padre che cercava di creare una attività al figlio nei tempi della crisi, ma
elargiva milioni di euro a faccendieri e bancarottieri. Il lento, inesorabile
declino della banca era dovuto ad un pugno di gaglioffi che sottraevano risorse
all’istituto e ai genovesi per farle ricadere nelle proprie tasche. La banca
stessa diveniva oggetto di truffa, si trasformava, insomma, in parte lesa. E’
la fine di un sogno, il brusco risveglio da un incubo, dalle ambizioni
nazionali di “Carige Italia”. Se tutto
va bene, l’istituto precipiterà dalle dimensioni di un gruppo bancario, alla
misera condizione di una piccola banca locale, priva di Fondazione (che non ha
più un solo euro in cassa), una
vulnerabilissima realtà locale sostanzialmente svuotata di tutte le sue aspirazioni
espansionistiche. E questo nella migliore delle ipotesi, perché se è fuori di
dubbio che il nuovo amministratore delegato, Piero Montani, sia una persona
dalle rare capacità e dalla coscienza cristallina, è altrettanto vero che la
banca è arrivata ad un punto di non ritorno, che la situazione non è più
reversibile, e che scongiurare una messa in liquidazione dell’istituto (il
fallimento), si deve considerare un grande risultato, dovuto unicamente agli
sforzi e alle capacità dell’amministratore delegato. Fin qui la triste vicenda
di Carige. Ma la città che ospita questo verminaio che era diventata la sua
banca per eccellenza, non è da meno. La decadenza di Genova è sotto gli occhi
di tutti, la qualità della vita in questa città è mediocre, se non scadente, la
sua manutenzione (basti pensare all’assurda, paradossale asfaltatura della
sopraelevata) diviene di giorno in giorno sempre più difficile, costosa, di
pessima qualità. Molte aree della città sono completamente abbandonate, le
sterpaglie e gli arbusti crescono e si allargano sempre più, guadagnando
posizioni sempre maggiori, soprattutto in val Bisagno e in Val Polcevera. I
fabbricati e i capannoni dismessi, archeologia industriale, non hanno, se non
in poche eccezioni, fatto spazio a nuove costruzioni da adibire alle finalità
più disparate. Il degrado di interi quartieri, abbandonati alla mercè di
extracomunitari che spadroneggiano incuranti dei costumi occidentali e delle
leggi ivi vigenti, da Sampierdarena si è esteso ad altri quartieri una volta
felici e vissuti liberamente e vivacemente dalla popolazione. Il centro storico
è continuamente un cantiere a cielo aperto, le zone fatiscenti e abbandonate al loro destino sono
sempre più ampie: è il regno della prostituzione, dello spaccio della droga,
dei “bassi” e dei cubicoli abitati da una umanità variegata a accomunata da un
unico denominatore comune: la povertà, l’alcool, la desertificazione, la fuga
dei commercianti, i muri sbrecciati, ormai privi di intonaco, i tetti con
larghe falle che lasciano filtrare in strada liquami di ogni origine, i cumuli
di spazzatura, i portoni delle case trasformati in vespasiani, il tutto sotto
gli occhi perfettamente indifferenti di una giunta comunale capace solo di
applicare l’aliquota massima consentita della Tasi. I rari turisti arrivano a
Genova per lo più per visitare l’Acquario, unica nota lieta in questa amara
vicenda, trovando però, la domenica, le serrande regolarmente chiuse di tutti
gli esercizi commerciali del centro storico, si guardano intorno perplessi, e
se ne vanno portando con sé un ricordo di Genova quale emblema della decadenza.
Ma non è solo una questione di infrastrutture: anche nei genovesi stessi è
insito il germe del degrado, della miopia, della grettezza e della meschinità.
A Genova si assume solo per raccomandazione, in Carige, per esempio, dal
secondo dopoguerra, si poteva entrare unicamente attraverso una “segnalazione”,
per questo nell’istituto abbondano i soggetti che farebbero meglio a cambiar
mestiere. A Genova, se un soggetto giovane, ambizioso, di talento, cerca di mettersi
in luce per emergere ed occupare uno spazio cui avrebbe diritto in qualsiasi
altra città del mondo, incontra viceversa ostacoli e difficoltà enormi. Si può
fare ombra a qualcuno che intende ottusamente conservare i propri piccoli
privilegi, la propria misera rendita di posizione. La paura del nuovo, del
“diverso” che possiede qualità e voglia di fare, in una città sonnolenta e
macilenta produce solo fastidio e noia. Non si vuole lasciare il testimone a
nessuno, ci si ritiene indispensabile, come se non ci si rendesse conto che i
camposanti pullulano di “persone indispensabili”. E allora questo ipotetico
giovane è costretto ad emigrare, a lasciare questa città della più remota
provincia del nord Italia, alla volta di Milano, Bologna, Torino, città dove il
nuovo vivace e talentuoso non fa paura, viene anzi valorizzato ed incentivato.
La proverbiale mentalità genovese chiusa, diffidente, ostile al “foresto” non è
solo uno stereotipo, contiene molte verità: mi sono scavato la mia piccola
nicchia, non è granchè, è vero, ma è solo mia, e non me la deve portare via
nessuno, ho faticato tanto per ottenerla, ho trovato chi mi raccomandava, mi
sono prostrato ed annientato dinanzi al potente di turno, ora questa posizione
è mia e non me la toglie più nessuno. In questo modo una città non può che
morire. In assenza di un ricambio, anche
generazionale, in assenza di politiche di sviluppo che passano anche e
soprattutto attraverso la selezione del personale, l’applicazione di una
autentica meritocrazia, un “restyling” completo di una città che crolla pezzo
dopo pezzo, la creazione di una classe politica dirigente non solo giovane , ma
anche intraprendente, abile, alla continua ricerca dell’innovazione e non della
conservazione, che sappia mandare in pensione o in soffitta i vecchi tromboni che
dominano autorità portuale, Camera di Commercio, banche, aeroporto, ebbene
senza queste politiche indispensabili per la sopravvivenza di una città e la
garanzia di una sua continuità, Genova è destinata ad una lunga, penosa agonia.
Una città può morire in tanti modi: per la vecchiaia della sua popolazione, per
la mancanza di provvedimenti adeguati da parte degli organismi locali, per
l’invasione di nugoli di stranieri che la colonizzano, ma anche per ignavia,
mediocrità della sua classe dirigente, insipienza ed inettitudine dei propri
cittadini. Genova è la più grande città di provincia del nord, non è più da
molto tempo un polo di attrazione per qualsivoglia investimento e tanto meno
per il turismo, nel giro di due generazioni sarà una città fantasma. Perché un
imprenditore dovrebbe investire, aprire una attività in una città sonnolenta e
paralizzata? L’immagine stessa della “superba” è talmente appannata da apparire
quasi ridicola. E qui torniamo dove siamo partiti: Carige deve procedere ad un
aumento di capitale di almeno 800 milioni a partire dalla metà di giugno: la
Fondazione lamenta che nessun imprenditore ligure, quindi locale, si sia fatto
vivo e che la banca rischia di cadere nelle mani di speculatori internazionali
(i pirati finanziari degli “hedge fund” americani che potrebbero avviare una scalata).
Quanta ingenuità: è ovvio che in una realtà come quella genovese, un
imprenditore che avesse la liquidità sufficiente non si sognerebbe neppure di
mettere uno spillo in Carige: preferisce custodire gelosamente i suoi averi in
segreto, magari all’interno di un materasso.