domenica 26 settembre 2010

MORTE DI UNA MADRE


Non è un fatto pubblico, è, anzi, uno dei più privati dell’esistenza, e non dovrebbe trovare spazio in un blog su internet, ma questa volta decido di fare un’eccezione, e di pubblicare qualcosa di intimo e difficilmente comunicabile. Da quattro anni mia madre, dopo la morte di mio padre, è ospite di una casa di riposo. E’ stato un lento accostasi all’evento che ora avrà luogo, verrebbe da dire, finalmente. Non è mai stata una buona madre. Da sempre la ricordo come una paziente psichiatrica, cui, in epoca più recente, è subentrata una forma di demenza senile. Non è stata una buona madre, o meglio, è stata una pessima madre, non per sua colpa, non si sceglie di ammalarsi. Forse non avrebbe dovuto sposarsi, forse non avrebbe dovuto avere figli, ma ormai il danno è stato fatto e non si può più tornare indietro. Però, adesso che sta morendo, non riesco a non avere compassione per lei e per me stesso, che sono, malgrado tutto suo figlio. Compassione perché lei si sta spegnendo lentamente e pietà di me che rimango solo, privo dell’ultimo tenue legame con questo maledetto mondo. Non ho più un solo parente, non ho famiglia, non ho più ormai neppure un legame sentimentale, non ho avuto figli. Ma adesso che rimango solo mi accorgo che, tutto sommato ho più pietà di me stesso che di lei che se ne va. Nessuno avrà più cura di me, nessuno si accorgerà se sono rimasto al mondo o no. Gli amici, quelli, sono andati, o non sono mai arrivati. Gli amici. Un amico di infanzia che fa l’odontoiatra ad Alessandria, che dopo la separazione dalla moglie si è talmente rincoglionito al punto da sposare una prostituta cubana. Un altro amico che vive a Sestri Levante e se non sono io a chiamarlo quelle tre o quattro volte all’anno, non di fa mai vivo. Un’amica che è tale solo sulla carta, che mi cerca solo quando ha bisogno di qualche cosa. Adesso che sono solo non so neppure a chi fare testamento, e se ha senso che io faccia un testamento. Mi farò cremare e qualcuno (ma chi?) si prenderà la briga di disperdere le mie ceneri, affinché nulla resti delle mie spoglie mortali in questo mondo. Nessuna tomba, perché non rimanga una “illacrimata sepoltura”. Mia madre muore in queste ore, piano piano, tra le sue piaghe torpide, dall’odore dolciastro, quell’odore di morte che tante altre volte ho sentito in quell’istituto, sempre annunziatore di un decesso. Chissà se lo avvertirò anch’io, su me stesso, quando sarà il mio turno. Mia madre muore nell’anonimato di un istituto che è un cronicario dove la gente va solo per morire o sopravvivere ancora un poco. Muore tra operatori stressati, stanchi e demotivati, vittime di un lavoro faticoso, duro, pesante sotto ogni aspetto, alcuni di loro già “bruciati” dalla loro opera. Ogni volta, in questi giorni, che entro nell’istituto, nella stanza dove la morte sta per ghermire la sua preda, un senso di profonda angoscia, che rasenta fisicamente l’angor, un sentimento ambiguo, composito, fatto di desiderio che tutto finisca, che non ha senso proseguire una vita ormai priva di scopo, totalmente dipendente dagli altri, intrisa solo di dolore e sofferenza, e, allo stesso tempo, il desiderio che si conservi ancora quello che non può più durare, che non può più proseguire, che è destinato a finire. Anche nel linguaggio medico il vocabolo “terminale” non ha soltanto una accezione scientifica, ma anche antropologica: significa che tutti noi siamo “esseri per la morte”, e che il momento della morte è un passaggio fondamentale della nostra esistenza, forse quello più importante. Per questo, lungi dall’anonima, terrificante, morte ospedaliera, ognuno di noi dovrebbe avere il diritto di morire nella propria casa, in mezzo ai propri cari, stringendo le loro mani, quando il silenzio è l’unico mezzo di comunicazione perché parlare ormai non ha più senso, è un silenzio che va oltre le parole. Invece, solo a pochi privilegiati è concessa questa morte piena di umanità e di conforto al tempo stesso. Si muore fulminati da un infarto, in un incidente stradale, in una tremenda corsia ospedaliera, soli, senza qualcuno che ci stringa lamano o sfiori con le labbra la nostra fronte, si muore di cancro, velocemente, giorno dopo giorno, divorati dal di dentro, storditi dalla morfina, nonostante le ottimistiche quanto inutili e fasulle statistiche sulla sopravvivenza  a questa malattia. Io queste cose non posso più dirle a mia madre, che ormai  ha già cominciato a morire, ma, a dire il vero ha cominciato a morire quando è entrata in quell’istituto, un posto senza orizzonti e senza finestre, senza domani e con un oggi onnipresente. Forse queste cose non le avrebbe capite neppure prima, molti anni fa, forse non avrei saputo neppure comunicargliele, trasmetterle quello che avevo e no ho più dentro. Si cerca sempre di evitare i discorsi che tirano in ballo, direttamente o indirettamente la morte. Fa paura, si cercano improbabili gesti scaramantici, si preferisce dire “ma via, quante tristezze, parliamo d’altro…” Già, parliamo d’altro… Mi sono sempre sentito rispondere così quando cercavo di introdurre con chichessia questo argomento. Esiste un Dio? La nostra anima è veramente immortale? Che cosa nasconde l’enigma della tomba? Ma tutto questo adesso non ha più importanza. Quando una madre muore, muore qualcosa anche dentro di noi, anche in un caso particolare come il mio. Colei che ci ha generato, mia madre con particolare sofferenza, al solito per l’inettitudine e l’incapacità dei medici che erano presenti. I medici…quanti personaggi rivoltanti fra di loro. Da quelli dell’ospedale dove mio padre ha trovato la morte, entrato per una enterite e uscitone dopo quindici giorni cadavere. Mi dicevano che ero troppo emotivo allorquando facevo loro notare che mio padre se ne stava andando. Salvo poi, darmi ragione ad esequie avvenute. Nessuno avrà più cura di me, sarò alla mercè di questa cricca di banditi, di cacciatori di soldi, di ignoranti pressapochisti, che potranno farmi a pezzi ed ammazzarmi come hanno fatto con mio padre, per il semplice fatto che nessuno perorerà la mia causa, nessuno cercherà di proteggermi dai loro continui errori e dalla loro inaudita superficialità. Io non sarò più in grado di difendermi, potranno fare di me tutto quello che vorranno e la mia fine sarà così accelerata. Io non ho diritto ad una morte dignitosa, dolce, umana: nessuno stringerà le mie mani, nessuno sfiorerà la mia fronte con un bacio. Ma ormai non ha più importanza. Con mia madre se ne va anche la mia ultima responsabilità. Non dovrò rispondere ad altri che a me stesso, e alla mia coscienza. Smetterò di lavorare, di fare un lavoro che mi ripugna da anni, cercherò di rientrare in possesso di quello che il mio povero padre mi ha lasciato a prezzo di sacrifici. E se la crisi economica si divorerà tutte le mie rendite, che importa? Non ci sono più che io, posso anche farmi ingoiare dal nulla. Siamo esseri condannati alla morte, dopo essere stati illusi di avere uno spirito superiore, immortale, ma sappiamo che potrebbe non essere così. L’unica libertà che ci è stata concessa è quella di scegliere il momento della propria fine. Non sprechiamo questo privilegio: se qualcuno ritiene che la vita che gli è stata concessa non valga la pena di essere vissuta e decide per la morte, non biasimiamolo per questo. Ognuno farà le sue valutazioni, oppure non le farà come la maggioranza di noi, che cerca di dimenticare quello che lo aspetta immergendosi nelle proprie stupide occupazioni. E a te, madre mia, cosa posso lasciare prima che sia tu a lasciare me? Chissà se mi riconosci ancora, se avverti la mia presenza accanto a te. Alla fine della tua vita hai perduto anche l’uso della parola, solo i tuoi occhi hanno conservato una certa mobilità. Ma il calice deve essere bevuto sino all’ultima goccia. Il suo corpo assumerà sempre di più le fattezze di uno scheletro, il processo di decomposizione inizierà con il cuore ancora pulsante, la bocca semiaperta, le guance tirate che lasciano intravvedere i malfermi denti, le livide fosse orbitali, gli occhi semi aperti ma già spenti e senza sguardo, tutta la sequela non deve essere risparmiata, affinchè il calice sia consumato del tutto. E quando il momento verrà, niente papisti, niente ipocriti farisei a recitare omelie già confezionate, ad invocare il perdono dei tuoi peccati, a somministrarti un viatico che nessun essere umano è in grado di darti. Solo Dio fa una radiografia delle nostre coscienze, non ci sono indegni intermediari. Le mie labbra allora potranno, per l’ultima volta, sfiorare le tue guance terree, basterebbe una bara piccola, così piccola…
Quando muore una madre non accade nulla di quello che vagheggiano e descrivono i poeti: la verità è un’altra: ha senso la vita? La vita forse non ha senso, è solo volgare. Quando muore una madre l’unica cosa che accade è che nel cuore del figlio che resta cede di schianto qualcosa che poi crolla, e dalle cui macerie non si può più costruire nulla, perché nulla si può edificare su qualcosa che non c’è più, anche se non c’è mai stato, come nel nostro caso. Il vuoto rimane vuoto, continua la mia corsa verso il niente, continuerò a girare a vuoto senza risultato, a cercare di riempire quello che non si può riempire perché non esiste neppure il recipiente da colmare. Eravamo solo io e i miei genitori: adesso ci sono solo io. Non c’è famiglia, c’è solo vuoto. Ormai è tardi per un altro miracoloso incontro: nessuna donna sarà più al mio fianco. Per quello che mi resta, continuerò da solo, è preferibile la solitudine alle discussioni estenuanti, ai falsi adattamenti, alle polemiche senza fine, ai conflitti spinti fino all’odio…Basta, con te se ne va quel poco di interesse che avevo ancora nella vita.  All’indomani della tua morte qualcosa cambierà, anche se non so ancora esattamente cosa… Addio, mamma.